‘Lultimo Monet e la pittura italiana nel secondo dopoguerra’, in ‘Sguardi su Monet’, Skira 2015

L’ultimo Monet, la critica internazionale e la pittura italiana nel secondo dopoguerra

 

 

“Ci faremo l’abitudine, forse, ma io sono venuto troppo presto” (1)

 

 

È noto come la pittura italiana d’anni Cinquanta del secolo ventesimo si sia in più d’un caso riferita esplicitamente a Claude Monet – in particolare al tardo Monet –, come d’altronde avevano fatto , e andavano facendo, altre scuole pittoriche occidentali (segnatamente quella newyorkese), pagando un debito che lo scorso secolo – nella sua presa d’atto della grandezza di Cézanne, del tutto ignorato in vita ma eretto subito dopo la morte ad unico vero propugnatore del nuovo – aveva dimenticato o almeno, paradossalmente, messo fra parentesi nella prima metà del secolo. Al punto che il tempo successivo alla data fatidica del 1906 segnò l’inizio di una lunga sfortuna critica di Monet, che durò ininterrotta – persino in Francia – sino alla fine della seconda guerra, accentuandosi anzi dopo la morte (che lo colse a ottantasei anni, nel 1926: data nella quale era rimasto l’ultimo sopravvissuto del gruppo impressionista), quando gli anni Trenta e Quaranta finirono per abrogare quasi del tutto la sua memoria nella prassi pittorica dei contemporanei.

Al contrario, il tempo del Monet delle Ninfee, dei Ponti giapponesi, dei Roseti, dei Salici piangenti, delle Iris (figg. 1-4), influì profondamente nel secondo dopoguerra, e anche molto dopo il periodo post-bellico, su molti e rilevanti artisti italiani. Sino almeno alle scelte da essi compiute all’aprirsi del nono decennio del secolo, tanto che è possibile individuare in quel frangente cronologico una sorta di revival della fortuna del padre dell’impressionismo. Un rinnovato interesse che si diede pieno, e come giunto ad una sua acme, nel corso del nono decennio del secolo, nel momento cioè in cui più viva s’era fatta l’urgenza, rispetto al decennio precedente governato dall’egida dell’analisi autoriflessiva e del concetto, di una più intera reimmersione nella libertà della pittura. Fu quello, allora, un tempo in cui, contemporaneamente, era venuto sviluppandosi il dogma dell’astratto in modo meno ingessato e meno scolastico. E coloro che seppero cogliere allora il frutto più pieno di quell’eredità si trovarono a condividere una suggestione che giungeva loro da un tempo ormai remoto, provenendo da una formazione anche assai diversa: così che chi vi arrivava da un’esperienza integralmente astratta (come, ad esempio, Marco Gastini) si trovò a condividere le ragioni di chi proveniva dal territorio di confine fra astratto e figurativo, sia esplicatosi un tempo sotto l’egida del pensiero di Lionello Venturi (Antonio Corpora, sempre ad esempio), sia nell’alveo della diramata situazione italiana dell’informale (Piero Ruggeri, e dopo di lui Maurizio Bottarelli), sia indipendentemente dall’una e dall’altra di queste ipotesi (Mario Mafai alla sua più tarda stagione; il suo sodale dei nostri giorni, Giancarlo Limoni; o, ancora diversamente, Mario Schifano).

A costoro occorrerà aggiungere coloro che, negli stessi anni Cinquanta e nei primi Sessanta, più vividamente avvertirono le seduzioni del retaggio monettiano: anch’essi spartiti fra ‘venturiani’ (Birolli), “ultimi naturalisti” (Ennio Morlotti, o Pompilio Mandelli) o eccedenti dall’uno e dall’altro di questi retroterra – come fu per il caso particolarissimo di Tancredi (ovvero, molto dopo di lui ma con tanti densi ricordi e sotterranei richiami della sua pittura, di Davide Benati) di radice fondamentalmente astratta, e con un forte legame con la pittura americana, ma anche con un resistente bisogno di richiamare la natura a fonte del proprio immaginario.

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Mario Schifano (e una sua possibile eredità: da Claudio Palmieri a Giancarlo Limoni)

 

È sufficiente, ad esempio, guardare il dipinto di Mario Schifano Fiori maschili, fiori femminili [fig. 5], che è del 1984, per consentire sul fatto che in quel grande, meraviglioso spazio allagato dagli azzurri e dai verdi, e trapunto dai rosa e dai bianchi; in quello spazio che è solo superficie, senza fughe prospettiche in una profondità oramai inutile; in quel bisogno che vi s’avverte, in ogni suo punto, di una natura che vi si slarghi sovranamente e vi espanda il suo respiro, senza che la pittura per un solo istante si faccia prona all’obbligo di una pallida mimesi della realtà – in tutto ciò s’avverte, inequivocabile, la lezione antica, e ora di nuovo attuale, di Monet.

In particolare, dell’ultimo Monet. La cui citazione, qui evidentissima (come evidentissima essa è nelle opere di Giancarlo Limoni – quelle recenti, ma già prima ovunque nel lungo suo viaggio attraverso una pittura che dimostra in ogni sua tappa “una non perduta emozione di fronte alla natura”, come ha scritto di recente Giuseppe Appella che proprio dei dipinti qui richiamati [fig. 6] rilevava il “colore ebbro, squillante, dalla forza esplosiva” da cui sono percorsi e emozionati; o come altrettanto evidente essa appare nei grandi dipinti di Claudio Palmieri [fig. 7], invasi da una materia ingovernata, subito successivi alla metà degli anni Ottanta: quando più intenso era stato il suo rapporto con l’informale padano, e quando la suggestione dell’ultimo Monet sembra esser passata al filtro della natura cespitosa di Morlotti) non comporta in Schifano – come ci sarebbe forse potuti attendere da un protagonista tempestivo dei suoi anni, incline dunque a condividere con essi un’attitudine ironica, e quasi duchampianamente corrosiva, nei confronti dell’arte – nessuna   demistificazione, nessuna dissacrazione del modello, il cui “valore” non esce diminuito dall’atto della ripetizione indifferente che attua. Chiunque d’altronde abbia visto al lavoro Schifano ne ricorda l’intensità, l’eccitazione, l’energia che qualunque sua opera reclamava da lui (dalla più impegnativa, come è Fiori maschili, fiori femminili, alla più banale: fino alle tante serie di piccole tele che, poste l’una accanto all’altra, gli capitava di dipingere – per un sempre mal gestito mercato – quasi non guardandole, parlando d’altro, facendo altro, e ripetendo il gesto veloce e meccanico della mano sulla stessa porzione di spazio della prima, della seconda, dell’ultima tela). Quell’intensità, non relativa dunque alla singola opera ma all’idea stessa della pittura, o meglio alla vita spesa a fianco della pittura, aveva certo il contrappasso di una esibita irriverenza nei confronti di canoni secolari: esistenziali, professionali, persino morali. Ma, ancora una volta, quella provocatoria sottrazione d’aura non implicava un’analoga elisione di valore (2).

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Mario Mafai

 

Rinascere, 1959; o Solitudine, 1960: laghi di colore, soltanto, fanno l’immagine dei dipinti che chiudono gli anni Cinquanta di Mario Mafai. Di questi e di numerosi altri suoi dipinti, testimoni tutti d’una stagione di intenso lavoro. Cangianti in declinazioni tonalmente accordate – i gialli, le terre, i più cauti aranci; o, spesso, i rossi rugginosi – saturano la superficie, omogeneamente adesso occupata, e tutta protesa verso chi guarda, senza che si apra oltre essa alcuna fuga prospettica su di un’illusiva profondità, a tentare un’imitazione del naturale. Disseminati ovunque, i brevi colpi del pennello, qui e là intrisi di un bianco luminoso, percorrono affannati la tela, e dettano quel movimento gremito e ansioso che la governa. Ne escono pareti lungamente tormentate di colore opaco, donde trapelano, affiorando in punti, brevi rintocchi di bianco, lenti bagliori di luce.

Lionello Venturi aveva indicato, negli Otto pittori italiani (3), una radice possibile di dipinti immediatamente precedenti (come ad esempio Il mercato delle verdure [fig. 8]) nell’esperienza ormai anch’essa lontana di quei Jeunes peintres de tradition française che, nell’immediato dopoguerra francese, avevano riannodato all’oggi pensieri cubisti e fauve, o ancora più antiche ipotesi formali nella pittura di Francia: fino a Monet, e a Cézanne. E forse qualcosa di Bazaine, o del Manessier più recente, ripensa ora Mafai; o forse la sua memoria si spinge ancora più indietro. Certo il ‘da per tutto’ che questa pittura infine realizza – quella spazialità tutta immanente, satura in ogni suo punto d’energia a stento trattenuta – è (e non solo per le dimensioni ridotte dei suoi dipinti, raramente eccedenti il metro) interamente europeo: ne risulta una spazialità fondata su una scrittura paziente, ossessiva, lentamente rimuginante, non mai espansa verso uno sconosciuto altrove, né potenzialmente indifferenziata, com’era invece nell’all-over statunitense.

Mafai ha adesso sessant’anni: non ancora vecchio, si percepisce però –lucidamente – come irrimediabilmente fuori gioco, ora che non crede più a quella pittura di realtà che ha praticato tutta la vita, e in particolare nel nostro dopoguerra, dilaniato, anche per quanto attiene alla pittura, da vane guerre ideologiche (4). Nel ’58 ha avuto – e sarà l’ultima volta – una sala personale alla Biennale di Venezia, presentato appunto da Venturi: lì ha esposto dipinti in bilico fra memorie di realtà e una sorta di eccitato informale devoto al colore. La critica di sinistra, da sempre a lui vicina, mostra di non apprezzare questa sua svolta; tanto meno comprenderà le pitture che immediatamente seguono, presentate a La Tartaruga di Roma nel dicembre ’59 e alla Galleria Blu di Milano nell’aprile del ’60: ormai percepite come integralmente astratte, e sulle quali sembrò gravare un sospetto di filo-americanismo. Il mito del maestro della scuola romana era definitivamente tramontato, mentre un tormentato pittore rinasceva, fuori tempo, dalle sue ceneri (5).

 

 

Marco Gastini

“E l’immersione è questo: il cielo di Turner, la non-dimensione di Pollock, la diabolicità di Caravaggio, la tensione di Malevitch, il classicismo di Piero, gli scoppi di Kandinsky, la pennellata strisciata di Monet, l’energia trattenuta della piramide di Cheope, il mistero di Böcklin, la tensione magica di un dettaglio di Vermeer”. Dunque, nell’orizzonte delle esperienze pittoriche per lui cruciali, Marco Gastini, in una conversazione con Luigi Ballerini del 1982 (6), poneva esplicitamente Monet. Erano gli anni in cui egli raggiungeva l’acme dell’intenzione pittorica da trattenere sulla superficie: poco dopo, l’energia che ne scaturiva avrebbe invaso lo spazio dell’ambiente. Gli anni, erano anche, in cui il suo bianco si faceva impuro; e da casto, analitico, dimostrativo che era stato, si piegava ad essere sinopia della sua irruenza, della sua intenzione nuova di libertà.    Ancora per un attimo, e quasi a stento, trattenuta sulla pelle del dipinto è la foga che preme dentro S.T. FI, che è del 1981 [fig. 9]; su quella sua pelle esile si posa, leggero, lo stagno, si strappa la pergamena. “I fumi, i profumi, gli odori che san di mirtillo, di latte, fieno muschio terra”: questo, anche, Gastini vuole mettere adesso nell’immagine, che solo il biancore che tuttora la governa trattiene in un registro di purezza. Per il resto, ovunque, s’ascoltano i profumi di una natura antica e pur tuttavia ancora flagrante, respirati accanto ad una pittura che si svincola sulla tela, dimenticando gli obbliganti teoremi che l’hanno occupata. Una pittura, ora, che segna, macchia, sgorbia, scrive lo spazio: con quella “pennellata strisciata” che ripensa Pollock, ma tramite lui rimonta a Monet, al suo cavalletto piantato in mezzo alle iris del giardino di Giverny.

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Maurizio Bottarelli

 

Un sentore di natura che monta – negli anni, per Maurizio Bottarelli, sempre più distintamente – dai cespi di verde, dalle cascate di azzurri, dai barlumi dei rossi, dai grigi che la luce diversamente riscalda: di una natura che l’occhio non sa né vuole oggettivare, e porre a distanza di fuoco. Una natura che s’è fatta, da paesaggio che era, ricetto delle speranze e degli spaventi dell’animo, e che nel suo grembo sa accogliere soltanto il palpito dell’esistenza. Finché l’eco di questo rispecchiamento di chi si riconosce nell’altro da sé, e là soltanto cerca la propria parola – sia essa seme, ramo, terra, acqua, corolla, radice – vince ogni altro sussurro; finché quella natura non ti piomba addosso, e ti strema.

Anche Bottarelli aveva sentito, negli anni Settanta in particolare, l’animo del tempo, e aveva condotto il suo approccio alla natura fino all’enumerazione algida dei propri gesti formativi, dei propri atti portati con piglio quasi analitico sulla tela, dove la mano dava e distoglieva colore, graffiava, incideva, scalfiva (per quanto già allora, in lui, con un gradiente alto d’emozione, talvolta quasi di dolore). Poi – dopo quella che era stata, per lui, una prigione – vennero anni più liberi, durante i quali fu nuovamente ammissibile quanto prima sembrava interdetto; e furono anni nei quali egli intraprese con quasi regolare frequenza quei lunghi viaggi di lavoro – la Scozia, l’Islanda, la Norvegia, fra le altre mete; e l’Australia, la Tasmania … – che assomigliano tanto alle ‘campagne di pittura’ intraprese da Monet giusto un secolo avanti [fig. 10]. “Monet e i laghi d’acqua di Giverny, i suoi roseti degli ultimi anni”: anni or sono potevo riconoscere questa fra le più antiche radici di Bottarelli: dimenticando però di ricordare com’egli sia giunto alla sua prima maturità, a Bologna, accompagnato dalla voce e dalla presenza di Francesco Arcangeli, che era stato fra i primi a riammettere Monet nell’alveo della contemporaneità (7).

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Antonio Corpora

 

Da tutt’altra storia, e da una tanto più antica generazione, è venuto Antonio Corpora: che per tutta la vita lunga e agguerrita, densa sempre di foga e di pensiero, ha amato Monet, al quale per un tratto disteso della sua prima maturità egli ha affiancato la memoria di Cézanne: considerandoli assieme i veri padri della pittura moderna. D’altronde la prima educazione di Corpora alla pittura avvenne, a Tunisi dove era nato, in un alveo di cultura francese (egli fu allievo allora, di tale Armand Vergeaud – che si era a sua volta educato, prima di trasferirsi in Tunisia, presso Gustave Moreau, avendo per compagni in quell’alunnato Dufy e Matissse). Corpora fu dunque fra i primissimi, in Italia (assieme, forse, al solo Birolli, che ne venne in contatto nel suo tempo trascorso a Parigi negli anni Trenta), ad avere intera cognizione della cultura d’immagine impressionista, e ad attestare precocemente la vitalità di questa radice (8); così che, all’atto del rinnovamento italiano dell’arte nell’immediato periodo post-bellico, egli poté offrire a Lionello Venturi – che già prima della guerra aveva dedicato all’impressionismo pagine e studi importanti; ma che non aveva inteso il grande carico di futuro insito nell’opera tarda di Monet – lo spalto fattuale per la teorizzazione sua dell’“astratto-concreto”, modo che in sostanza stemperava le istanze non figurative dell’avanguardia con vivide memorie di natura.

“Egli, africano, è tra noi forse il più europeo”, scrisse allora Renato Guttuso (9), definendo la peculiare e modernissima posizione di Corpora nella pagina che destinò al compagno nel catalogo della storica mostra alla Spiga di Milano, ove esposero assieme per la prima volta, nel ’47, gli aderenti al “Fronte Nuovo delle Arti”, gruppo che – patrocinato da Giuseppe Marchiori – riuniva i maggiori esponenti della nuova ricerca artistica nazionale. Dopo quella militanza, che segnò per lui quasi un esordio della prima età matura, Corpora elaborò quello che Cesare Vivaldi definì il suo “informale eterodosso”, e infine – dopo una parentesi in cui sondò l’ipotesi di una maggiore geometrizzazione dell’immagine – tornò alle sue fedeltà d’inizio: ma, accantonando ora la lezione di Cézanne, fu soprattutto il Monet di Giverny a condurlo nuovamente verso quella partecipazione intera alla vita dell’acqua e della terra, dell’alba e del tramonto, del vento e del sole a picco, e a quella nozione di una pittura data sulla superficie, ove la luce affiora da una non misurata profondità. Così vennero, a punteggiare fitti l’opera nella sua età tarda, i grandi fogli bagnati d’un leggero, luminoso acquarello; fino al grande telero con l’Omaggio a Monet [fig. 11], che ne documenta una devozione durata un’intera esistenza.

 

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1948: Arcangeli e Greenberg *

 

Monet era dunque nei pensieri di Corpora, e nei suoi propositi di rinnovare su quelle fondamenta il percorso della pittura italiana, già a datare dal 1946; bisognerà invece attendere qualche anno perché il caso del padre ‘dimenticato’ dell’impressionismo ritornasse a incidere sul dibattito critico. Un primo avviso, da noi, è già rinvenibile nel resoconto che Francesco Arcangeli fa della retrospettiva sull’impressionismo allestita dalla Biennale veneziana del ‘48 (10). Ove lo studioso scrive tra l’altro: “Se è debole, appunto, questa Venezia del 1908, non è detto che lo sia tutto l’ultimo Monet di cui tanto si sparla, mentre si trangugiano come capolavori tutti i Van Gogh e, peggio, tutti i Gauguin di questo mondo” (11); prendendo atto, dunque, della minorità in cui era stato relegato il Monet estremo, e mostrando – seppur con qualche titubanza – di non condividerla.

Nel luglio del 1952, egli scriveva poi, sulla rivista di Roberto Longhi, “Paragone”, del periodo più tardo di Monet, in margine ad un’ampia retrospettiva parigina del pittore: “È su questo periodo che si è steso ormai un velo reticente di sospetto; è questo periodo che, nel suo complesso, ha notevolmente declassato la considerazione di Monet” (12). Registrava Arcangeli, ma fieramente – stavolta – contestando quella improvvida svalutazione: “Certo, la natura non è più contemplata, ora; Monet si è come tuffato nel suo grembo, da cui pullulano nebbie, riflessi, larve, e ne interroga il segreto, come dal di dentro. Rispettate il dramma, foss’anche sfortunato, di quest’occhio che s’intorbida e trema per scrutare più a fondo”: e sembra già d’essere calati nelle motivazioni critiche e nella temperie emotiva che susciteranno, qualche anno dopo, il saggio Una situazione non improbabile.

Sono, quelle di Arcangeli, parole pesanti, oltre che bellissime: e le date che spettano loro le rendono perfettamente tempestive nella rivalutazione critica dell’ultimo Monet, che quel torno d’anni s’apprestava a registrare; e vennero come un annuncio preveggente di quella revisione. Una tempestività ribadita adesso dalla perspicacia della lettura recente, fornita da Lara Conte, in margine all’interpretazione della portata internazionale della critica di Carla Lonzi, di cui alcune considerazioni sulla distanza da porre fra la pittura di Pollock e quella di Riopelle ci riportano – scrive la Conte – “nel cuore del dibattito internazionale sulla riscoperta dell’ultimo Monet, avvenuta pressocché parallelamente negli Stati Uniti e in Europa fra la fine degli anni quaranta e l’avvio del nuovo decennio” (13).

Una rivalutazione la cui memoria deve comprendere, da oltreoceano, almeno Clemence Greenberg, che nella seconda metà del sesto decennio scriveva come Monet “all’ultimissimo periodo [… ] trovò delle soluzioni che gli consentirono di tenere felicemente il peso della pittura in superficie senza peraltro cessare di descrivere la natura”, e che i suoi “larghi sgorbi di tinta sbavati” sulla tela insegnarono molto ai “più avanzati pittori dell’avanguardia” (14); ma che già nel ’48 aveva annotato come “Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Bonnard e Matisse proseguirono nella riduzione della profondità fittizia del dipinto, ma nessuno di loro […] tentò nulla di tanto radicale da potersi confrontare con quanto fece Monet nei periodi centrale e finale della sua produzione” (15).

 

* Ringrazio Lara Conte per le suggestioni bibliografiche fornitemi, preziose nella stesura di questo e del successivo paragrafo di questo testo.

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Parigi, 1952

 

Nel ’52 Parigi aveva dunque celebrato Monet con una mostra di “settantacinque quadri”, fra cui “molti capolavori” (16). Ma fu forse più rilevante l’analogo, e ancora maggiore, omaggio che uno dei principali musei europei, il Kunsthaus di Zurigo, destinò a Monet quell’anno stesso (in anticipo, anzi, sull’edizione parigina della mostra): 126 dipinti sono registrati dal catalogo, fra i quali, per la prima volta dopo la morte, si potevano vedere riunite ben venti opere del tempo ultimo di Giverny (17). Nel dicembre di quel medesimo ’52, poi, André Masson consegnava alla rivista “Verve” una testimonianza ove tra l’altro nominava l’Orangerie e i suoi grandi teleri “la Sixtine de l’impressionnisme” e “uno dei vertici del genio francese” [fig. 12] (18). Quanto tempo era dovuto trascorrere perché questa che oggi ci appare come una considerazione ovvia e fin banale venisse formulata; quanto tempo da quando si tacciava l’Orangerie di semplice “decorazione”. E concludeva con il suo “auspicio di vedere i nostri giovani pittori scoprire Claude Monet. Parimenti opportuna – scriveva infine Masson con una punta di polemica – mi sembrerebbe poi la sua riscoperta da parte dei meno giovani” (19). Sullo stesso numero di “Verve”, Gaston Bachelard, da uno spalto di ancora maggiore autorevolezza, dedicava infine alle ninfee di Monet un seducente scritto, commentato da numerose tavole riproducenti fotografie del giardino di Giverny, e dipinti di Ninfee e di Iris [fig. 13]. Ed è un saggio, questo, che il filosofo concludeva scrivendo che “Monet fu un servitore e una guida delle forze della bellezza che conducono il mondo”, raffigurando quei fiori d’acqua che “dopo che Monet li ha guardati, son diventati più belli, più grandi” (20).

 

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Pierre Restany 1955 (su una rivista torinese);

il ‘nuovo’ Arcangeli (1956-’57);

ed Ennio Morlotti

Ma è forse Pierre Restany ad attestare con ultima chiarezza, qualche anno dopo, la contiguità della ricerca estrema di Monet con la contemporaneità. Nel 1955 egli scrive infatti tra l’altro (21): “restringere a Cézanne e a Picasso il centro della pittura moderna appare oggi abusivo. In effetti, tutto un territorio della ricerca astratta si allarga in una direzione parallela e le radici di questa corrente ‘autre’ devono in gran parte essere ricercate altrove, all’incrocio finale dell’opera di Monet, nelle Ninfee” [fig. xx]. E altrove: “L’acqua dello stagno [di Giverny] assorbe il cielo e le ninfee inghiottono le nuvole […]: qui ha termine lo sviluppo ispirato da Turner. È questo, anche, l’incipit d’una pittura astratta non-strutturale, estranea all’ordine neo-cézanniano delle rappresentazioni geometriche: una pittura di cui elemento essenziale è l’organizzazione ritmica (Bazaine e Hartung hanno allargato la breccia così aperta)”. Ed è questa, forse, la prima volta che così decisamente si ribalta la (peraltro vana) questione della primazia sull’influsso esercitato sulla contemporaneità dai due padri della pittura moderna (22).

Ultima tappa di questo essenziale panorama che rammenta, per esempi certo parziali, i momenti salienti della riconsiderazione della vitalità di Monet, in particolare del Monet tardo – sulla pittura informale, d’astrattismo lirico, e infine dell’art autre, negli anni Cinquanta, è il contributo arcangeliano, annunciato nel ’54 ne Gli ultimi naturalisti, ed espresso fra ’56 e ’57 con definitivo convincimento in Una situazione non improbabile. Nel primo scritto “i ‘sogni in natura’ del tardo Monet” erano messi a capo d’un albore di nuova riconversione alla natura d’un gruppo di pittori di Francia e d’Italia del nord, insieme a memorie di Courbet e di Vuillard” (23). Nel secondo saggio, assai più esplicitamente asserito era il debito di costoro nei confronti di Monet. “Vorrei tornare per un momento alla situazione del 1948 in Italia”, scrive Arcangeli. “Per i giovani e per i non giovani la Biennale d’allora volle dire Picasso”; e “persino i giovani più vivi non sembravano avere occhi, in quel padiglione veneziano, che per Cézanne, Van Gogh, Gauguin: per i ‘non-impressionisti’, cioè. Eppure, già in quel momento, c’era più futuro in un quadro di Monet giudicato pessimo, En canot sur l’Epte [fig. 14], che nell’opera di quei padri di settant’anni di civiltà formale o espressionistica. […] Il tuffo monettiano entro il pullulare infinito delle acque del fiume era già più accordato con l’esplosione, accaduta proprio intorno al 1948, della pittura di Pollock, di quanto non lo fosse qualsiasi altra più recente pittura”. E concludeva questo suo giudizio: “Perché, se un progenitore della nuova pittura ‘non-formale’, o dell’‘ultimo naturalismo’, astratto o non astratto che sia, esiste, questi è, fra tutti, Claude Monet” (24).

Né è per caso che Arcangeli ricordi, allora, quel particolare dipinto di Monet (con ogni probabilità il n. 1250 del catalogo di Wildenstein, appartenente alla breve serie di tele a proposito delle quali il pittore aveva scritto a Geffroy: “ho iniziato cose impossibili a farsi: acqua con delle erbe che ondeggiano sul fondo, è meraviglioso a vedersi, ma c’è da diventar pazzi a volerle fare” (25) ) proprio quando egli riconosce in quella intera immersione di Monet in un magma naturale – un’immersione rischiosa e senza prudenza; quasi senza speranza di riuscita – una intenzione analoga a quella che dimostrava ora di voler perseguire il pittore che gli aveva per primo ispirato il suo saggio, Ennio Morlotti. Sono gli anni, questi che chiudono il sesto decennio del secolo, in cui Morlotti, dopo alcune folgoranti intuizioni giovanili e dopo un lungo, faticoso laboratorio picassiano, scopre la sua lingua più alta in quello che Testori nomina, al suo insorgere, il suo “naturalismo di partecipazione” (26): un’immersione totale, senza distanza, nel grembo della natura, che lo porterà a spartire con essa tutta la propria esistenza. “Sono preso dall’orfico della terra, e sento il mio destino più chiaro e sereno”, scrive ad Arcangeli nel ’55; e l’anno stesso a Giuseppe Marchiori: “mi sento come un insetto dentro le cose”: è un’identificazione intera con la natura, quella che insegue ora: e non è difficile scorgere le ragioni che lo fanno, agli occhi del critico amico, vicino al sentire dell’ultimo Monet [fig. 15] (27).

Poi, come era stato per Monet a Giverny, Morlotti è tentato dalla sua solitudine: s’era già separato d’istinto dai compagni di strada del “gruppo degli Otto” e comincia ora, mentre s’avanzano gli anni Sessanta, a ragionare su una pittura diversa, ove l’aggancio alla realtà di natura resta fondante, ma è ora come destrutturato dal segno, dal crampo breve della mano che non diverrà mai – come per gli americani della pittura d’azione – gesto libero nello spazio (28); ma che rimarrà lì, avvinto alla tela alzata sul cavalletto, aspro e contratto, ostinato e coinvolto, a scrivere d’affanno la pasta erta del colore. Finché Morlotti non confesserà a Marco Valsecchi: “volevo e voglio raggiungere le mie aspirazioni di densità organica, fra vegetazione e carne umana; ma ora cerco di non lasciarmi affogare nella materia”. Con il recupero, per lui d’ora in avanti fondamentale, della linea d’orizzonte, s’apre così la lunga stagione ultima di Morlotti: nella quale lo spazio torna a bloccarsi, e a ruotare lentamente attorno ad un asse, recuperando la sua profondità: e sarà questo un tempo durante il quale si faranno in conseguenza più flebili le ragioni d’affinità con Monet.

 

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Piero Ruggeri

 

Paesaggi, sono, quelli che Piero Ruggeri immagina sulla metà degli anni Settanta; paesaggi “senza profondità, senza cielo, senza aria, senza dimensione naturale: una parete che si alza di fronte a noi e sulla quale minime variazioni, lievi strisciature, sottili agglomerati di materia iscrivono liricamente, come in un contatto, i movimenti nostri, umani, e i movimenti del mondo, naturali” (Roberto Tassi). Tutti i colori della natura precipitano allora sulla tela: i verdi, le ocra, gli aranci, i bruni, in quei quadri “di neve, di sangue e di bruciature, di carboni”, ha scritto altra volta Tassi; colori bruciati e sofferti che richiamano “un’immagine usata già per Ruggeri da Arcangeli, quando suppone che quelle tracce rosse e nere dei suoi quadri, a lasciarle ‘sia stata la zampa di un lupo ferito’” (29).

Nato a Torino nel ’30, alla metà dei Cinquanta era pittore, in una città diffusamente devota, allora, alla classicità bloccata e metafisica di Casorati. Ruggeri sa dimenticarlo, avvistando fra i primissimi in Italia la vastità dell’action painting di New York (30). A de Kooning, soprattutto, egli aveva allora guardato: mutuandone il modo sommosso dell’azione pittorica, la foga del gesto e la sua quasi cieca violenza, e soprattutto quella oscura, e talora fin disperante, volontà di rimanere avvinto con tutto il suo corpo alla tela; quella consapevolezza di una vita dell’opera identica e non scindibile dalla vita di chi a quell’opera dia figura. È il tormento, e la meraviglia, delle opere maggiori di de Kooning, da Woman 1 in avanti, che passa adesso in Ruggeri, in questa sua altissima stagione. Che, sia detto fra parentesi, basterebbe da sola a farne – assieme all’antico compagno di strada Vasco Bendini – uno dei maggiori, e più ingiustamente messi in un canto, nostri pittori della seconda metà del secolo scorso.

Fino al ’74, quando nascono, figli di quella foga, ma anche d’un nuovo incontro con la natura (occasionato anche dal suo ritirarsi nell’eremo di Battagliotti di Avigliana, borgo isolato sulle alture che fanno corona a Torino), questi “ben strani paesaggi” (nelle parole, ancora, di Roberto Tassi): quadri di grandi dimensioni [fig. 17] nei quali un acceso empito scritturale satura la tela d’energia compressa, di colori incendiati, di luci corrusche e violate, di densissime ombre. Sono rovi e fasciami d’erba, squassati dai lampi, battuti dal vento; “paesaggi” senza fughe possibili, occlusi e senza orizzonte, che, lasciata ogni mimesi dell’esistente, si bagnano dei profumi e dell’umidore di una natura prossima e incombente. Scritti tutti sulla superficie, è facile e quasi necessario ripensare davanti ad essi a Monet: ai suoi roseti più attorti, ai suoi ponti giapponesi, ai camminamenti più oscuri aperti a stento nel giardino di Giverny; e di fronte a quei vasti teleri, che così apertamente parlano una lingua estranea alle poggiature concettuali, ai freni autoriflessivi che ancora ingombravano tanta pittura di quel tempo, è ancora una volta facile riandare con la memoria ad un’altra, ormai antica, e inattuale, dimensione; a una vita, anch’essa, segregata dal mondo, e chiusa nell’orto concluso di un giardino.

 

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Tancredi (e Davide Benati)

 

Romantico e scettico, notturno e felice, è stato Tancredi: che ha avuto vita assai breve (nato a Feltre nel 1927, morì suicida a Roma nel ’64), ma colma di pittura straordinaria: più facile ad amarsi, però, che a battezzarla univocamente. Astratta, o densa di memorie di natura al punto da essere da queste sempre condizionata?

“Da un po’ di tempo mi piacciono le piante, le foglie e cose del genere perché ho riscoperto recentemente quello che ho sempre voluto fare col mio lavoro: portare la natura nelle case, nelle città dove non ce n’è abbastanza….” [fig. 18]: così scriveva ad un punto estremo dell’esistenza (31). Veniva, allora, da un’altra natura: dai “prati infiorati”, gremite tessiture di colore deposto sulla carta in piccoli grumi, in segni, punti e virgole infinite: gioiose, incantate superfici fitte di segnali senza allarme, di timbri e di toni cromatici gioiosi, di magiche, ornatissime scritture.

Alle quali s’apparentano, a distanza di tanti anni, i fiori giapponesi di Davide Benati: dati in ormai lunga e seducente sequenza – a partire dai primi anni Ottanta, e fino ad oggi –, identicamente memori di una natura detentrice d’ogni perfezione eppure, sempre e ogni volta, emozionata. Una natura casta e, nel contempo, trepida: nel suo farsi immagine al centro della pagina che governa, ma insieme pronta a sgusciare oltre quel campo, in cerca d’altra luce, d’altro spazio. In bilico sempre fra fermarne la figura e lasciarsene trascinare verso un altrove indefinito [fig. 19]: come avviene agli orizzonti che tagliano in due metà l’immagine nelle stampe giapponesi, che Benati – proprio come aveva fatto Monet – ha tanto studiato, e amato.

Ancora, Tancredi veniva dalle Venezie, dove il colore s’era smagrito, s’era fatto una pelle trasparente, diafana, incorporea quasi, per consentire alla luce, che lentamente affiorava da dietro, di effondersi piena, intensa sulla superficie. La superficie come unico luogo di una pittura che non sia mai solo imitazione, ma sogno e avventura, muove, per lui, dal “punto”: elemento basilare che diceva gli discendesse da Mondrian. Monema plastico dal quale “io parto attraverso grafie e colori istintivi per la conquista di nuove immagini di natura”. Per questo, la sua pittura, fondata su un paradigma fondamentalmente astratto, conserva infine sempre un forte profumo di terra e d’acqua, una connivenza con la realtà, con il suo tempo e i suoi luoghi: che è già latente in Tancredi quando, condotto al centro di una situazione internazionale di privilegio dalla Guggenheim, partecipò nel ’54 alla prestigiosa collettiva Tendances actuelles al museo di Berna, a fianco di Wols e Michaux, di Tobey e Pollock, fra gli altri.; e si incrementa col tempo, fino ai finali Fiori dipinti da me e da altri al 101%.

 

 

(1)  Così Monet a Georges Clemenceau, in G. Clemenceau, Claude Monet – Les Nymphéas, Plon, Parigi 1928, p. 22, cit. in R. Tassi, Monet e il Novecento, in Claude Monet e i suoi amici, cat. della mostra a cura di A. Buzzoni, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 1992; Artificio, Leonardo-De Luca Editori, Firenze, Milano-Roma 1992, p. 22.

(2)Su questa tarda stagione di Schifano, negletta in egual modo dagli studi e dal collezionismo, entrambi interessati unicamente al primo periodo ‘purista’ della sua opera, vedi F. D’Amico, Il paradosso di Schifano, pittore di primo e secondo grado, in Il presente si fa storia. Scritti in onore di Luciano Caramel, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 487-491.

Per Limoni, oltre al testo citato di G. Appella (Falsi astratti, cat. della mostra, Fabio Sargentini. Associazione culturale l’Attico, 2008, s.i.p.), vedi la completa monografia recente a cura di F. Moschini e G. Vaduva, Giancarlo Limoni, Gangemi editore, Roma 2013.

(3)  L. Venturi, Pittori italiani d’oggi, De Luca Editore, Roma, 1958.

(4)  Mafai testimonia il sopraggiunto suo malessere nei confronti della propria militanza nel campo realista in una densa conferenza tenuta a Roma nel ’57; cfr. M. Mafai, Il nulla + 1, galleria La Tartaruga, Roma, gennaio 1957 (testo ora pubblicato in Mafai 1902-1965, cat. della mostra a cura di G. Appella, F. D’Amico. F. Gualdoni, De Luca Editore-Mondadori, Roma-Milano 1986, pp. 207-208).

(5)  Nell’assenza, ancora oggi, di un catalogo generale dell’opera di Mafai, preziose precisioni bio-bibliografiche si rintracciano ora in F. Volpi, Il Diario di Mario Mafai (1926-1965). Integrazioni e nuove ricerche, tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 1999-2000; E. Vanzella, Mafai ultimo (1957-1965), tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 2000-2001; e da V. Stefani, La fortuna critica di Mario Mafai, tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 2001-2002.

Cfr. inoltre F. D’Amico, Mafai ultimo, e V. Rivosecchi, Mafai e la critica, in

           Mario Mafai 1902-1965), cat. della mostra a cura di G. Appella, F. D’Amico,

C. Terenzi, N. Vespignani, Roma, Palazzo Venezia; Skira, Milano 2007.

(6) M. Gastini, It is painting, in L.Ballerini, Spelt from Sibylt’s Leaves.  

         Explorations in Italian Art , cat. della mostra, Sidney, Power Gallery; Brisbane,

University Art Museum, 1982, s.i.p.

(7) F. D’Amico, Maurizio Bottarelli, cat. della mostra, Centro Mascarella,

Bologna, 1990; egualmente Walter Guadagnini (Bottarelli 1984-1993, in Maurizio Bottarelli. Dipinti e carte vetrate 1984/1993, cat. della mostra, Ferrara, Gallerie Civiche, Padiglione d’Arte Contemporanea, Palazzo Massari, 1993, p. 13) ricordava l’ultimo Monet fra le fonti primarie fonti d’ispirazione del pittore: “La Giverny di Bottarelli, inseguita sapendone l’irraggiungibilità, [è] fantasma della pittura e della sua impossibilità a rispondere attraverso i sensi alla complessità e alla conoscibilità del mondo …”.

(8) Fra i fondamentali contributi di Corpora di quegli anni ricordiamo almeno

Caratteri essenziali della pittura moderna, “La Fiera Letteraria”, Roma, 23

ottobre 1947; e, già pima, Arte francese d’oggi a Roma e Giovane pittura    

           francese, entrambi apparsi su “La Fiera Letteraria”, il 17 e il 24 ottobre 1946.

(9) R. Guttuso, Antonio Corpora, in Prima mostra del Fronte Nuovo delle Arti, Milano, Galleria della Spiga, 1947; ora nel prezioso volume che raccoglie gli Scritti di Guttuso, a cura di Marco Carapezza, Bompiani, Milano 2013, pp. 229-231.

(10) F. Arcangeli, L’impressionismo a Venezia, “La Rassegna d’Italia”, Milano, n.10, cons. in idem, Dal romanticismo all’informale, Einaudi, Torino 1977, vol. I, pp. 62-83.

(11) ibidem, p. 78.

(12) F. Arcangeli, Claude Monet, in Mostre, “Paragone”, n. 31, luglio 1952, cons. in idem, Dal romanticismo…, cit., p. 100.

(13) L. Conte, Carla Lonzi a Torino: alcune coordinate, in C. Lonzi, Scritti sull’arte, a cura di L. Conte, L. Iamurri, V. Martini, et al. / Edizioni, Milano 2012, p. 697, n. 41.

(14) C. Greenberg, L’ultimo Monet [1956-1959], trad. it. cons. in idem, Astratto, figurativo e così via, Allemandi, Torino 1991, p. 49.

(15) Singolarmente Greenberg mostrò invece di non comprendere il rilievo che assumevano nell’opera di Monet le Cattedrali di Rouen: ove una matericità densa e grondante – tanto carica di futuro – si stringeva ad un concetto di superficie radicalmente assunto.

Una corretta ed esaustiva analisi della rilevanza degli interventi di Greenberg nell’ambito del “Monet revival” (che coinvolse a vario titolo nella seconda metà degli anni Cinquanta, oltre allo stesso Greenberg, “certamente il critico più influente” in Usa in quegli anni, tra l’altro personalità come Thomas Hess o William Seitz; responsabili di istituzioni museali come Alfred Barr; oltre a musei di primaria importanza come il MoMA di New York, o critici della stampa quotidiana come John Canaday, del “New York Time”) è ora il saggio di Michael Leja, The Monet revival and New York School Abstraction, in Monet in the 20th Century, cat. della mostra, a cura di P. H. Tucker with G.T.M. Shackeford and M.A. Stevens, Royal Academy of Arts, London; Museum of Fine Arts, Boston; Yale Universiy Press, New Haven and London, 1998, pp. 98-108 e 291-293.

Leja sottolinea fra l’altro come negli Stati Uniti risulti evidente, nell’innescare il revival monettiano del secondo dopoguerra, la priorità dell’azione degli artisti su quella dei critici (che solo in rarissimi casi è precedente al ’55): in particolare, anche se con molte difformità reciproche, di Pollock, Rothko, Still, Reinhardt, Tobey e Newman (secondo l’elenco che ne fornisce Hess nel ’56), e ancora Philip Guston, Joan Mitchell, Sam Francis, Nell Blaine, Miriam Shapiro, Wolf Kahn, Hyde Solomon.

(16) F. Arcangeli, Claude Monet, cit., p. 102.

(17) Il catalogo del Kunsthaus ha testi introduttivi di Georges Besson e René Wehrli. Un’ulteriore tappa della mostra – dopo la sosta parigina visitata e recensita da Arcangeli – è al Gemeentemuseum Van’s-Gravenhage dell’Aia ove, da luglio a settembre 1952, furono novanta le opere esposte.

(18) A. Masson, Monet le Fondateur, “Verve”, VII, 1952, p. 68.

(19) Roberto Tassi sottolineerà come sia singolare che proprio un fautore, come Masson, della poetica surrealista, che aveva indirettamente contribuito alla dimenticanza di Monet negli anni Trenta, fosse allora fra i primi ad additarne l’insegnamento carico di futuri sviluppi; R. Tassi, Monet e il Novecento, in Claude Monet e i suoi amici, cat. della mostra a cura di Andrea Buzzoni, Ferrara, Palazzo dei Diamanti 1992; Artificio, Leonardo-De Luca Editori, Firenze, Milano-Roma 1992, pp. 17-32.

(20) G. Bachelard, Les nymphéas ou les surprises d’une aube d’été, ibidem, p. 64.

(21) P. Restany, Lyrisme et abstraction depuis Monet, “i 4 Soli”, II, n. 3, maggio-giugno, Torino 1955, p. 14.

(22) Più confusamente, certo, e quasi misconoscendo lo stacco che il tempo delle Ninfee aveva segnato nei confronti dell’impressionismo storico, era stato peraltro un italiano, il giovanissimo Giuseppe Marchiori, ad avvertire fra i primissimi la grandezza di quella pittura (sul “Corriere Padano”, il 21 luglio del 1931; citato in R. Tassi, Monet e il Novecento, cit., pp. 29-30).

(23) F. Arcangeli, Gli ultimi…, in Dal romanticismo …, cit., p. 323.

(24) F. Arcangeli, Una situazione …, in Dal romanticismo …, cit., p. 340. Successivamente, Arcangeli ha scritto molte volte su Monet e sulla sua costante presenza nella vicenda della pittura italiana fra sesto e settimo decennio del ‘900; da ricordare soprattutto, notevole per la freschezza del ‘parlato’ che Roberto Tassi ha serbato nell’edizione a stampa da lui curata, la doppia conferenza tenuta da Arcangeli presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1962, poi edita con il titolo Monet da Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1989; a cura e con una nota di R. Tassi, Monet, Arcangeli e il Déjeuner sur l’herbe.

(25) Monet a G. Geffroy, in D. Wildenstein, cit., lettera 1060, Giverny, 22 giugno 1890.

(26) Il contributo fondamentale, così tempestivo, di Testori è Paesaggi di Morlotti 1939-1953, “Il Milione”, bollettino n. 3, n.s., Milano, ottobre 1953.

(27) Le parole citate di Morlotti sono ora in Ennio Morlotti. Catalogo ragionato dei dipinti: G. Bruno, P. G. Castagnoli, D. Biasin, 2 tomi, Skira, Milano 2000.

Da sempre ritenuto prossimo alla poetica naturalista di Morlotti, e anche da Arcangeli sovente accostato al pittore lombardo, è Pompilio Mandelli. Di cui il critico scriveva nel ’54, distinguendo il modo dei due: “[…] dove in Morlotti è angoscia profonda, in lui son piuttosto brividi, larve felici: ombre di figure umili, verzieri viola di primavera, torbide nevi sui tetti, rami spogli e pungenti d’ultimo inverno, pressura vegetale, colori forti d’autunno: impressioni-emozioni, il tremito, il rigoglio delle stagioni piuttosto che la loro cronaca” [fig. 16]. E torna Arcangeli, assai spesso, a ragionare su Mandelli; in più d’una occasione rammentando esplicitamente il suo discendere da Monet; così, ad esempio, nel ’56: “Che una violenza o felicità ‘non formale’ possa ancorarsi, nell’opera dei nostri [Mandelli, appunto, e Morlotti], al grande tuttora misconosciuto asse naturalistico Courbet-Monet-Cézanne a me pare […] garanzia di novità senza arbitrio, collaudo d’umanità”. E più avanti nello stesso scritto: “Mandelli, soprattutto in questi ultimi due anni della sua giovane maturità, è tornato ‘sul motivo’ quasi con la sicurezza d’un Monet”. Cfr. F. Arcangeli, Gli ultimi …, cit, p. 320; e idem, Pompilio Mandelli, Galleria del Milione, Milano 1956, cons. in Arte e vita. Pagine di Galleria. 1941-1973, introduzione di D. Trento, Accademia Clementina, Massimiliano Boni Editore, Bologna 1994, vol. I, p. 192.

(28) È ancora Arcangeli a dubitare, come farà sempre Morlotti, che si possano interamente identificare le ragioni dell’action painting con quelle dell’‘ultimo naturalismo’ padano. Pure, un gran passo in tal senso è compiuto tra ’54 quando, nel suo primo saggio su “Paragone” dedicato a questa congiuntura, egli aveva parlato di “rischio dell’arbitrio” a proposito del compore della pittura di Pollock, tesa a suscitare una “suggestione [che] presto si spegne per mancanza di alimento umano”, e ’56, quando elaborava il secondo di quei saggi, scrivendovi tra l’altro di Pollock e del suo modo: “Finalmente tutto era in gioco […] e l’opera d’arte era la scoperta d’uno specchio da sostenersi di fronte al sentimento”. Molto opportunamente Federica Rovati ha di recente ribadito come la fonte di questa riconversione arcangeliana sia da individuarsi in uno scritto del pittore Louis Finkelstein (espressamente ricordato in Una situazione non improbabile) su quello ch’egli chiama l’“impressionismo astratto”, apparso su “Art News”; uno scritto che indirettamente ricollega l’opera del tardo Monet con la nuova pittura statunitense (F. Rovati, Francesco Arcangeli lettore di ‘Art News’, “Paragone”, LXII, n. 95 [731], gennaio, Firenze 2011, pp. 59-65).

(29) R. Tassi, Il pericolo dipinto, “la Repubblica”, 15 dicembre 1987; ora in R. Tassi, Figure nel paesaggio, a cura di P. Peracchia, saggi di M. Lavagetto, C. Zambianchi, Ugo Guanda, Parma 1999, p. 399; F. Arcangeli, Opere recenti di Piero Ruggeri, cat. della mostra, Parma, Galleria della Steccata, 1967; cit. da Dario Trento, Ruggeri e la critica, in E. Crispolti, F. Fanelli, D. Trento, Piero Ruggeri, Allemandi, Torino 1997, p. 256.

(30) Tanto che Luigi Carluccio testimoniava, poco dopo, d’aver visto presso di lui “prima che altrove” riproduzioni fotografiche di opere di Gorky, Pollock, Kline, de Kooning. Ed è importante, anche, segnalare questa adesione di Carluccio a Ruggeri e ai giovani torinesi che gli erano sodali, perché è proprio per essa, per non dar adito a una gara giocata con il critico torinese cui lo lega stima e amicizia, che Arcangeli, con ogni probabilità, non ha scritto più ampiamente di lui, e in particolare non l’ha – se non di sfuggita – chiamato a far parte degli ‘ultimi naturalisti’. Per la testimonianza di Carluccio cfr. Piero Ruggeri, 1997, cit..

(31) Tancredi. Il mio vocabolario è l’universo, cat. della mostra a cura di C. Natto, Milano, Padiglione d’Arte Contemporanea; Mazzotta, Milano 1984, p.18. Una registrazione completa degli scritti editi e inediti di Tancredi è in M. Dalai Emiliani, Tancredi. I dipinti e gli scritti, 2 voll., Allemandi, Torino 1997.