Radici e prima maturità di Turcato

                                    

Prendo questa citazione da Gabriella Drudi: “puoi cercare per migliaia di anni, e non troverai niente. Oggi con la scienza si può spiegare tutto. Eccetto la pittura. Puoi andare sulla luna o camminare sul fondo dei mari, o fare qualunque altra cosa, ma la pittura rimane pittura perché elude questo tipo di indagine. Rimane come una domanda”. Un mistero. Penso che Turcato, se le avesse conosciute, avrebbe fatto sue queste parole di Picasso. Puoi andare, avrebbe aggiunto, verso esiti intuiti, avvistati, ghermiti un attimo e poi, all’improvviso, lasciati cadere. A tentoni verso una meta, che fugge sempre un po’ più in là. Nulla, mai, di sistematico, c’è stato nella sua ricerca; nessuna pietra che poggi stabilmente su un’altra pietra. E il margine di rischio assunto è stato per lui, giorno dopo giorno, così alto, così forte, e così palesemente ignorate e irrise sono state le regole della sintassi e della consequenzialità linguistica, che gli è stato poi spesso attribuito un atteggiamento non solo ironico, ma dissacratorio nei confronti della pittura.

   Il che, per generazione e formazione – se non altro – non può appartenergli. E’ stata invece misura di vera grandezza, questa libertà raggiunta oltre la regola: forse proprio la sua maggiore. Implicita, d’altronde, quest’assenza di regola, nel fondamento che Turcato volle dare alla sua pittura: e che, espunta presto dal suo orizzonte problematico la “faccenda del contenuto” – come poi chiamò il vincolo mimetico che si pretendeva di imporre alla pittura per obbligo ideologico: ripetendo sino alla fine il suo anatema verso quell’oscuro fantasma – fu il colore. Che egli intese come realtà complessa, ambigua, incongruente con ogni certezza, renitente ad ogni assioma.

   Il suo colore ricambiò la delega immensa che gli veniva fatta: e non fu mai eguale, mai prevedibile, mai secondo ad altre, più rigorose e preventivabili ragioni di forma. Lungo gli straordinari, e straordinariamente mobili, anni Cinquanta di Turcato (con una premonizione breve ma già intensa alla fine del precedente decennio: a volerne stabilire più precisamente un avvio, probabilmente dalle Rovine di Varsavia in avanti), il colore sarà così, diversamente, campito o immerso, araldico o tonale, gioioso o trapunto di malinconia. Segnando con la sua ogni volta cangiante sostanza il senso e la vita dell’opera; dettando, e non semplicemente accompagnando, la verità emozionale del dipinto. Il problema della realtà – nonché, a maggior ragione, della sua plausibile rappresentazione – è da sempre, istintivamente, assillo lontano da Turcato: che ha inteso, sin dagli anni dei più aspri anatemi togliattiani, la cruciale distanza che intercorre fra racconto ed emozione del reale.

  

 

   D’una mezza generazione più adulto dei giovanissimi suoi compagni di “Forma”, egli giunge prima di loro – assieme a Pietro Consagra – ad una maturità colma (la versione maggiore del Comizio, preparato per la Biennale del 1950, ne è segno definitivamente perfetto), e che – peraltro – non sarà mai per lui dimensione appagante e stabile, ma sempre transito, viaggio verso nuove ipotesi, nuovi rischi. Veniva anch’egli da un’educazione francese: Matisse, Magnelli (che Dorazio e Perilli scopriranno solo in occasione del secondo soggiorno a Parigi, nel corso del ’48), molto altro d’ambito concretista – quella cultura d’immagine che gravitava attorno al Salon des Réalités Nouvelles, cui peraltro anche Turcato partecipò, e per allora non del tutto coesa, ma che egli ritroverà riunita attorno a Vasarely e alla galleria di Denise René nel ’50, quando rinnoverà il soggiorno in Francia. “Io, Maugeri, Turcato, Attardi, Accardi e Sanfilippo andammo con il cuore in gola, per le vacanze di Natale, in uno scambio organizzato dalla Gioventù Comunista, a Parigi per quindici giorni, e trovammo la chiave che cercavamo”, ricorderà, a proposito di quel loro primo viaggio fatidico del dicembre 1946, Consagra. “Eravamo la generazione aperta all’Europa. I problemi di Guttuso non erano più nostri” (avrebbero presto verificato sulla loro pelle che le cose non stavano esattamente così – ma l’illusione, allora, era quella).

   Composizione, nomina ora quasi tutti i suoi dipinti: ed era già questa una dichiarazione d’appartenenza (lui e Corpora furono gli unici del Fronte Nuovo a titolare così i cinque dipinti che ciascuno presenta alla Biennale di Venezia del 1948). Quelli di Turcato sono ordinati in un geometrismo non rigoroso, né del tutto alieno dall’ammettere, all’interno delle proprie movenze, un linearismo sensuoso e talvolta allusivo, quasi organico: come se la memoria di Arp s’intromettesse improvvisa nel nitido ordine costruttivista delle superfici scandite da un colore che s’è fatto (ed è questa una conquista che rimarrà in Turcato definitiva) interamente antinaturalistico, irrelato ormai ad ogni dato d’esperienza. Arp era, nei ricordi di Consagra, uno degli artisti di cui Magnelli fece visitare lo studio ai giovani connazionali in visita a Parigi. E Turcato ne trasse fin da allora, più di altri, una duratura suggestione.

   È di questi anni, anche, la scoperta di Balla (forse fatta in anticipo, o per lui più tempestivamente fruttosa, sull’analoga rivelazione che dell’allora vecchio e isolato pittore ebbero tutti gli amici di “Forma” attorno al ’50): visto e inteso certamente almeno nel marzo del 1948, alla quinta Quadriennale romana – allestita, per sottolineare lo iato con le edizioni del tempo fascista, con il titolo di “Rassegna Nazionale di Arti Figurative” alla Galleria Nazionale di Valle Giulia, invece che al Palazzo delle Esposizioni. Di Balla, in quell’occasione, era esposta tra l’altro, fuori catalogo, l’opera Bandiere all’altare della patria, del 1915 (recentemente entrata a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale di Roma), così evidentemente densa di suggestioni per Turcato. Ed è probabilmente in dipendenza di quell’incontro avvenuto alla vecchia manifestazione romana che, fra i cinque dipinti inviati da Turcato poco dopo a Venezia, almeno due registrano un ricordo del maestro futurista, evidente nel gioco festosamente cromatico dei cerchi inglobati negli andamenti sinusoidali delle forme, nell’eccitato linearismo che le anima, e negli accesi verticalismi (quasi già bloccati in forme acutamente triangolari, come tra poco avverrà nei Comizi) svettanti nella tarsia dei colori puri (a quella data, forse il solo Maugeri mostrava talvolta di condividere analoghe desunzioni da Balla). 

  

 

   Dopo Venezia – che riapriva l’Italia artistica ad un pubblico internazionale dopo sei anni di silenzio – tutto rapidamente precipitava, in connessione stretta con l’evolversi del dibattito politico. L’anno, che s’era aperto con l’illusione di un cammino ancora ispirato al dialogo (dopo l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo nel maggio del 1947 – d’altronde prospettata da De Gasperi a Togliatti come temporanea – era continuato il dialogo per la nuova Costituzione, che entrava in vigore proprio il 1° gennaio ‘48), aveva presto visto concretarsi la radicalizzazione dello scontro, anche per quanto concerneva in particolare l’azione e le prospettive degli intellettuali, che si pretendevano più prossime alle indicazioni di partito. Già nel marzo, la risoluzione della direzione del Partito Per la salvezza della cultura italiana aveva annunciato l’arroccamento su posizioni di intransigenza nei confronti di quelle “ideologie decadenti che, anche se sovente si presentano sotto una maschera ‘di sinistra’, esprimono la putrefazione della cultura borghese nell’epoca dell’imperialismo”. In aprile, il tracollo del Fronte Popolare alle elezioni aveva infine di fatto creato le condizioni per una politica culturale ispirata soltanto allo scontro ideologico.

   Venezia e la Biennale non potevano risultare esenti da questo clima, seppur Rodolfo Pallucchini, nell’Introduzione alla mostra, si limitasse a dire del “contrasto fra arte figurativa e arte astratta” che, nell’arte italiana, “si fa sempre più vivo, anzi drammatico”; e nonostante apparisse ancor più generico, in tal senso, Giuseppe Marchiori, che presentava in catalogo le opere del “Fronte”, fra i cui rappresentanti (proposto e quasi imposto nelle file del gruppo, già nel 1946, da Guttuso) era Turcato. Ma Guttuso, che esponeva alla Biennale proprio assieme ai compagni del “Fronte” (e dunque in uno schieramento almeno in parte d’ispirazione ‘formalista’), presentava a sua volta nello stesso catalogo la personale di Picasso con toni assai più determinati: diceva della “fiducia non astratta, non culturale, ma umana, di lotta e di speranza [che] hanno nell’opera di Picasso i pittori giovani italiani”; e concludeva – dopo aver condannato ogni forma di devozione al maestro che si riducesse all’orecchiata riproposizione di una “lezione cubista assunta meccanicamente” e che “ha condotto al moderno formalismo; a quelle strade che […] sono le strade perdute della pittura” – esaltando il contributo offerto dal grande maestro, e ora compagno di partito, a “un dibattito che non è più di astratto e concreto o di figurativo e non figurativo o di formalismo e di naturalismo ma tra uomini e antiuomini, addirittura fra ‘buoni’ e ‘cattivi’”. E di recente Luciano Caramel ha giustamente sottolineato come fosse implicito in questa doppia posizione assunta da Guttuso a Venezia non solo il suo futuro di capofila del “realismo nuovo” (presto: dopo il congresso di Wroclaw dell’agosto 1948, ove la relazione di Zdanov aveva recuperata e rilanciata la nozione del termine di “realismo socialista” formulato da Gor’kij nell’ambito del I Congresso degli scrittori sovietici del ’34)), ma la stessa spaccatura, e presto la fine, del “Fronte”.

    È cosa ormai fatta, quella incrinatura che divide in due le forze più vive dell’arte nuova in Italia, già a Bologna, quando, in occasione della mostra ordinata nell’ottobre dello stesso 1948 dall’Alleanza della Cultura a Palazzo di Re Enzo, vengono sulle colonne di “Rinascita” prima la nota invettiva attribuita a Togliatti contro l’arte astratta (ove si parla tra l’altro, a firma Roderigo di Castiglia, di “esposizioni di orrori e di scemenze”), e poco dopo, forse peggiore della prima breve “segnalazione”, l’insopportabile Postilla alla lettera degli artisti con cui la redazione del periodico rispondeva, con bonario e ottuso paternalismo, alla peraltro prudentissima protesta di taluni artisti militanti, fra i quali naturalmente era Turcato. Achille Perilli ha scritto di recente una pagina intensa su quel tempo per tutti difficile, e su Turcato. “La pressione ideologica del Partito Comunista è talmente forte da imporgli una serie di tematiche, basate sulla figurazione, come i Comizi e le Rovine di Varsavia. È una scommessa con ragioni diverse: da quelle economiche al bisogno di protezione, a quel sentirsi dentro una situazione comunque nuova, diversa e avversa ad una società che non lo aveva mai accettato. Sono difficili quei tempi da spiegare per far comprendere come una cultura in partenza liberatoria rispetto al fascismo si era trasformata, con la fragile scusa della guerra fredda, in repressiva, poliziesca, settaria e tendenziosa. Ma d’altra parte il mondo non è migliore. In questa fase Turcato è come un giocoliere, cammina sulla corda, offre ridicole soddisfazioni a chi lo vorrebbe riportare all’ideologia e risolve in poesia una tematica in linea con il partito: quasi un modo di esserci, senza crederci. Il settarismo per lui è una forma d’imbecillità, è il tentativo di impedirgli di affrontare quello che è il vero problema: fare pittura”. Ed è proprio in coincidenza con questo che è per molti versi uno dei passaggi più drammatici e dolorosi della vicenda artistica italiana della seconda metà del secolo che Turcato trova la sua più alta maturità.

   Lo fa inanellando, d’ora in avanti, geniali capolavori, per lo più allineati attorno ad alcuni temi – il comizio politico, il movimento delle masse, le rovine di guerra, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il lavoro e i suoi luoghi – che saranno, di qui in avanti e per un decennio, i temi prediletti e quasi obbligati del fronte realista; ma, miracolosamente, rendendosi libero da ogni retorica, da ogni condizionamento ideologico, da ogni assillo di contenuto. E utilizzando la grammatica fondamentalmente antinaturalistica che negli anni era andato acquisendo alla sua lingua: fondata prima di tutto sulla scoperta di un colore puro, non toccato dall’ombra del chiaroscuro, emozionante aldilà di ogni possibile mimesi e tautologia. Che, nella difficile forbice in cui ci si trovava stretti (e in cui tanta intelligenza comunista sapeva di essere forzosamente costretta), non fossero intese le potenzialità – anche strategiche, per chi avesse saputo scorgerle – dell’ipotesi figurale di Turcato, sembra oggi impossibile.

   Un’ipotesi figurale, era, che Turcato fu allora in grado di immaginare – tanto più in là del nuovo compromesso ‘astratto-concreto’ che, auspice Venturi, si preparava per il nuovo schieramento che avrebbe dominato gli anni a venire, il “Gruppo degli Otto” – in grazie a quella straordinaria libertà che gli veniva da un’educazione esperita sempre al margine di scuole, di consorterie, e persino di troppo vincolanti strategie generazionali; oltre che da una povertà di vita e di bisogni che se fu all’inizio fatale necessità, divenne poi in qualche modo scelta irrevocabile, seppur mai retoricamente ammantata. Sembra quasi incredibile che questa via (una ‘terza via’, davvero, non a mezzo ma oltre impegno e disimpegno, figurazione e astrazione, “formalismo e marxismo” – come avevano detto assieme a lui i suoi più giovani amici di “Forma”) non fosse colta allora in tutto il suo possibile futuro; e che, lungi dal divenir metro per altri, la pittura di Turcato continuasse ad essere tacciata di un improbabile “centrismo”, di irresoluzione, o peggio di un opportunistico bilanciamento fra fronti opposti.

 

   Faticò allora Palma Bucarelli – che forse per prima intese e scrisse dello sgusciar via di Turcato dalla forbice del dualismo ideologico – a convincere, in occasione d’una mostra a tre tenuta con Corpora e Consagra alla galleria del Secolo, di quel “punto in più, anche in questo senso, sui conti dell’astrattismo, che tuttavia restano qui positivi e visibilissimi” che Turcato sapeva segnare. Era il  febbraio del ’49; e, presentando al Secolo, assieme a Rivolta e ad un Comizio, le Rovine di Varsavia, che stringevano assieme Magnelli, Kandinsky e il concretismo anni Trenta alla memoria di Mafai (e dunque alla migliore pittura romana tonale che, almeno fino a taluni altissimi esempi di pittura pura della fine degli anni Cinquanta, Turcato seppe non dimenticare), Turcato chiudeva il decennio asserendo una ormai raggiunta pienezza espressiva. Un passo ulteriore viene fra ’51 e ’52, quando qualcosa di nuovo irrompe nella sua pittura: che, come liberata all’improvviso da ansie e costrizioni eteronome, trova adesso una gioia, una felicità e un azzardo incomparabili con ogni altra ricerca italiana coeva (tant’è che la sua adesione, adesso, agli “Otto” sarà da addebitare, più che a condivisione della poetica astratto-concreta che motivava l’unione del gruppo, a quel “bisogno di protezione, a quel sentirsi dentro una situazione comunque nuova” cui Perilli faceva cenno per spiegare, dell’amico, altre e precedenti convergenze).

   Ancora un grande quadro fra futurista e picassiano, Massacro al Napalm, sembra stringersi al modo della sua ‘terza via’: poi un’ironia lieve, quasi affettuosa prende a vagare fra le sue storie imperfette, fra i suoi racconti fantastici immaginati ora con una libertà definitiva dagli imperativi e dagli antagonismi del tempo. Favole senza costrutto, ormai, eppure di trascinante evidenza visiva. Possono inseguire, ancora, un sogno che è anche politico (gli straordinari Giardini di Miciurin, ad esempio – che portano nel titolo il riferimento all’utopia immaginata dal biologo sovietico, ma sono poi solo favole crepitanti di colore purissimo – che aprono fra ’52 e ’53 un modo che resterà in molti degli anni futuri della pittura di Turcato): ma che da progetto, da bandiera, sale a miraggio; che da programma si fa chimera. Altre volte è un segno franto, spezzato, come una traccia rabdomantica o un leggerissimo pulviscolo, a punteggiare la superficie, a emozionarla di sorprese e d’incanti (dalla prima versione di Insetti dell’epidemia a talune Composizioni del ’52, del ’53, a Paesaggio atomico del ’54, ad esempio; frutto forse, questo modo, d’un ricordo di Mirò o di Hartung; certo, in vertiginoso anticipo su tanta pittura di segno di anni ancora a venire). Ancora, infine, resiste, accanto e dentro alla grammatica radicalmente astratta del colore puro, à plat, eccitato, la voglia ormai inattesa di ‘figura’: così ne Il merlo, 1954, una macchia nera e gialla dentro i viola, gli azzurri, gli aranci e i verdi della vegetazione fitta entro cui si nasconde; o le Composizioni con civetta, divertite immagini di una quasi totemica immobilità dell’uccello notturno entro le forme arbitrarie di un colore soltanto sognato (e Turcato espose dipinti di tal fatta, fianco a fianco con la pittura ‘canonicamente’ astratta almeno fino alla personale alla Tartaruga di Plinio de’ Martiis del ’55).

   Poi i Reticoli, la serie altissima del Deserto dei Tartari, le Mosche cinesi, i primi, neo-dadaisti Lenzuoli di San Rocco, tanto altro ancora, negli anni della più colma maturità, fino alle grandi superfici appena macchiate da un colore ridivenuto, improvvisamente, tonale e lentamente accordato (La bava, Astronomica, Giallo pelle …): sempre inafferrabile, Turcato prosegue senza stanchezze la sua “peregrinante e zizgagante avventura linguistica nel seno dell’oscurità preverbale, presonora dell’immagine e prima della realtà”, come ha scritto Villa. Cesare Vivaldi gli dedica su “L’Esperienza Moderna” – la rivista di Perilli e Novelli – nell’agosto del ’57 un lungo saggio, volendolo tirare verso la sponda della ‘nuova figurazione’ che il critico, con sguardo acuto, percepisce nell’aria, e intravede già come il futuro della pittura oltre il culto informale della materia, oltre l’art autre, oltre il “marasma tachiste”. Lui, un’altra volta – l’ennesima – si svincola anche da questa complicità, che sarebbe stata così opportuna, così strategicamente giusta. Perché in anticipo, in ritardo, o casualmente persino in accordo con i suoi anni, Turcato non è mai veramente ‘con’ essi. Ma sempre errabondo, nomade, zingaro: equidistante tra un lontanissimo passato (“l’età della caverne”) e un inavvistato futuro (fino allo spazio potenzialmente infinto delle Superfici lunari).