La ‘terza via’ di Giulio Turcato
Dopo la Biennale veneziana del 1948 (che tornava dopo la guerra, dopo sei anni di silenzio, e un profluvio di mostre sempre più insignificanti), tutto rapidamente precipitava nel panorama artistico italiano: in connessione stretta con l’evolversi del dibattito politico. Passano soli pochissimi mesi, e sarà cosa ormai fatta la frattura che a lungo dividerà in due fronti contrapposti le forze più vive dell’arte nuova in Italia.
L’anno si era aperto con prospettive di dialogo: un dialogo che sembrò confermato – dopo l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo nel maggio del 1947, subito prospettata d’altronde da De Gasperi a Togliatti come temporanea e strategica – dall’impegno comune per la nuova Costituzione, che entrava in vigore proprio il 1° gennaio ’48. Ma presto s’era concretata una radicalizzazione dello scontro, che implicava ormai chiaramente, in particolare, l’azione e le prospettive degli intellettuali, che si pretendevano da parte del Pci più prossime alle indicazioni di partito. Già nel marzo, la risoluzione della direzione del Partito Comunista Per la salvezza della cultura italiana aveva annunciato l’auspicato arroccamento della cultura di sinistra su posizioni di intransigenza nei confronti di quelle “ideologie decadenti che, anche se sovente si presentano sotto una maschera ‘di sinistra’, esprimono la putrefazione della cultura borghese nell’epoca dell’imperialismo”. In aprile, il tracollo del Fronte Popolare alle elezioni aveva infine di fatto creato le condizioni per una politica culturale ispirata soltanto allo scontro ideologico. E sembrano adesso già lontani i tempi in cui Garaudy poteva scrivere su “Il Politecnico” di Vittorini: ”i pittori comunisti non portano un’uniforme: nessun comunista porta un’uniforme”.
Venezia e la Biennale respirarono a pieni polmoni questo clima; seppur Rodolfo Pallucchini, nell’Introduzione alla mostra, si limitasse a dire del “contrasto fra arte figurativa e arte astratta” che, nell’arte italiana, “si fa sempre più vivo, anzi drammatico”; e nonostante apparisse ancor più generico, in tal senso, Giuseppe Marchiori, che presentava in catalogo le opere del “Fronte”. Ma Guttuso, che esponeva alla Biennale proprio assieme ai compagni del “Fronte” (e dunque in uno schieramento almeno in parte d’ispirazione formalista e neo-cubista), presentava a sua volta nello stesso catalogo la personale di Picasso con toni assai più determinati: diceva della “fiducia non astratta, non culturale, ma umana, di lotta e di speranza [che] hanno nell’opera di Picasso i pittori giovani italiani”; e concludeva – dopo aver condannato ogni forma di devozione al maestro che si riducesse all’orecchiata riproposizione di una “lezione cubista assunta meccanicamente” e che “ha condotto al moderno formalismo; a quelle strade che […] sono le strade perdute della pittura” – esaltando il contributo offerto dal grande maestro, e ora compagno di partito, a “un dibattito che non è più di astratto e concreto o di figurativo e non figurativo o di formalismo e di naturalismo ma tra uomini e antiuomini, addirittura fra ‘buoni’ e ‘cattivi’”. E di recente Luciano Caramel ha giustamente sottolineato come fosse implicito in questa doppia posizione assunta da Guttuso a Venezia non solo il suo futuro di capofila del “realismo nuovo” (presto: dopo il congresso di Wroclaw dell’agosto 1948, ove la relazione di Zdanov aveva recuperata e rilanciata la nozione del termine di “realismo socialista” formulato da Gor’kij nell’ambito del I Congresso degli scrittori sovietici del ’34), ma la stessa spaccatura, e presto la fine, del “Fronte”.
È dunque cosa ormai fatta, a quella data, l’incrinatura più aspra che nel secolo XX abbia vissuto l’arte italiana. In occasione della mostra ordinata subito dopo l’estate dello stesso 1948 dall’Alleanza della Cultura a Palazzo di Re Enzo a Bologna, vengono sulle colonne di “Rinascita”, a testimoniarla definitivamente, prima la nota invettiva di Togliatti contro l’arte astratta (ove si parla tra l’altro, a firma Roderigo di Castiglia, di “esposizioni di orrori e di scemenze”), e poco dopo, forse peggiore della prima breve “segnalazione”, l’insopportabile Postilla alla lettera degli artisti con cui la redazione del periodico rispondeva, con bonario e ottuso paternalismo, alla peraltro prudentissima protesta di taluni artisti militanti. Fra i quali era Giulio Turcato. Ed è – inaspettatamente, se si considera la nomea che già allora circolava di Turcato ‘omo sanza lettere’ – proprio in coincidenza con questo passaggio doloroso che egli trova la sua più limpida, matura consapevolezza di sé, della sua pittura, e tra l’altro del ruolo – pur misconosciuto – ch’essa giocherà in quel tempo difficile.
Lo fa inanellando, d’ora in avanti, geniali capolavori, per lo più allineati attorno ad alcuni temi – le rovine di guerra, il comizio politico, il movimento delle masse, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il lavoro e i suoi luoghi – che saranno, di qui in avanti e per un decennio, i temi prediletti e quasi obbligati del fronte realista; ma, miracolosamente, rendendosi libero da ogni retorica, da ogni condizionamento ideologico, da ogni assillo di “contenuto” (la “faccenda del contenuto” fu da allora, e poi per sempre, uno dei suoi più oscuri fantasmi, da cui giudicò che un pittore dovesse tenersi lontano). E utilizzando la grammatica fondamentalmente antinaturalistica che negli anni era andato acquisendo alla sua lingua: fondata prima di tutto sulla scoperta di un colore puro, non toccato dall’ombra del chiaroscuro, emozionante al di là di ogni possibile mimesi e tautologia.
Che, nella forbice paralizzante in cui ci si trovava stretti (e in cui tanta intelligenza comunista sapeva di essere forzosamente costretta), non fossero intese le potenzialità – anche strategiche, per chi avesse saputo scorgerle – dell’ipotesi figurale di Turcato, sembra oggi impossibile. Un’ipotesi figurale che Turcato fu allora in grado di immaginare – tanto più in là del nuovo compromesso ‘astratto-concreto’ che, auspice Venturi, si preparava per il nuovo schieramento che avrebbe dominato gli anni a venire, il “Gruppo degli Otto” – in grazie a quella straordinaria libertà che gli veniva da un’educazione esperita sempre al margine di scuole, di consorterie, e persino di troppo vincolanti strategie generazionali; oltre che da una povertà di vita e di bisogni che se fu all’inizio fatale necessità, divenne poi in qualche modo scelta irrevocabile, seppur mai retoricamente ammantata. Sembra quasi incredibile che questa via (una ‘terza via’, davvero, non a mezzo ma oltre impegno e disimpegno, figurazione e astrazione, “formalismo e marxismo” – come avevano detto assieme a lui i suoi più giovani amici di “Forma”) non fosse colta allora in tutto il suo possibile futuro; e che, lungi dal divenir metro per altri, la pittura di Turcato continuasse ad essere tacciata di un improbabile “centrismo”, di irresoluzione, o peggio di un opportunistico bilanciamento fra fronti opposti.
Non fu facile allora per Palma Bucarelli – che forse per prima intese e scrisse dello sgusciar via di Turcato dalla forbice mortale di quel dualismo ideologico, presentandone l’opera nel cataloghino della mostra a tre tenuta con Corpora e Consagra alla galleria romana del Secolo – convincere di quel “punto in più, anche in questo senso, sui conti dell’astrattismo, che tuttavia restano qui positivi e visibilissimi” che Turcato sapeva segnare. Era il febbraio del ’49; e, presentando al Secolo, assieme a Rivolta e ad un Comizio, le Rovine di Varsavia, che stringevano assieme Magnelli, Kandinsky e il concretismo anni Trenta alla memoria di Mafai (e dunque alla migliore pittura romana tonale che, almeno fino a taluni altissimi esempi di pittura pura della fine degli anni Cinquanta, Turcato seppe non dimenticare), Turcato chiudeva il decennio asserendo una ormai raggiunta pienezza espressiva.
Poi venne il Comizio: due metri di base, poco meno d’uno e mezzo d’altezza, il quadro fu presentato alla Biennale di Venezia del 1950: nella seconda edizione del dopoguerra, dunque, della mostra veneziana, quando il tempo del compromesso fra ipotesi figurative e astratte che aveva segnato la partecipazione dei maggiori artisti italiani uniti nel “Fronte Nuovo” nell’edizione del ’48 era definitivamente tramontato. Guttuso – divenuto, come è noto, capofila del nuovo realismo, dopo la lunga tentazione neo-cubista del ’46-’47 – nella primavera del ’50, mentre lavorava ancora al grande quadro che avrebbe presentato a Venezia, l’Occupazione delle terre incolte in Sicilia, scriveva a Pizzinato (che avrebbe esposto alla Biennale tre dipinti d’analoga temperatura) che Turcato stava completando a sua volta un dipinto di grandi dimensioni “un po’ astratto-futurista, ma in ogni modo molto positivo e utile nell’insieme della nostra lotta”. Era, appunto, il Comizio, del quale altre versioni minori avevano già visto la luce, lasciando nel dubbio e nello scetticismo la critica di entrambe le fazioni: per la quale Turcato, “sull’orlo del vuoto assoluto”, non era mai abbastanza realista né abbastanza astratto. In realtà il Comizio, uno spazio di superficie invaso da colori puri e clamanti – il rosso, su tutti, delle sagome triangolari delle bandiere svettanti sul mare di folla – è uno dei grandi quadri della nostra pittura del dopoguerra: forse il quadro fondamentale di quella pittura, giunta per vie affaticate sino alla soglia d’una sua altissima stagione. Balla e Matisse gli sono, misteriosamente insieme, alle spalle: come poco prima Mafai ed Afro, Kandinsky e Magnelli erano stati a monte delle Composizioni o delle Varsavie; e come poco dopo Mirò ed Hartung saranno importanti per altre serie dei suoi magici anni Cinquanta. E certo in quella sua grande tela Turcato ricovera assieme, in una misura forse mai più in seguito ripercorsa, le sue radici e intenzioni astratte e la sua volontà di impegno, anche, politico. La sua “terza via” era lì: offerta a chiare lettere a chi avesse voluto intenderla. Ma non vi fu chi alzò quella tela a bandiera: e da allora in poi unici vessilliferi di un Partito sempre più cieco furono Guttuso e il suo realismo, distanti ormai dalla strada della contemporaneità.
Ancora un gran quadro di lotta e di denuncia, fra futurista e picassiano, è Massacro al Napalm, che, inviato alla Biennale del ’52, sembra stringersi al modo di quella sua ‘terza via’: poi un’ironia lieve, quasi affettuosa (un sorriso di sé, appena) prende a vagare fra le sue storie imperfette, fra i suoi racconti fantastici immaginati ora con una libertà definitiva dagli imperativi e dagli antagonismi del tempo. Favole senza costrutto, ormai, eppure di trascinante evidenza visiva. Possono inseguire, ancora, un sogno che è anche politico (e verranno ad esempio gli straordinari Giardini di Miciurin – che portano nel titolo il riferimento all’utopia immaginata dal biologo sovietico, ma sono poi solo favole crepitanti di colore purissimo – che aprono fra ’52 e ’53 un modo che resterà in molti degli anni futuri della pittura di Turcato): ma che da progetto, da bandiera, sale a miraggio; che da programma si fa chimera. Turcato si sentì forse, da quel momento in avanti, più lieve. E qualcosa di nuovo irrompe nella sua pittura: che, come liberata all’improvviso da ansie e costrizioni eteronome, trova adesso una gioia, una felicità e un azzardo incomparabili con ogni altra ricerca italiana coeva. Ciò avviene in coincidenza cronologica con la costituzione del gruppo degli “Otto”: in realtà, solo apparentemente la sua poetica si apparenta ora a quella della maggior parte dei suoi compagni. Il bilico fra natura e invenzione che l’ipotesi venturiana implicava era tutt’altra cosa da quanto Turcato andava elaborando (essendo il suo, invece, un ritorno senza spavento alla suggestione visiva, animata semmai da un valore simbolico, muovendo da una premessa interamente astratta). Tant’è che egli entrò senza particolari preoccupazioni o aspettative nel gruppo: cui offrì la sua adesione, anche e forse soprattutto, per quella mancanza di cautela nell’amministrarsi che ne ha sempre contraddistinto l’operare.
Certo è, ad esempio, che il fitto e talora frenetico scambio di pareri, ipotesi, determinazioni, cooptazioni, ripulse, anatemi che corse fra gli “Otto”, e che accompagna ininterrotto la nascita, la vita e lo scioglimento del gruppo riguarda assai raramente Turcato. Che è sostanzialmente ignorato dai compagni, in perenne sospetto nei suoi confronti probabilmente a causa di una malintesa sua indulgenza verso frangenti all’apparenza figurali: sotterraneamente osteggiato dai milanesi (Birolli soprattutto), egli è apertamente irriso da Marchiori (che, nella vicenda degli “Otto”, da cui s’era sentito ingiustamente escluso, entrò marginalmente e testimoniando sempre la sua amarezza). Ma se, negli anni precedenti, la militanza pur deviante di Turcato nel “Fronte Nuovo” era stata comunque organica, adesso la sua pittura, tanto cresciuta, lo rendeva di fatto meno disponibile a solidarietà forzatamente generiche.
Turcato si qualifica anche, a partire da questo avvio degli anni Cinquanta, come colui che sfugge maggiormente alla nozione di forma chiusa che, benché non esplicita, governerà il decennio della pittura a Roma (condizionando anche il fare di coloro che apparentemente ne sono più lontani, come Burri). Dentro la sua opera, il margine di rischio è costantemente tanto forte, e così palesemente ignorate sono le buone regole della sintassi e del razionale scaglionarsi degli atti formativi, che gli è stato sovente attribuito un atteggiamento quasi dissacratorio nei confronti della propria pittura. II che, per generazione e formazione, non può appartenergli. Vale invece a spiegarne la costante vertigine degli assetti formali proprio la consapevolezza che Turcato ha avuto del senso plurimo, e non mai referenziale, del colore, e la volontà di sperimentarne tutti gli esiti possibili. Allora, dai Giardini di Miciurin fino almeno ad Astronomica, allo scadere del decennio, il suo colore sarà campito o immerso, araldico o tonale, pallido o squillante, gioioso o trapunto di malinconia: segnando con la sua ogni volta cangiante sostanza il senso e la vita dell’ opera. Attraverso quel colore si fa anche palese per Turcato I’epistème del tempo: dal neocubismo alla cultura del segno, dall’eco surrealista alla gestualità dispiegata nei grandi spazi aperti sul vuoto delle opere fra ‘59 e ‘60. Ma in anticipo, in ritardo, o casualmente persino in accordo con i suoi anni, Turcato non sarà mai veramente ‘con’ essi; inseguendo sempre quella che Emilio Villa ha definito una “peregrinante e zigzagante avventura linguistica nel seno dell’oscurità preverbale, presonora”.