{"id":303,"date":"2013-07-16T15:41:35","date_gmt":"2013-07-16T15:41:35","guid":{"rendered":"http:\/\/fabriziodamico.it\/?page_id=303"},"modified":"2013-07-19T10:31:18","modified_gmt":"2013-07-19T10:31:18","slug":"eliseo-mattiacci-alla-fattoria-di-celle-in-eliseo-mattiacci-microcosmo-santomato-collezione-gori-2000","status":"publish","type":"page","link":"https:\/\/fabriziodamico.it\/?page_id=303","title":{"rendered":"\u2018Eliseo Mattiacci alla Fattoria di Celle\u2019, in \u2018Eliseo Mattiacci. Microcosmo\u2019, Santomato, Collezione Gori, 2000"},"content":{"rendered":"

La cosa\u00a0: \u201cun satellite felice dove succedono cose imprevedibili (una piccola isola della creativit\u00e0). Un\u2019opera che abbia un po\u2019 il sesto senso degli animali della foresta, che avverte le condizioni atmosferiche, le sensazioni, che riceve e che trasmette dei segnali …\u201d.<\/p>\n

E il luogo\u00a0: \u201clo spazio dove sar\u00e0 organizzato il lavoro, gi\u00e0 di per s\u00e9 ha degli impulsi e dei sensi segreti. Il bosco in cima ad una collina dove trover\u00f2 lo spazio per agire non avr\u00e0 strade di accesso, si arriver\u00e0 all\u2019opera attraverso dei sentieri, seguendo delle tracce, con un fiuto da vero segugio …\u201d.<\/p>\n

Mentre salivo lentamente dalla villa secentesca di Giuliano Gori, attraverso il parco delle sculture, su verso la cascina che porta il nome antico di Terrarossa e che ospita adesso questa mostra di Eliseo Mattiacci, pensavo a queste e ad altre parole che egli ha scritto una volta (su \u201cA.E.I.U.O\u201d, la rivista immaginata da Bruno Cor\u00e0 sul finire degli anni Settanta) sognando un\u2019opera da fare \u201cnel bosco\u201d.<\/p>\n

Sono passati tanti anni, da allora\u00a0; e quell\u2019opera nel bosco non \u00e8 mai nata. Ne ho sempre avuto rimpianto, perch\u00e9 penso che il bosco sia uno dei luoghi che da sempre \u2018attendono\u2019 Mattiacci. Cos\u00ec, \u00e8 stato fin troppo facile, percorrendo quei viali ai cui fianchi s\u2019allargano, uno dopo l\u2019altro (quasi ad ogni svolta aprendosi in nuove prospettive\u00a0: vicine, poi d\u2019improvviso lontanissime) crinali e colli, prati e boscaglie, \u00e8 stato facile e quasi ovvio, adesso, guardando camminare davanti a me Gori e Mattiacci e intuendo il loro accordo istintivo, pensare che forse, finalmente, quell\u2019idea potr\u00e0 prendere, qui, forma.<\/p>\n

Sar\u00e0, se sar\u00e0, certo assai diversa da quella allora immaginata\u00a0: se non altro perch\u00e9 il K.G.B. (che, nelle previsioni di Mattiacci, avrebbe dovuto essere \u201cincuriosito\u201d da quello strano luogo fatto di suoni, luci e rumori, di magia e di terrestrit\u00e0, un po\u2019 tecnologico e un po\u2019 ancestrale) non esiste pi\u00f9\u00a0; e nemmeno la C.I.A. (altro possibile \u2018utente\u2019 dell\u2019opera nel bosco) \u00e8 pi\u00f9 quella di una volta. E perch\u00e9, a forza d\u2019annunciarlo e di nominarlo come futuribile, il terzo millennio \u00e8 arrivato, anche se si prospetta non troppo diverso dal\u00a0 precedente. Infine, perch\u00e9 nel frattempo Eliseo \u00e8 cambiato e, senza perdere il gusto dell\u2019avventura, sa adesso che arrivare a dare ai suoi sogni l\u2019approdo di una forma non \u00e8 lo stesso che compitare \u201cformalisticamente\u201d (come si diceva un tempo, rabbrividendo) il proprio linguaggio.<\/p>\n

Diversa, allora. Ma, se infine sar\u00e0, \u201cl\u2019opera nel bosco\u201d sapr\u00e0 certo essere indimenticabile.<\/p>\n

Come indimenticabili sono, per tornare all\u2019oggi, le Open Field Vertical Elevations<\/i> di Richard Serra, le otto pesanti, squadrate, immani pietre che misurano senza errori il crescere, o il digradare, del vastissimo pendio su cui sono dislocate\u00a0: e – in quest\u2019opera che segna un culmine del percorso ideativo dell\u2019artista americano\u00a0: pregna d\u2019una capacit\u00e0 di suggestione che va probabilmente persino al di l\u00e0 delle intenzioni, pi\u00f9 dichiaratamente minimaliste, del suo autore – \u00e8 come se un roco eruttare di forme archetipiche si liberasse con fatica dal ventre della terra. Alla sommit\u00e0 di quel colle, c\u2019\u00e8 infine Terrarossa\u00a0; e proprio di fronte alla cascina, due grandi acciai degli anni Novanta, Le vie del cielo<\/i> e Riflesso dell\u2019ordine cosmico<\/i>, attendono chi sale. Che l\u2019abbia o meno, Mattiacci, pensata come tale,\u00a0 \u00e8 questa la sua prima risposta alla scura possanza di Serra.<\/p>\n

E basta questo primo, forse casuale confronto del cort\u00e8n di Mattiacci con l\u2019inusuale pietra di Serra (o l\u2019altro confronto che le sue due opere sembrano ricercare con l\u2019incombente assise dei grandi orci in vetroresina di Robert Morris, che saturano lo spazio di un cascinale non lontano da Terrarossa) a verificare – ove ancora ce ne fosse il bisogno – la misura in cui l\u2019opera pi\u00f9 recente di Mattiacci si qualifichi oggi come interamente congenere al linguaggio maggiore della cultura artistica internazionale.<\/p>\n

Poi entri a Terrarossa\u00a0: e in quegli spazi improvvisamente raccolti – pi\u00f9 grandi o pi\u00f9 piccoli\u00a0: ma comunque tutti misurabili, esperibili, sala dopo sala, con un solo sguardo – hai precisa la sensazione di quale sforzo la scultura debba oggi compiere per farsi, come gi\u00e0 aveva intuito Arturo Martini, non pi\u00f9 \u201cun oggetto, ma un\u2019estensione\u201d. E in questo sforzo, in questo – quasi, a tratti – suo patimento, avverti un suo oggi fatale traguardo, di caduta o salvezza. Non essere pi\u00f9 cosa, ma spazio\u00a0: in un luogo ove le nostre convenzioni ed attese ci spingono a cercare e riconoscere appunto cose, oggetti, collocati ed accolti entro<\/i> uno spazio.<\/p>\n

Penso cos\u00ec alla scultura in un interno, oggi (a quella scultura, \u00e8 ben chiaro, che abbia prevalente vocazione e confidenza con l\u2019opera nata per l\u2019esterno), come ad una sfida ulteriore, e davvero vasariana, in cui la licenza<\/i> non possa darsi se non come effrazione ad una regola<\/i> che continua ad esistere accanto ad essa, sogguardandola e, come una sentinella testarda, sorvegliandone la vita che, di troppo inconsapevole libert\u00e0, morrebbe.<\/p>\n

Ecco, Vasari scriveva della \u201cgraziosissima grazia\u201d che i maggiori fra gli artefici del suo tempo avevano saputo raggiungere trattando \u201cle cose della filosofia favoleggiando\u201d\u00a0; e ammetteva persino, poco oltre, che al processo ideativo di un\u2019opera potesse concorrere l\u2019\u201dinvenzione\u201d\u00a0: ma non mai una \u201clicenza\u201d che fosse altra da quella che, \u201cnon essendo di regola\u201d, non di meno, infine, \u201cfusse ordinata nella regola\u201d. E quando ragionava cos\u00ec, non altro faceva che intuire – per primo – come alla natura dell\u2019opera d\u2019arte si confacesse, o meglio fosse ineluttabilmente necessario, quel bilico, quel precario equilibrio serbato fra regola ed eccezione, fra rigore e vertigine, fra normativit\u00e0 e trasgressione.<\/p>\n

Oggi, mi sembra che questa lontana intuizione critica vasariana possa valere ancora a leggere, in modo particolare, la \u2018scultura nuova\u2019 dei nostri anni prigioniera<\/i> dell\u2019interno. Almeno, su questo riflettevo quando, dalla luce piena delle colline di Celle, entravo nella penombra di Terrarossa. Ed \u00e8 questo che credo si debba dire prima di ogni altra cosa di Microcosmo<\/i>, (titolo complessivo che Mattiacci ha voluto dare alla sua mostra odierna)\u00a0: che esso si pone al culmine di un decennio dell\u2019operosit\u00e0 dello scultore marchigiano nel quale il confronto con l\u2019idea della grande e grandissima dimensione \u00e8 stato certamente egemone nel suo immaginario\u00a0; e che rispetto a questo suo recente passato Mattiacci, senza in nulla rinnegarlo, voglia oggi prendere un momento di distacco.<\/p>\n

Inoltre, che questa esperienza, coesa al suo interno come non era forse stata sino ad ora nessun\u2019altra esposizione di Mattiacci dagli anni Ottanta in avanti (nemmeno quella, del \u201993, complessa, e densa di opere folgoranti, ma confinata in uno spazio sontuoso quanto sostanzialmente indifferente come PradaMilanoarte), pensata dunque come un\u2019opera unica pi\u00f9 che come una somma di lavori indipendenti, segni un momento di grande felicit\u00e0 inventiva, e si ponga come tappa cruciale di una ricarica immaginativa di cui il prevalente commercio con l\u2019impegno monumentale gli faceva avvertire la necessit\u00e0.<\/p>\n

Microcosmo<\/i>\u00a0: quasi a dire che s\u2019ascolta oggi, a Terrarossa, l\u2019eco intera e perfetta di quell\u2019universo che da sempre \u00e8 il soggetto <\/i>della sua scultura. Di quel cosmo<\/i> che \u00e8 il luogo dei suoi sogni, delle sue avventure, delle scorribande della fantasia\u00a0; il luogo del suo rischio\u00a0<\/i>: del crampo logico, della contrazione semantica, della parola che scivola ambigua accanto alle cose, le accarezza e le frastorna, gioca con esse, quasi, sottraendogli infine il loro senso comune, e restituendoglielo diverso, inatteso, per sempre altro<\/i> rispetto a quello che tautologicamente le definirebbe, inchiodandole al suolo.<\/p>\n

Dal suolo (qualche volta ha detto persino\u00a0: dall\u2019uomo) Mattiacci parte, ogni volta, per il suo viaggio. Dal suolo volge lo sguardo in alto, e scopre la fissit\u00e0 delle stelle, il lento girare dei pianeti, la corsa delle meteoriti, il sorgere e le eclissi del sole e della luna, l\u2019ordine e il caos degli dei, delle idee, delle figure che abitano il cielo. I lampi di luce che lo attraversano, la dismisura delle energie che lo squassano, i tragitti di quei corpi celesti, Mattiacci li scruta (L\u2019occhio del cielo\u00a0: scultura che guarda<\/i>), li ripete (Totem con nuvola<\/i>), li registra (dopo il Carro solare del Montefeltro<\/i>, Un ascolto di vuoto<\/i> e infine la lunga serie dei Riflessi dell\u2019ordine cosmico<\/i>), li mima paradossalmente (Equilibri precari quasi impossibili<\/i>), li traguarda, forse progettando di partire da quelle rampe al loro inseguimento (Le vie del cielo<\/i>).<\/p>\n

\u00c8 quanto avviene, ormai da due decenni, a quella parte dell\u2019opera di Mattiacci che nasce (in una grande dimensione non retoricamente assunta, ma intimamente connaturata alla vocazione del luogo che l\u2019accoglie) in spazi aperti, sovente a diretto contatto con una natura c\u00f2lta ad una sua acme di vastit\u00e0 e possanza (le rive del mare, un ghiacciaio d\u2019alta montagna, la gola incassata di un monte). Oggi, a Terrarossa, a questo che \u00e8 il suo fondo e non scambiabile immaginario, Mattiacci ha dato figura organica in spazi, invece, raccolti. Ne discendono, di aula in aula, concentrate aggregazioni di segni che ellitticamente ripetono i temi usuali, ripercorsi adesso sovente in forme nuove e, come si diceva pi\u00f9 sopra, come potenziate dalla costrizione della regola<\/i> che li avvolge.<\/p>\n

Fra queste, straordinaria \u00e8 l\u2019immagine restituita da un piccolo ambiente del piano superiore, ove su un letto di sfere di piombo che moltiplicano, rifrangendola, la scarsa luce che piove dalla esigua apertura dell\u2019unica finestra (quelle stesse biglie che Mattiacci aveva raccolte per la prima volta nelle capienti vasche di ferro della Scultura stratosferica<\/i> e della Scultura cosmosferica<\/i>, entrambe della fine degli anni Ottanta) si posano, quasi fossero reperti precipitati sulla terra da sconosciute distanze, tre grandi sfere e semisfere d\u2019alluminio, che, in leggero rilievo, portano impressi i segni astrali del lungo viaggio celeste che le ha condotte fin qui. Un\u2019opera, questa, che ripete, variandolo, il fascino d\u2019una installazione per la prima volta esposta nel 1984 al Kunstforum di Monaco, Alta tensione astronomica<\/i>, rispetto alla quale il soffitto di travi, qui, svolge il medesimo ruolo di acceleratore spaziale che a Monaco dettavano i cavi elettrici pendenti dall\u2019alto.<\/p>\n

Questa tensione, cos\u00ec percepibile e insieme cos\u00ec priva d\u2019ansia, cos\u00ec limpidamente condotta al proprio approdo di forma, percorre poi ogni ambiente del cascinale\u00a0: con il senso ovunque reiterato di una intrusione perpetrata da avventurati segni celesti nell\u2019alveo di una misura che, pi\u00f9 che d\u2019umano soltanto, ha il sapore di una domestica ferialit\u00e0. E fin nell\u2019aula maggiore di Terrarossa, ove Mattiacci ha riunito, attorno a Per Cornelia <\/i>(1985\u00a0: scultura mirabile che innalza il suo globo di fuoco, di luce e calore sulle due esili barre incrociate che lo sorreggono in precario, slittante equilibrio), declinazioni del tutto nuove di suoi ormai antichi temi\u00a0: l\u2019energia della calamita\u00a0; lo slancio verso l\u2019altrove dei grandi binari di ferro addossati alla parete\u00a0; la forma\u00a0 tondeggiante e femminea della vasca\u00a0; infine, i cinque dischi con le fasi diverse dell\u2019eclisse, che \u00e8 la pi\u00f9 misteriosa fra le metamorfosi celesti.<\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":"

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