Klee e Melotti: un sentire (talvolta) comune
Klee e Melotti: un sentire (talvolta) comune
Quasi come per una digressione senza troppo peso specifico, muovo questo breve scritto dall’ipotesi opposta rispetto a quella propostomi – dal paradosso, cioè, che Melotti e Klee non abbiano troppo a che spartire. Soltanto un paradosso, forse; ma che pur farà forse sospettare di alcune distanze reciproche.
Nel saggio di Lara Conte, in questo stesso volume, si rileggono le parole di Francesco Arcangeli (Nota per Klee, 1954): “la grandezza di Klee consiste appunto nell’aver egli operato una silenziosa, poetica, lirica operazione di sutura fra questi mondi divergenti; come se, girando una misteriosa chiave, le cose più lontane si potessero dare convegno nel piccolo spazio del suo quadro, mantenendo ancora lo stupore, la suggestione della loro prima origine, e della loro ultima solitudine”. Eravamo allora – a mezzo degli anni Cinquanta – non troppo lontani dall’incipit della fortuna sterminata (ma non precoce; ed anzi insospettabilmente in ritardo sul registro dei tempi: il che avrà peso anche per Melotti) che l’arte del pittore svizzero avrebbe avuto nella pittura italiana del ventesimo secolo (fortuna alla cui lunga e illustre vicenda occorre aggiungere almeno due nomi, usualmente sottaciuti: Pirro Cuniberti, e Tullio Pericoli). E già s’intuiva che il “grande nordico” (si può forse dubitare che sia giusto caratterizzarlo così: ma lasciamo volentieri alla penna sapiente di Arcangeli la liceità di sventolare questa sua sempiterna bandiera) non avrebbe ingenerato una piana lettura di sé e della sua opera; già si percepiva che un’aporia era alla base della sua poetica: fra la certificazione dell’origine delle cose (e dunque della loro apparenza e verosimiglianza) e il loro consistere circondate da “un’ultima solitudine”: il che sarebbe stato in seguito cento volte formulato come il continuo scambiarsi le carte, in lui, fra “figurativo” e “astratto”. Il che è certo fondante in Klee: mai episodico né accidentale, ma profondamente connaturato alla sua esperienza di una possibile verità.
Accade davvero, come sembra alla prima, l’analogo in Melotti? Non dobbiamo esserne così certi. A fondare codesta duplicità in Klee sta il viaggio in Tunisia del ’14 (prima, il suo bilico sulla plausibilità dell’immagine pende scopertamente verso una espressività improbabile e quasi grottesca, che ha salde e diffuse radici nella cultura simbolista e secessionista internazionale); poi l’incontro con lo ‘spirituale’ di Kandinskij; e infine l’insegnamento teorico da lui lungamente elaborato e messo in pratica nel suo decennio trascorso al Bauhaus. In Melotti, tutt’altro: il viaggio fra “angelico e geometrico”, e la sospensione dal senso comune delle cose, derivano in origine da suggestioni metafisiche, e fors’anche surrealiste: lo dimostrano ultimativamente i suoi importantissimi disegni dell’avvio degli anni Trenta, raccolti per la prima volta nel 1970 da Maurizio Fagiolo dell’Arco in un libro prezioso, che intrecciano arbitrii e avventure d’una fantasia inquieta con la definizione di una spazialità ordinata e numerabile.
A quella spazialità, a quell’ordine “greco” (vagheggiato prima di realizzarne l’impossibilità del ritorno), e in sostanza alla vicenda maggiore dell’astrattismo italiano d’anni Trenta, il primo Melotti verrà presto, e direi quasi inesorabilmente, assimilato: grazie alla sua partecipazione alla mostra torinese presso lo studio di Casorati e Paulucci e alla personale che lo stesso 1935 egli tenne alla galleria milanese del Milione; accantonando, in qualche misura, le sue origini (e quanto egli avrebbe fatto a partire dal ‘36 e sino ai primi del decennio seguente). Origini che è oggi più facile recuperare: oggi che è maggiormente riconosciuta la sua sostanziale estraneità allo spirito del Kn belliano e alla inclinazione dominante – razionalista – del Milione, e la sua opposta condivisione dei propositi e delle avventure della mente proprie di Osvaldo Licini, pronte a sbilanciare sul piano inclinato dell’emozione le stentoree certezze di Carlo Belli (“dimostreremo che la geometria può diventare sentimento, poesia”: la celebre asserzione di Licini è certamente in tutto consentanea a Melotti).
Le crete, presto dipinte, i bassorilievi in gesso, la ceramica: sono i luoghi ove Melotti, a guerra appena terminata, ricovera il suo nuovo lavoro, che destina non solo ad una circolazione privata ma ad un normale circuito espositivo, che comprende tra l’altro la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano. Una “nuova temperatura immaginativa si è impadronita dell’artista” (Castagnoli, 1987); temperie alla quale egli ora s’abbandona confidente, accentando come mai prima “quel suo gusto sottilmente affabulatorio”, che si configura allora come il definitivo abbraccio a quella tensione verso il sogno e la poesia che era stata da sempre parte del suo animo.
Vennero così, perfetti forse sopra ogni altra forma della sua scultura, i ‘teatrini’ (a muovere da quel primo incunabolo che ne è la Lettera a Fontana del ’44): nei quali, accanto all’invenzione quasi giocosa, e al gusto quasi infantile per il racconto, risuonerà l’eco della stupefazione metafisica e dell’attonita sospensione dal sentimento ordinario del quotidiano che era stata di Arturo Martini, e in particolare del Martini – appunto – delle favole delle terrecotte. E, ancora prima che i ‘teatrini’ prendessero forma definitiva, i ‘bassorilievi’; dove il segno si ingenera e si deposita – forse ancor più causticamente di quanto avverrà nei ‘teatrini’ – germinale e ‘astratto’: prima d’aggrumarsi in allusione, in figura, in imperfetta trama narrativa. Sono fatti solo di piccole sfere e semisfere, di quadrati, di virgole e accenti, di minime traiettorie d’energia, improvvisamente interrotte da sbarramenti verticali e subito appresso di nuovo pronte a scivolare nel bianco; o di modesti scavi nello spessore esiguo della creta. Il catalogo generale li colloca, del tutto plausibilmente, fra ’46 e ’47 (in particolare il gruppo d’essi più coeso va dal numero 1946 4 B al numero 1947 9 B, che designa la creta dipinta de Il castello, oggi qui esposto).
Sono, i ‘bassorilievi’, le opere di Melotti indubitabilmente più consentanee al pensiero di Klee; quelle dove egli scopre il suo segno (che trasporrà, con l’identico suo portato di allusività e di crampo semantico, nelle sculture di fili), che si farà in breve narrante, ambiguo, malinconico. Ed è ripensando forse proprio a quei suoi anni che più tardi Melotti annotò in Linee: “L’ambiguità come aspetto della malinconia è componente qualificante dell’opera d’arte. Poche volte presente in Kandinsky, essa lo è sempre in Klee e lo avvalora”. In Kandinskij egli scorse invece sempre troppa conclamata energia, troppo pathos, per esserne durevolmente sedotto; così come, al contrario, in Mondrian riconobbe troppo pensiero accerchiante e conclusivo. Con Klee, gli spazi bianchi dei ‘bassorilievi’ svelano assonanze mai prima (né, credo, mai dopo in questa stessa misura) ripercorse; Klee nel quale Melotti non vide né un “espressionista”, né un paladino di un’“avanguardia” che non amò mai, ma un fratello in solitudine e devianza.
L’origine dei ‘bassorilievi’ è però, s’è detto, correttamente situata al 1946: ad una data cioè che è antecedente, seppur di poco, alla diffusione in area italiana dell’arte di Klee, che data – per quanto concerne in particolare Milano – solo all’anno seguente, e per l’Italia tutta tra ’48 e ’54, le date in cui l’attenzione sulla sua opera è veicolata per ben tre volte dalle sue presenze alla Biennale di Venezia (vedi ancora, qui stesso, per la diffusione – e i molti fraintendimenti – dell’opera di Klee il saggio esaustivo della Conte, e il contributo di M. S. Margozzi nel catalogo della recente mostra della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma). Né è facile presumere che, nel secondo dopoguerra, Melotti abbia recuperato il poco che del maestro svizzero egli aveva potuto conoscere a metà degli anni Trenta. Non di un recupero si tratta, in effetti, ma di una convergenza – non sempiterna né sempre eguale a sé stessa ma, quand’essa si manifesti, capace d’incidere in profondità – di sentimento e di percezione della funzione, della possibilità e dei destini dell’arte.
“Si tratta d’insegnare a camminare su fili sottili, invisibili, tesi nel buio”, ha scritto Argan del magistero di Klee. E ancora: “Klee seguitò ad insegnare al Bauhaus anche quando […] probabilmente sentiva che l’utopia razionalista che aveva informato il programma del Bauhaus era ormai crollata sotto l’urto dei fatti, ma che la sua idea di una razionalità senza formule, radicata nell’esperienza e rivolta a riscattare i contenuti informi dell’inconscio, poteva ancora sopravvivere”. Melotti non insegnò da una cattedra, ma la sua distanza dai teoremi dell’avanguardia, e la sua fiducia in una razionalità che fosse metodo d’ermeneutica del reale più che via preconfezionata di verità, sono le stesse di Klee. “L’artista deve avere un credo ma, penso, lo ‘deve’ anche tradire. Altrimenti, prigioniero nel suo tabernacolo, si vede consegnato a un equilibrio indifferente, come una palla su un piano perfettamente orizzontale”.
Ancora, mi sembra stringere il sentire di Klee e quello di Melotti la stessa malinconia per un ordine perduto: un ordine sperato, che sembrava possibile e che s’è invece trasformato in “venti di guerra”. È questo che induce, e infine pretende, lo spazio geometrizzato e insieme antiprospettico che alberga nell’opera di entrambi, e la qualifica come sur-naturalista: uno spazio nato da un’esigenza raziocinante, e sfociato in contenitore di azzardi. Questa profondità elusa, che trasmette alla prima il senso di innaturalezza dell’immagine, è quanto formalmente fa prossima la ricerca dei due artisti: probabilmente l’unica opzione formale che essi condividono. “L’emozione è fredda davanti alla dimostrazione perfetta di enunciati senza ombre”, ha scritto Melotti; e Klee avrebbe sottoscritto. Rifiutando entrambi la spazialità rinascimentale, essi hanno cercato, e trovato, nella superficie e nella paratassi il luogo del sogno.