Prime pitture della realtà
Prime pitture della realtà
Nel febbraio 1939, quando Fausto Pirandello presentava alla terza Quadriennale una personale costituita da venti dipinti databili prevalentemente al biennio ’37-’38, egli stava orientando in modo in parte nuovo la sua pittura. A quello suo più antico – di quasi astratta sospensione dalla vita, di straniata trasposizione di eventi quotidiani in atmosfere stupefatte e attonite – s’univano ora tensioni diverse: che lo muovevano a dar conto d’un rapporto più diretto con la realtà. S’affiancavano così, sulle pareti del Palazzo delle Esposizioni, il gioco misterioso e inquietante delle due bimbe raffigurate in Testa di bambola all’ingombro già greve, ed ormai definitivamente prosaico, della modella ribattezzata, come per tentarne un ultimo riscatto, la Sibilla. E il dramma acceso e muto di Siccità s’accostava alla fissità immota, al lento gestire rituale delle tre figure di Giochi in terrazza (1).
Non di molto ècambiato il colore: sempre prevalentemente orchestrato sulle terre, sui grigi; solo, adesso, vi squillano talora freddi gli azzurri, e s’incupiscono i rossi. Non è cambiata la materia: da sempre in lui aspra e addensata, ed ora ancor più scabra, violata, corrusca di luci balenanti. Non i pretesti della sua pittura: sempre scovati in una quotidianità dimessa, chiusa nel recinto dei pochi incontri familiari. Molto è rimasto intatto, dunque, di quel suo mondo già così straordinariamente formato sulla metà del decennio.
Eppure altrettanto può dirsi che muti, per Pirandello, proprio tra ’38 e ’39: quando quella stessa realtà quotidiana che sino ad allora egli nascondeva dietro la maschera dei simboli, e atteggiava interrogante in gestualità rituali, prende d’un subito a procombere, svelata, sulla pittura; quando un’umanità ferita prende scopertamente a confessarvi il proprio malessere, la propria ansia, il proprio invincibile dolore.
“Comprendere meglio il vero non nel senso che gli si dà abitualmente ma nel suo carattere di assoluto e di eterno che è in ogni cosa creata (…) allora si entra in quel mondo miracoloso ed essenziale che non si inventa ma che è necessario trovare” (2): scriveva così, Mario Mafai, censendo le sue cose recenti e prevedendo le immediatamente venture, nel 1935; cose che trovano dunque analogie stringenti con le coeve di Pirandello, seppur rimangano quelle di Mafai (Donne che distendono al sole, La lezione di piano, Ritratto nello studio di scultura, e molte altre soprattutto databili tra ’33 e ’35) più limpide e pacate rispetto a quelle di Fausto, sopra le quali grava costantemente un senso misterioso come di cupa e sconosciuta minaccia.
Ma anche per Mafai si preparavano, nonostante i lucidi enunciati teorici del ’35, anni diversi: e la piccola serie delle Demolizioni, principiata nel ’36 e protratta sino al ’39, mostra esemplarmente il crescere dei nuovi pensieri. In una delle prime, di proprietà della Galleria Comunale d’arte moderna di Roma, l’intento è ad evidenza ancora quello, tutto interno ad un ordine di preoccupazioni interamente pittoriche, di scompartire colore in moduli geometrizzanti eppur tutti permeati, fatti l’un l’altro prossimi dalla luce. “Masse ordinate astrattamente nello spazio”, scriveva infatti delle Demolizioni Marchiori; e subito dopo Santangelo scorgeva in esse, analogamente, l’affermarsi di “più complesse esigenze formali (rispetto ai Fiori) che rendono meglio evidente il valore interno della struttura astratta” (3).
Ma in una delle ultime fra queste telette, appunto del ’39, a quelle intenzioni esclusivamente formali un’altra sembra aggiungersene: e mentre i palazzi sventrati dilavano in più liquida materia (trovando in ciò parentela stretta con le coeve Rovine e Demolizioni di Afro), il senso di una assediante malinconia sembra promanare accanto alle istanze di forma. Sono forse, quelli di questa più tarda Demolizione, gli ultimi giorni che Mafai può trascorrere nella sua casa romana: presto le discriminazioni razziali, che proprio allora vanno facendosi più aspre, lo spingeranno a cercar rifugio per Antonietta e per le figlie nel nascosto rifugio di Quarto: e senza supporre che un frangente pur così aspro di vita possa senza filtro esser passato nella pittura, forse anche questo contò per qualcosa nel nuovo indirizzo di Mafai (4).
Che d’altronde già prima e altrove aveva mostrato d’essere ormai lontano dalle antiche sintassi del tono: così era venuta, nel ’37, La comparsa, immagine autobiografica d’una malinconia che diresti trattenuta a stento dal pianto; e, l’anno appresso, era nato quel Cestino di fiori disordinato e flagrante, con gli steli e le corolle avvinti alla stessa materia e alla identica luce del fondo: tanto lontani, quei fiori, da quelli che avevano occasionato, sui primi anni Trenta, le inframissioni spaziali sorvegliatissime, sottese per lente velature sulla tela fra primo piano, piano di posa e il fondale abbacinato di sole della terrazza di via Cavour.
Alberto Ziveri è del 1908: ma bastano quei pochi anni di distanza a dare alla sua carriera pubblica, almeno nel quarto decennio, un passo diverso. Alla Quadriennale del ’35 egli e’ nominato come “giovanissimo fra i giovani romani” (5): ed in effetti, nonostante un percorso espositivo già a quella data abbastanza ricco, egli e’ ancora in traccia d’una definitiva maturità. Indulge anche lui, sulla meta’ del decennio, al fascino del tono: una sponda alla quale egli è però condotto, più che da una personale elaborazione di stile, prima dall’infatuazione giovanile per Casorati, poi dagli sguardi rivolti a Cagli e infine dall’assunzione poco filtrata di modelli l’uno rispetto all’altro assai distanti anche per qualità, quali quelli di Guidi e di Ceracchini. Composizione e Famiglia, i due dipinti maggiori fra i tre che presenta al Palazzo delle Esposizioni nel ’35, dicono appunto come fra questi due termini si muovesse allora la sua formazione, che pur non era stata del tutto aliena da pensieri più coinvolti e affocati (la Rosina, derainiana e scipionesca, del ’30, ad esempio, o il Compianto per un giovane morto del ’34).
Ma son questi, tutti, diversamente da quanto accadeva a Mafai e Pirandello gli stessi anni, quasi incunaboli di una storia ancora in via di farsi piena. Poi, un viaggio in Europa, compiuto nel ’37, gli scopre un ‘museo’ tanto diverso da quello idealizzato dalla precedente generazione italiana: ove Goya, Delacroix e Courbet (ma anche Rubens, Rembrandt e Tiziano) prendono il posto di Giotto, di Masaccio, di Piero; ed è da quel nuovo confine che s’è dato che nasce, subito colma, la sua vocazione realista. Che rimarrà una delle più intatte, solitarie ed alte nell’ambito delle vicende d’immagine italiane.
La danza, del 1937, è il dipinto di cerniera che gli schiude la maturità: per qualcosa ancora devoto al clima irrealistico del tonalismo romano, turbato da simboli arcani, sapientemente costruito su schemi formalistici – e il titolo stesso, d’aulica tradizione, che Ziveri mantiene a questo suo inameno gineceo, sta lì a testimoniare d’una sua ultima volontà di riscattare in qualche modo la prosaica evidenza del reale. Ma per altro verso è già determinato l’affondo del pittore su una verità di bruciante immanenza, di torbido ingombro plastico ed emozionale.
Ed è piena l’adesione data a quella sua particolare, sensuale e sguaiata verità già a partire dall’anno seguente: evidente nella brusca invasione nell’intimità impudica della Donna che si trucca, o in quella accaldata della Donna e bersagliere. Di qui in avanti, e fino almeno all’ultimo anno di guerra, è un sovratono, quello di Ziveri, un grido lancinante che non trova, da noi, se non imperfette parentele. Giunge talora alla volgarità: quando il racconto si perde a dir tutto, a scrutare dappresso, puntigliosamente, fin dentro l’ultimo nascondimento della storia che narra – e così avviene forse ne La rissa, ancora del ’38. Altre volte, quel grido, si vela di un nascosto dolore, risuona in un vasto, ottuso silenzio; allora – ed è il caso della Lotta di popolane, un grande telero davvero goyesco nel modo di congiungere il nero e l’azzurro alle terre bruciate di luce filante – Ziveri tocca il vertice di qualità di questi suoi primi anni maturi.
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Pirandello, dunque, e Mafai, e Ziveri: sul punto – fra ’37 e ’38 – di un rivolgimento comune che segnerà profondamente, seppur per un tempo diverso in ciascuno, il prosieguo della pittura. Comune, quel nuovo orientamento: ed esplicitamente sbilanciato sulla realtà. Dato nello stesso tempo, negli stessi mesi, eppure – almeno in loro, che sono adesso i capofila di una generazione – senza che intervenga a legarne i propositi un’altra, più esplicita solidarietà. Nessun programma, nessun manifesto, nessuna bandiera: e se da un canto questo inerisce ad un tratto fondo e inalienabile del carattere, almeno, di Pirandello e di Ziveri, già da allora silenziosamente ripiegati su una ricerca scontrosa di rapporti e vicinanze, e dall’esilio – a Genova prima, e subito dopo sotto le armi – di Mafai, è poi Roma stessa ad offrir come una forzosa conferma a queste propensioni.
Chiusa ormai la Galleria della Cometa di de Libero e della Pecci Blunt, chiusa la Sabatello, e interdetto il rinnovamento della Galleria di Roma, già diretta da Bardi, che lo stesso Sabatello avrebbe voluto avviare (il “giovane giudio”, appoggiato da Pavolini, veniva nel ’37 ferocemente censurato dal “Tevere”, e subito allontanato dall’incarico ricevuto di promuovere un nuovo corso della Confederazione Fascista Professionisti e Artisti (6); mentre per analoghi motivi razziali terminava nel ’38 l’attività della Cometa), venivano a mancare quei pochi punti di riferimento che, pur in un’ottica ecumenica e tutt’altro che disattenta ai valori accertati espressi dalla generazione precedente, s’erano offerti a sostegno dei più giovani artisti romani.
Priva di ‘luoghi’ suoi propri, di riviste e periodici (quanto lontano ora, al chiudersi del decennio, doveva apparire il tempo eroico di “Fronte”, che aveva ospitato nel ’31 gli scritti di Raimondi e di Solmi, di Moravia e di Piovene, di Giansiro Ferrata e di Angioletti accanto alle poesie di Ungaretti e alle immagini di Scipione e di Mafai), priva di una critica partigianamente schierata (la cui temperatura – da Cecchi a Longhi, da Argan a Brandi – era tanto alta quanto poco atta a chiudersi in una sola militanza), e mentre d’altra parte manteneva una sua sostanziale unità d’intenti il gruppo già a vario titolo iscritto nelle fila del tonalismo e del realismo magico bontempelliano (da Trombadori a Francalancia, da Donghi a Cavalli), la nuova ‘scuola romana’ non poteva, a questo suo stadio iniziale, prendere intera coscienza di sé.
Emblematica di questa situazione d’incertezza è una mostra che, già in tempo di guerra, s’aprì per iniziativa della Confederazione Fascista Professionisti e Artisti presso la Galleria di Roma. Vi esposero, nel gennaio 1940, i pittori Guttuso, Guzzi, Montanarini, Tamburi e Ziveri e lo scultore Fazzini. Virgilio Guzzi s’incaricò del testo di catalogo, che risultò un’abile cartina di tornasole pronta a registrare le più disparate inclinazioni degli artisti espositori. Garbato rifiuto del più recente passato, della “mitologia di cose inanimate, le bottiglie, i manichini, i cavallucci di legno”; venerazione e amore, ma “nell’intimo”, per l’impressionismo e per tutto quanto gli fu a monte (da Delacroix a Courbet) e a valle (da Van Gogh a Cézanne). “Luce, mattino, alberi, verzure, acque, riflessi (…); e poi la vita, il tuffo nella vita, le strade, i teatri, i caffè, la modernità, il documento, il ‘particulare'”; questo, e insieme la consapevolezza che “l’arte è tutta nella bellezza di un segno, nella precisione lirica di una forma”.
Poi finalmente una più netta dichiarazione d’intenti: là ove si dice che “il nostro amore nuovo della realtà (…) può dirsi un desiderio di accostamento e di penetrazione che intende a tutti i costi quella realtà rappresentare in un nuovo equilibrio, dove il sentimento dello stile possa per cosi’ dire profondarsi nella oggettiva esistenza delle cose. Niente più realtà del sogno ma sogno della realtà. Ancora dunque, poiché non abbiamo paura delle parole, un nuovo realismo”. E’ forse questa la prima volta che, a Roma, il termine viene assunto esplicitamente a metro e prospettiva d’una comune azione pittorica; e si sarebbe condotti a sottolinearne il rilievo se appena dopo non ascoltassimo Guzzi diversamente inclinato: “Noi, scrive, aspiriamo a un romanticismo classico (…). Nostalgia d’una letteratura, inclinazione a dare un senso letterariamente pregnante a ogni invenzione. Romanticismo come disposizione a farsi comunicativi, credenti in una naturale animazione delle cose perché noi siamo naturalmente animati. Metafisica senza lavagne e indecifrabili misteri”.
Se si è riportata per larghi stralci la presentazione di Guzzi, è perché in essa confluiscono ad evidenza, creandovi insanate frizioni, almeno due posizioni, cui il prefatore cerca di dar voce e impossibile unità. Una è probabilmente quella sulla quale il Guzzi, nella sua veste di critico, vede attestato Guttuso : e da essa deriva quel passo, forse da Guttuso stesso esplicitamente sollecitato, in cui si dichiara aperta la via ad “un nuovo realismo”; l’altra quella che unisce Tamburi, Guzzi stesso e in parte Montanarini, propensi piuttosto ad un rapporto con il vero mediato da determinanti filtri di stile. “Espliciti e senza riserve” scorgeva infatti Argan, recensendo la mostra su “Le Arti”, i “riferimenti alla tradizione” di ciascuno degli espositori, escludendo che si potesse per altra via che non questa “associare i sei in un solo programma”. E, tacendo della dubbia dichiarazione di realismo nel testo di Guzzi, Argan nomina – certo, qui, pensando soprattutto a Guttuso e a Ziveri – una “realtà non più assunta come oggetto d’osservazione e d’imitazione, ma come esperienza interiore, antinomia necessaria perché il dato di cultura non si risolva in sé stesso ed urga invece alla coscienza come problema umano” (7).
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La mostra dei sei alla Galleria di Roma s’apriva, come detto, nel gennaio del 1940. Quel mese stesso, usciva a Milano il secondo numero della annata terza di “Corrente di vita giovanile”, e Raffaele De Grada, in uno scritto intitolato Invito alla discussione, annotava tra l’altro: “Il nostro discorso ambisce investire tutto il problema della nuova cultura, di cui l’arte è un aspetto tanto importante, e riguarda l’acquisto di coscienza di tutta una generazione che, abituata giustamente a considerare il problema del linguaggio come unico problema critico, minaccia di fossilizzare quei contenuti umani di cui il linguaggio è l’unico interprete, ma non l’unico pacificatore” (8). Molte cose saranno da notare in questo passo: ma prima di tutte nominiamo quell’adombrare che fa De Grada dell’opera e del pensiero di una generazione cui un’altra se ne opponga; quello iato, dunque, implicitamente indicato come espressione d’una dialettica necessaria al progredire della storia, che cade a disgiungere un tempo e l’altro, un modo e l’altro della pittura. Forse questo, ora – questa consapevolezza d’una necessaria frattura non solo con questo o quell’aspetto della più recente tradizione italiana, ma con il concetto stesso, autorevole e vincolante, di una tradizione – è quanto, prima che ogni altra cosa, distingue la situazione artistica milanese da quella romana.
Un dato, dunque, morale, etico prima ancora che specificamente estetico. E un dato che implica la nozione d’appartenere ad una frontiera di uomini nuovi. Giustamente, Arturo Schwarz restituisce a Corrente un lungo retroterra: nominando dapprima Edoardo Persico, capace di scrivere già nel ’31 che “un rinnovamento decisivo (in arte) dovrà consistere, prima di tutto, in un insolito atteggiamento morale dei giovani (…). Qualità morali e virtù di mestiere che bisogna assumere come presupposto di ogni civiltà artistica”; e subito appresso ricordando la folta e acuminata schiera di giovani vicini alla spiritualità di Antonio Banfi, e che confluiranno a vario titolo nelle fila del movimento, fra i quali Anceschi, Paci, De Grada, Sereni (9).
Di “uomini nuovi” aveva parlato, nel ’38, lo stesso De Grada, che si poneva, esplicitamente collegandola all’azione dell’ultima generazione, la prospettiva più specificamente estetica di un possibile “realismo”. “Nell’arte moderna il discorso è chiaro: o gli artisti fanno parte per se stessi e costituiscono casta (i metafisici), oppure interpreti delle vere forze di vita le indirizzano alla costruzione di una società futura di uomini nuovi. Soltanto in questo secondo senso potrà intendersi un nuovo realismo …” (10). Appena qualche mese dopo, nel dicembre dello stesso ’38, il medesimo concetto ricorre in termini più problematici in quel testo, certo di vasta responsabilità collegiale, che verrà poi individuato come un vero e proprio primo manifesto del gruppo. “La perfezione e la purita’ del mezzo espressivo non può tanto indugiarsi ad echeggiare il senso metafisico di se stessa”; al contrario, l’impegno artistico deriverà dalla “ritrovata drammatica della vita oltre le stanchezze liriche e i riporti naturalistici. Con questa fiducia, che tante esperienze ci confermavano, si parlò di ‘realismo'” (11).
Il ‘manifesto’ del ’38 è a diverso titolo importante: perché, intanto, dichiara nitidamente la posizione teorica e programmatica iniziale di Corrente, che è qui asserita per la prima volta e, ad esempio, con chiarezza assai maggiore di quanto avverrà poco dopo al testo di presentazione della prima mostra del gruppo, allestita alla Permanente nel marzo del ’39 (12). Per il fatto, poi, che vi è superata la chimera giovanilista, e una troppo facile polemica solo generazionale, e riaffermata in suo luogo una scelta in favore della modernità (si afferma tra l’altro nel manifesto che quanto indusse a cambiare il titolo della rivista da “Vita Giovanile” in “Corrente di vita giovanile” fu appunto “la convinzione nostra che la polemica d’arte tuttora in corso non è tanto opera di due generazioni che si affrontano, quanto piuttosto l’azione dell’incombente equivoco tra il vero e il legittimo svolgersi della tradizione di modernità e l’inquietante adattamento dei ‘moderni per rassegnazione’ ad un clima d’arte ormai ben chiaro” – ed è qui ben chiaro come la polemica, oltre che verso “la reazione ottocentesca o stupidamente neoclassica”, sia evidentemente indirizzata contro il Novecento).
Importante, inoltre, perché vi è chiaramente espressa la distanza fra il nuovo “problema di ‘realismo'” che urge nei giovani, e in qualcuno fra i meno giovani, del gruppo e ogni recupero d’un irrevocabilmente trascorso “naturalismo”. Ma forse importante soprattutto per un argomento e silentio: che risiede nell’implicito rifiuto di ogni preoccupazione d’ordine contenutistico. La realtà che Corrente postula per sé necessaria è ancora, oltreché un grimaldello per uscire lontano dalle retoriche di regime, un modo di pittura, anzi un modo di essere nella pittura: “chiari e assolutamente nostri”, dicono; portando in mano, ben alta, la “bandiera della modernità”; in cerca, sempre, di verità (“l’arte realista non è una contemplazione della realtà, ma una presa di coscienza e una partecipazione attiva, un giudizio che diamo sulla realtà”, scriverà Treccani – colui, forse, che più di ogni altro rimase a lungo legato alla temperie spirituale della gioventù) (13).
E’ per la medesima “forza morale” che li anima che Marchiori unisce allora (1938) nel giudizio artisti di generazione e di campo diversi come Birolli, Tomea, Mucchi, Sassu, Manzù, Valenti, Guttuso, Migneco, Badodi: senza fare fra essi alcuna gerarchia di merito o di aderenza ad un ‘programma’ che altro non prescrive se non un impegno, laico ed insieme quasi sacrale, di verità (14). Analogamente, poco dopo, De Grada identifica in una “libera considerazione della realtà circostante e prima di tutto della propria intima verità” il modo d’una pittura autenticamente realista e, recensendo la terza edizione della Quadriennale, destina a Morandi termini d’elogio non distanti da quelli indirizzati a Rosai che pur è detto, significativamente, rappresentare “l’indice dei contenuti avvenire dell’arte, quando il problema del linguaggio sarà meno assillante e una vera civiltà pittorica avrà vinto” (sarà d’altronde lo stesso De Grada, come s’è più sopra accennato, ad opporre fra i primi e con chiarezza – nel gennaio del ’40 – le istanze del linguaggio e quelle del contenuto: privilegiando queste ultime ma senza denunciare drasticamente le prime, che continuano ad essere a questa data da lui considerate alla stregua di una condizione forse non sufficiente ma certo tuttora necessaria all’arte) (15).
Rispetto a questo clima culturalmente e ideologicamente assai motivato, nel quale presto maturano anche le prime posizioni politiche non più di semplice fronda ma di aperta opposizione al fascismo – clima, solidarietà, consapevolezze che Roma, s’è visto, non era allora ancor pronta ad esprimere -, può dirsi che il cammino della pittura sia solo molto imperfettamente consono. Tanto emerge, nitidamente, nella prima mostra ordinata da “Corrente” nelle sale del Palazzo della Permanente nel marzo del ’39: ove certe cose lì proposte da alcuni fra i maestri della generazione precedente invitati ad esporre (Carrà, ad esempio, o Marussig, o Bartolini; ovvero, tra coloro che invece non furono presenti alla mostra, de Pisis – allora quasi di casa a Milano, dove aveva esposto nel ’37, e dove, dopo essersi stabilito all’albergo Vittoria di via Durini, ebbe, proprio nel ’39, una personale da Barbaroux – o addirittura Sironi, che stava avviando il corso nuovo della sua pittura, ormai definitivamente lontano dall’impartecipe e raggelata metafisica novecentesca) avrebbero forse avuto – a riguardarle adesso, con occhio spoglio dai vincoli imposti da una dichiarata militanza – maggior titolo ad incaricarsi di rappresentare le nuove tensioni ideali – comprese quelle “realiste” – che Corrente incubava, rispetto a molte delle prove lì esibite dai più giovani (16).
Badodi, ad esempio, era intento a dar figura ad un suo mondo su cui molto faceva aggio una trasfigurazione fantastica del reale; Valenti sembrava sovente adombrare, più che il trepido e mutevole incedere della vita, la fissità attonita della favola; mentre Migneco era forse allora più di ogni altro suo compagno di strada interamente compreso nella pennellata strusciata e filante, nel colore vorticoso di Van Gogh, che poco spazio lasciava ad una preoccupazione diversa da quell’intera assunzione di forma (anche se ritengo che l’avvicinarsi che fece allora Migneco a Van Gogh fosse motivato, diversamente da quanto avverrà un poco più tardi al gruppo romano dei “quattro fuori strada” – Ciarrocchi, Sadun, Scialoja, Stradone – meno da interesse linguistico e più invece da un’ansia di abbeverarsi, attraverso lui, ad un apice di violenza e di capacità di attingere, con essa, un nucleo fondo ed emozionale della realtà) (17).
Di soli tre anni meno giovane di Migneco era Renato Birolli: che non solo e non tanto per ragioni d’età, dunque, fu la personalità di gran lunga più autorevole, la vera figura carismatica di Corrente. Guardarono a lui, per un certo tempo con attenzione esclusiva, tutti coloro che s’accostarono al gruppo, e quando più tardi alcuni fra loro se ne distaccarono, spinti dall’urgenza di “innalzare bandiere” con la pittura, può dirsi che, piuttosto che aprirsi ad una sua seconda anima, quel movimento si congedasse dalla sua prima storia, confluendo in un sentire diverso, meno specificamente radicato e tanto più diffusamente e omogeneamente avvertito ovunque in Italia.
Al primo tempo di Corrente Birolli aveva consegnato, già nel ’38, due fondamentali momenti della sua formazione, che entreranno testualmente nel patrimonio culturale della rivista: la nozione della pratica d’arte come impegno intero di vita, e quindi come valore morale, che gli derivava dalla solidarietà di pensiero stretta con Persico tra ’30 e ’35 (18); e il riferimento inalienabile ad una modernità d’impianto europeo, identificata per allora da Birolli con la vicenda post-impressionista francese, da lui direttamente esperita nel soggiorno parigino del ’36, di per sé significativo ed illuminato ulteriormente dall’incontro con Venturi. Così che quando, nei mesi e nei giorni che immediatamente anticipano la prima uscita della rivista, Birolli dipinge il suo Eden, egli non solo vi fonda esplicitamente la sua lingua tra Cézanne e Van Gogh, ma indica di qual tipo – oltre la mimesi delle forme naturali – dovrà essere la nuova possibile realtà della pittura: come nelle Bagnanti, che apertamente cita, intero possesso di una verità scoperta al di là della prima pelle delle cose.
E ad una realtà che sia sempre più lontana dall’impressione, e invece profondo nucleo emozionale delle cose, s’accosta infatti il tempo ulteriore del pittore. Che mai, da un canto, rinuncerà al filtro slontanante della forma, dello “stile” (“stile, che è il compimento del linguaggio e il dominio sul filologismo”, dirà (19) ), elaborato sia nell’attenzione costante riservata al mestiere (e certo nulla in tal senso gli sarà più estraneo dei propositi di liberarsi dalla bella pittura che a diverso titolo Morlotti, Guttuso, Treccani ed altri con loro metteranno di lì a poco a fondamento d’una ricercata essenzialità di stesura), sia nel lento, ritornante, colto pensiero estetico di cui sempre avviluppa la sua opera; ma che d’altra parte ora, e più decisamente a principiare dal ’40, istituisce con la concretezza dei suoi innesti figurativi un dialogo tanto più serrato, capace di proiettarli sulla tela in un primo piano di bruciante, e prima a lui sconosciuta, evidenza.
A muovere da opere come il Ritratto di Rosa o come La donna dal velo nero (quest’ultima esposta, e acquistata da Alberto Della Ragione, al Premio Bergamo del ’41) (20), la pittura di Birolli si sbilancia dunque verso un termine suo estremo: in cui la perdurante vocazione ad un colore che risulti egemone nell’economia dell’immagine, e il medesimo riferirsi, quasi esibendolo al modo di citazione, ad un canone alto di tradizione moderna (con Manet e Matisse che si sovrappongono ora a Van Gogh) trovano un contraltare altrettanto esigente in un bisogno inedito di parola, e di concreto rapporto con la realtà. Scende di registro, allora, la gamma del colore, che indugia ora sovente in terre ombrose, in verdi impuri solcati dal nero: fino a taluni paesaggi dell’ultimo tempo di guerra nei quali Birolli sembra, come mai prima e non più dopo di allora, mettersi in traccia dei più fondi, aspri e nascosti gangli del reale (tanto che quasi verrebbe, per la struttura magra e quasi cézanniana che li innerva, di avvicinarli ai primi paesaggi di Monticello di Morlotti).
Meno assai di Birolli propenso ad accompagnare la sua ricerca con una assidua speculazione che fosse insieme critica e autocritica, Aligi Sassu contò – giovanissimo d’età ma già ricco di mestiere e di riscontri pubblici – quasi quanto il più sperimentato compagno sul primo cammino di Corrente: a lui, oltre che a Birolli, va ricondotta la foga, tra romantica ed espressionista, che caratterizzò il gruppo omogeneamente almeno fino al ’42-’43 – quella scelta orientata su una vicenda d’immagine che da Delacroix si voleva scorgere giunta senza fratture fino a Van Gogh e ad Ensor. Anche se il registro delle esperienze di Sassu antecedenti al tempo che vide nascere la drammatica e corrusca Fucilazione nelle Asturie (1935) era stato più diramato e fors’anche, in parte, agitato da un’interna dicotomia: giacché se il risolvere interamente per folgorazione cromatica le sue immagini degli Uomini rossi, degli Argonauti, dei Cavalieri lo faceva subito distante da ogni accademico dettato chiaroscurale e plastico, nondimeno quel singolare e contemporaneo riferirsi che era in essi a Picasso e a Matisse non distoglieva del tutto da quei dipinti una sorta d’aura mitica, d’attonita e sospesa stupefazione che in qualche modo s’accordava a certo clima fra realismo magico e novecento (non per caso ponendosi essenziale, tra l’altro, per quella “creazione dei nuovi miti” che di lì a poco Cagli avrebbe fondato fra Milano e Roma) (21).
Anche in Sassu, dunque, più che sopra un univoco indirizzo di stile, l’adesione al clima di Corrente si fonda nel concreto suo convergere verso le tensioni ideali, etiche e presto politiche del movimento. L’impegno suo personale, anzi, sarà in tal senso fra i più forti, e lo condurrà prima a quel lungo periodo di detenzione, fra ’37 e ’38, poi a quello stato di sorvegliato speciale del regime che impediranno o sconsiglieranno la sua partecipazione alle due mostre del gruppo nel ’39. Anno, questo, in cui Sassu licenzia l’opera sua più votata ad un rapporto di bruciante evidenza con la realtà dei suoi giorni, quella Spagna 1937 che si pone a capo, non solo tematicamente, di tanta pittura a venire del nuovo realismo italiano.
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“Nel gruppo di Corrente vi sono stati almeno due momenti (…). Il momento di Corrente quando c’è ancora la rivista e il momento di Corrente quando ormai non c’era più la rivista e c’era invece la Galleria di Corrente. Nel primo momento Birolli ha avuto una grande importanza. Birolli è stato il pittore che ha egemonizzato il gruppo, e direi anche nei caratteri espressivi dei suoi amici più vicini. La pittura di Migneco, di Badodi, di Valenti, che sono stati il primo gruppo di Corrente insieme a Birolli (…), ha carattere prevalentemente lirico con una speciale attenzione al colore; mentre il secondo momento di Corrente, quello in cui è intervenuto Guttuso, in cui è intervenuto Vedova, in cui ho cominciato a dipingere io, aveva già altre caratteristiche, sempre il carattere espressionista romantico, ma con una accentuazione plastica e drammatica molto maggiore, tanto è vero che prima si parlava solo di Van Gogh e dopo soprattutto di Picasso”: così Treccani, rievocando quel momento cruciale di trapasso, ha in seguito confermato la consapevolezza che s’ebbe, già allora, dello iato profondo che era intervenuto nei propositi e nella pittura giovanile a Milano allo scadere della guerra (22).
Anzi, appena prima: se è giusto riconoscere alla mostra a tre che Cassinari, Morlotti e Treccani aprirono nella nuova Galleria di Corrente e della Spiga (23) nel febbraio del ’43 quel valore di discrimine fra un prima e un dopo che il semplice elenco delle prime mostre (destinate a Birolli, Migneco, Badodi e Sassu) proposte da Treccani, a partire dal dicembre del ’40, presso la Bottega di Corrente di fatto conferma.
Cassinari aveva appena dipinto le sue Pietà , il Bue squartato, i Colombi assassinati: opere tutte nelle quali era giunto ad un diapason – poi mai più riattinto – il grido di rivolta, fondamentalmente ed ancora una volta etico, contro l’oscuro destino che l’uomo sembrava essersi dato. Treccani – che, giovane ancora alla pittura, appunto a Cassinari e a Morlotti soprattutto guardava – nell’identico tema dei Colombi morti, o nella Fucilazione cui proprio quei giorni poneva mano, diceva una non diversa parola: e se sull’uno e sull’altro ancora agiva quel clima fervido soprattutto d’indignazione e di proponimento morale che era stato di Banfi e dei suoi, certo altre urgenze ora vi s’assommavano.
Così se è vero che l’immagine – ad esempio – di Cassinari seguitava a nascere, pur in quei giorni di furore, in stretta aderenza ad “una visione profondamente neoromantica di accezione lirica, la quale comporta di conseguenza una lettura del tema tragico in termini patetici piuttosto che ‘eversivi'” (24), è altrettanto scoperta la determinazione nuova ad attingere ad una realtà di più scoperta connotazione drammatica, di più immediata capacita’ allegorizzante. “In quegli anni, scriverà più tardi De Micheli, noi parlavamo molto di ‘equivalenti pittorici’. Le nostre poesie e i nostri quadri si popolavano cioè di emblemi e di simboli che dovevano riassumere in sé, drammaticamente, un significato di lotta e di rivolta” (25): e non è dubbio che questa nuova tensione di pensiero – non lineare, non univoca, e sovente venata di valenze diverse a seconda dei testimoni che di volta in volta la diranno, e che la metteranno in figura – sia quanto sospinge ad una ulteriore cognizione di sé il movimento realista italiano.
E’ quanto, in sostanza, essi ricercano e riconoscono in Picasso: meglio, nel Picasso di Guernica. Attorno al quale va nascendo un’ipotesi teleologica che ne fa il punto-limite di una civiltà figurativa che dalla Grecia classica attraversa il medioevo e l’età moderna dell’Occidente. E nei confronti del quale ogni passo ulteriore è visto non tanto come acquisizione potenzialmente più alta di verità, ma come speranza di una continuità possibile che sfugga alla chiusa ripetizione accademica del modello.
Guernica è ora tutto: è il metro formale per uscire dall’espressionismo, sul quale la nuova generazione ha troppo a lungo indugiato, finendo – nella sua testuale devozione a Van Gogh e a quanto gli era seguito – per scambiare “il carattere di profonda urgenza delle sue parole” con “ogni forma di pessimismo, di fenomeni evocativi e mistici”. “Riconosciamo – scriveranno cosi’ Morlotti e Treccani nell’allora non pubblicato Primo manifesto di pittori e scultori – nell’atteggiamento di Picasso un superamento dell’intimismo e del personalismo degli espressionisti” ((26).
E’, ancora, il legame certo e forte con una tradizione moderna: che confermi, nel rapporto che si vuole istituire con la realtà, la presa di distanza (da sempre limpidamente perseguita peraltro da Corrente) dal naturalismo e dal verismo ottocenteschi, da una pittura che sia semplice “narrazione” del mondo (“il realismo è anche astrazione, ossia superamento dei dati veristici e naturalistici”, detta al suo diario Treccani nel ’43) (27). E’, infine e soprattutto, il “giudizio” sulla realtà che, in luogo della sua testuale e inerte ripetizione sulla tela, spetta alla pittura: è quanto, per l’intensità della sua parola contro la tirannia che ha saputo esprimere, s’è saputo incaricare di fronte al mondo di “innalzare bandiere con la pittura”.
“Il pugno chiuso sul coltello, la fiaccola, il toro!” (28): simboli, dunque, ai quali se non altro l’adesione data sempre da Corrente alla poesia ermetica doveva aver preparato anche i pittori del gruppo. Ma per essi è ancora vicino il ricordo dell’uso e dell’abuso che, dalla metafisica al realismo magico, la cultura italiana aveva fatto del termine; e da quel sospetto nacque l’esigenza di individuare in una più complessa “equivalenza degli equivalenti formali (…) l’equivalente figurativo del prodotto sociale”, ossia la via, per la pittura, d’uno “sviluppo iconografico parallelo alle urgenze della società” in cui si sarebbe verificata l’ipotesi del nuovo “realismo” (29).
Convergevano allora su questo terreno i propositi, insieme, di Morlotti e di Guttuso: stretti quei giorni in una solidarietà densa di colloqui e che scansava con naturalezza i sospetti, e le gelosie, che sovente nutrirono i compagni milanesi di Morlotti nei confronti di Guttuso, e viceversa. “Mi sento più dritto e più forte di tutti, eccetto Guttuso”, scriveva Morlotti nel ’43: riconoscendo all’amico quelle priorità delle quali a stento Milano, ora che tanto tempo era trascorso dal suo lungo soggiorno lì, gli faceva credito. E Guttuso, che oltre a Mafai non trova a Roma altre autentiche consanguineità, scrive a Morlotti questi mesi stessi quella importante e “lunga lettera che potevo scrivere solo a te”.
A Morlotti, Guttuso parla della “quantità di carne viva che ci sarà dentro un quadro o un libro” come unica “questione specifica” dell’arte: della “quantità di noi stessi come sangue, intelligenza, vita morale, che ci si butta dentro”. E Morlotti confida ora la sua ripugnanza per “la bella cornice e il ‘pezzo di pittura’. Bisogna temere il compiacimento di una pennellata e il discorso grasso delle velature. Preferiamo le materie più aride, perché vogliamo arida e scarna la nostra parola agli uomini”. Gridano allo scandalo, gli scrive ancora Guttuso, per queste nostre parole: “polemico, cartellone, decorativo, illustrazione. Ma pensa che civiltà sarebbe quella dove sulla copertina della ‘Domenica del Corriere’ ci fossero i quadri nostri, che vera civiltà sarebbe”. E Morlotti scrive a Treccani, ancor più radicalmente: “io non farò più né pittura tonale né bella pittura, anche se solo in questo senso mi sono tenuto finora a galla. Farò dei cartelloni pubblicitari o perlomeno vorrò fare questo”, e “buttare dietro le spalle i vizi e le presunzioni che mi sono accumulato addosso” (30).
Dunque, quando Guttuso scriveva all’amico di pensare “sempre più a una pittura che possa vivere (…) come grido espressivo e manifestazione di collera, di amore, di giustizia sugli angoli delle strade e sulle cantonate delle piazze piuttosto che nell’aria triste del Museo per quei pochi specialisti che di tanto in tanto andranno a cercarla”, quando con ciò statuiva con lucida preveggenza due modi egualmente essenziali a quello che di qui a poco sarà il transito di molti dal realismo al neo-realismo socialista (un problema divenuto egemone – e non più solamente dialettico all’istanza opposta della forma, come sino ad allora era stato – di contenuto; ed un altrettanto vincolante impegno verso una specifica destinazione socialmente allargata del prodotto artistico), egli trovava Morlotti pronto all’ascolto e alla solidarietà. Eppure: Morlotti dipingeva nature morte, anche se fatte soltanto di ruggini, di disfacimento e di bucrani, e paesaggi, anche se dolorosamente ridotti a scarni fantasmi d’una ormai inamena natura; e Guttuso crocifissioni, fucilazioni, battaglie, massacri, e uomini e donne scovati in un loro vivere accaldato di passione – come perennemente in bilico fra morte e vita della carne.
E ancora: Morlotti, pensando a Guernica, ne riascoltava le lontane radici, riandava a Cézanne: a quell’ansia in fondo mai dismessa, e poi dagli anni Novanta in avanti divenuta totalizzante, con cui Cézanne tornava a ripiegarsi, dopo tanto pensiero, sul propriooggetto, sulle poche mele disposte sul piano inclinato del tavolo, sulla fatalità (tanto diversa dalla banale e rassicurante affezione alla natura cui la ridusse la lettura di Bernard) di quell’oggetto come eterno ritorno della pittura. Guttuso prendeva per sé, di Guernica, soprattutto il coraggio d’aver scardinato ogni sistema linguistico sino ad allora conosciuto: tant’è che ripetutamente indicherà come l’unica via per non tradire il capolavoro di Picasso consista nello scavalcarlo in avanti, nell’intenderlo come punto di confine fra il vecchio, da quell’opera irrimediabilmente condannato, e il nuovo che s’ha da costruire.
Morlotti ha colori di cenere, Guttuso di fiamma; e dentro quelle opposte temperature cromatiche, il segno nero di Morlotti è lo scavo rabdomantico di uno scheletro nascosto delle cose; quello di Guttuso è segno di contorno, immediatamente oggettivante; è la sintesi violenta del suo rapporto di scontro con il visibile: che egli non vuole protrarre fino al punto che i suoi profumi forti, la sua bruciata flagranza svaporino in una troppo problematica indeterminatezza. L’immagine di Guttuso – qualunque essa sia: di paesaggio o di composizione, di natura morta o di figura – prorompe di qua dalla pelle del dipinto, preme verso la vita. Cresce per accumulo: di “emblemi” e di spogli frammenti d’esistenza, di sapienze fabrili e di veloci trasandatezze, di sensualità esibite e di velate malinconie. Accumulo parossistico che la pittura, araldica, congiunge infine in un’unica, satura voce.
Morlotti, al contrario rastrema i sensi del reale cui guarda con ossessiva ferocia; scava le sue rocce, i suoi tronchi d’albero, i suoi spalti di verzura per trovarvi un’orma identica a quella che giace in fondo al suo corpo, al suo animo. E i bucrani, i dossi, i nudi stanno sulla tela come avessero preso figura al termine di uno sguardo che ne ha scavato la natura, e appena un attimo prima di esser risucchiati oltre la superficie del dipinto, di svanire nel groppo indistinto del caos.
Dall’uno e dall’altro, da questo loro tempo già interamente maturo, prenderanno le mosse le due vie del realismo italiano degli anni a venire: quello socialista, direttamente disceso da Guttuso, e quello esistenziale, cui più mediatamente diede linfa Morlotti. Due vie che andranno sempre più drasticamente divaricando, ma che già nel tempo immediatamente successivo alla guerra trovano un assetto anche teorico l’una rispetto all’altra autonomo, seppur non ancora consapevolmente, o almeno dichiaratamente, conflittuale: la prima nel lungo saggio di De Micheli Realismo e poesia, la seconda nel Manifesto del realismo firmato da Morlotti, Testori, Vedova ed altri, entrambi pubblicati nel febbraio del ’46 (31).
“Così diciamo che il contenuto suscita la nuova espressione”, scriveva allora De Micheli che, pur non giungendo ancora a rigettare a priori la possibilità che quella “nuova espressione” potesse scaturire dall’incontro del pittore “anche (con) i più semplici oggetti di una natura morta”, tuttavia dichiarava che “certo l’esigenza più urgente che è in noi ci spingerà sempre verso quelle opere dove si compie e si decide direttamente il destino dell’uomo, dove cioè i personaggi respirano la lotta”. All’opposto, il Manifesto del realismo, dopo aver ipotizzato una “realtà che è contemporaneità”, asserisce che “in arte la realtà non è il reale, non è la visibilità, ma la cosciente emozione del reale divenuta organismo. Mediante questo processo l’opera d’arte acquista la necessaria autonomia”. Ove da sottolineare non sarà naturalmente l’ormai acquisita repulsa del binomio naturalismo-verismo, quanto piuttosto il corollario fondamentale di questa diversa nozione di “realismo”, cioè l’individuazione della necessità non rinunciabile d’una specificità del linguaggio estetico, e l’implicita denuncia – che direttamente ne consegue – del problema contenutistico della pittura.
Altrettanto netta la divaricazione appare ove si consideri come mentre nel testo di De Micheli (pur lungamente disteso a commentare i principali movimenti estetici dell’età moderna, dal romanticismo al naturalismo, dall’espressionismo al surrealismo) non compare mai il nome di Cézanne, nel Manifesto del realismo si tace del tutto quello di Picasso. Giacché Picasso è ormai, in Realismo e poesia, non il termine ultimo d’una evoluzione di forma che ha segnato l’arte europea degli ultimi cinquant’anni, ma il pittore che, per quasi miracolosa folgorazione, ha trovato senza cercare (“In arte, come dice Picasso, non bisogna cercare, bisogna ‘trovare'”) ; il pittore guerriero che, con Guernica, “prende possesso del mondo” ; il pittore che contro ogni “intellettualismo” e “irrazionalismo” è stato capace di aprirsi una “strada tra la confusione delle voci, ed è arrivato al midollo della realtà”. Quel pittore, infine, che – nella mitologia che si va allora fondando – servirà alla causa dell'”uomo comunista” nei lunghi anni del futuro dibattito sulle arti, così come “l’arte per noi deve servire all’uomo, servire proprio come ad un meccanico serve una morsa o un tornio, servire alla nostra pace e alla nostra lotta” (32). E se questo è Picasso, Cézanne è ormai un termine non più essenziale di confronto.
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“Pippo è a Venezia e lo vedo spesso, presto avrà la sua casa, egli è come al solito in frenetico lavoro tra i suoi quadri, la sua cucina, i suoi thè, le sue visite e il suo sublime egoismo”: è il marzo del ’44 quando Comisso manda ad Olga Signorelli questa notizia di de Pisis (33). Sono gli stessi giorni, gli stessi mesi dei primi manifesti milanesi, dei codicilli romani. Ha avuto casa a Milano, de Pisis, durante la guerra: una bella casa a via Rugabella; poi casa e studio a Roma; ma certo di quei pensieri teoricamente agguerriti che si van facendo sulla pittura non sa nulla, e nulla comunque vorrebbe ricordarne. E’, la sua, rispetto a quella che ora si dibatte, un’altra ‘realtà’: non asserita, non proclamata, e anzi, quasi, per tutta una vita, ammantata di sogno. Altra, eppure non meno flagrante (se davvero ci si può fermare a questa formula retorica: ad un conciliante “non meno”) dell’altra; non meno determinata a stare fra le ragioni ultime, e per lui le uniche vere, della pittura (“Lo penso nudo in un pomeriggio italiano, disteso sull’ottomana del mio studio, l’oro dolce delle gambe, dietro vorrei del vetro, la luce malata, mio tutto mio …”: ecco, in poche sue righe scelte poco più che per caso, detto per intero il chiuso circuito che racchiude in de Pisis la realtà, il desiderio di lei, e la pittura).
In lui, come forse in nessun altro dei grandi italiani del nostro secolo, poco o nulla contarono le preoccupazioni di natura esclusivamente, od organicamente, linguistica; in lui come in pochi altri l’assillo di un ‘dover essere’ fu costantemente disperso dalla verità che ai suoi occhi sempre ha rivestito il volgere breve, incostante dell’attimo. E la forma della sua pittura, de Pisis l’ha raggiunta (o l’ha mancata: perché rimane comunque vero che essa, giorno dopo giorno, ha corso consapevolmente anche questo rischio) sempre in quell’attimo. Un attimo che è per lui quasi senza passato (s’allontanano, e di quanto, i ‘modelli’ di stile: anche quando gli capitava di avvistarli – e tali furono, ad esempio, quelli offertigli dal nuovo incontro con gli impressionisti sulla meta’ degli anni Trenta (34) – altissimi e a lui apparentemente più consentanei), e senza un prevedibile nesso con il suo futuro. Un attimo in cui, lontano da tutto, stringe in un crampo breve e violento tutti i suoi sensi, esposti, con tutti i sensi della realtà: allora, quando tutto è in gioco senza saggezze, senza ricordi e senza prudenza, viene in un fiato la pittura di de Pisis.
Radicato ad un suo unico luogo, invece; custode geloso d’una forma che nasceva, infallibilmente, da lente variazioni di lingua; consapevole sempre d’ogni atto formativo che andava a tramare la sua pittura: tanto diverso era Morandi. Che gli anni di Corrente avevano guardato, assieme, con amore e sospetto. Amore per quel suo stare lontano da ogni retorica auspicata dal regime; per il silenzio, la solitudine, il mistero che aveva saputo opporre al concerto di voci, allo stentoreo gigantismo del Novecento. E sospetto: sospetto che una così alta misura formale escludesse dal suo chiuso recinto quell’impegno anche etico, quella responsabilità dell’arte nei confronti dell’uomo che i giovani di Corrente vagheggiavano.
E basta guardare ad un’opera nata in quel clima e in quegli anni con l’esplicito intento di ripensare a Morandi, basta guardare a questa Natura morta di Morlotti datata al ’42 per intendere, appieno, il sentimento doppio che legava quella nuova generazione al maestro di Bologna. Gli oggetti, i toni cromatici accordati, e quella strenua volontà d’unirli in canto ritmato, cadenzato dalle precise rispondenze spaziali che realizzano sul piano di posa le emergenze di luce e, al loro fianco, le pause dell’ombra: questo è quanto Morlotti desume, quasi testualmente, da Morandi. Ma poi lo strappo non è men forte di quel primo riferirsi al modello. Quel sostegno offerto agli oggetti, così concretamente offerto non come casta e mentale misura d’ingresso spaziale, ma come materia in crescita disordinata, e quasi cespitosa; quel colore dato a corpo, di corrusca, inquieta, serpentinante densità; quell’ombra che diviene forra, e cupo ristagno d’ansia: tutto, qui, si carica d’una vita immanente che Morandi, il Morandi delle grandi e perfettamente scandite nature morte del Trenta, aveva allontanato da sé.
Quel Morandi: non tutto Morandi. Ma era allora (solo allora? O non anche dopo, e sino ad oggi: persino dopo che Arcangeli aveva inseguito passo dopo passo, mese dopo mese, quel mutare continuo d’intenzioni formali di cui è lastricato il lungo lavoro) monadica la nozione che s’aveva di lui: come se la fissità dei suoi temi, o della sua solitudine, o dei suoi luoghi, potesse arrogarsi arbitrariamente il titolo per transitare nell’opera, e fare sempre identiche a se stesse, anche, le vocazioni di forma. Che si distesero, invece, lungo un arco molto ampio, anzi straordinariamente ampio, dalla sospensione metafisica degli esordi al tempo estremo, quasi interamente astratto; toccate più d’una volta – ed è quanto qui, in ispecie, concerne l’assunto di questo studio – da un desiderio di rimeditazione della realtà.
Forse una prima traccia profonda di quel desiderio appare al ’21: quando, ad esempio, l’affittirsi, e il perdere nitido contorno e lenta spaziatura che fanno gli oggetti arroccati nella Natura morta di Brera rinnegano, clamorosamente, il limpido assetto, i calibrati rapporti spaziali, le luci quietamente distese, i conclusi volumi che l’anno avanti avevano costruito l’altra Natura morta oggi alla Galleria Comunale di Bologna. Poi, certo, quell’ansia stessa ritorna, calata in sintesi meno perfette, nei mesi del ’27 che si vogliono toccati da un colloquio con ‘Strapaese’. Ma è infine nel tempo di guerra, e fino a quell’estate del ’43 quando si rifugia per un intero anno a Grizzana, che la pittura più s’inclina verso quegli scarti improvvisi dalle conosciute acquisizioni di forma, verso quelle suggestioni inaspettatamente meno filtrate da una regola severa che dimostrano appieno la “ricchezza d’alternative ancora possibile al suo mondo” (35).
I Fiori, allora, del ’42, con i due steli caduti ancora disposti sul primo piano ad aprire una congrua profondità, ma poi come macerati e stanchi nel vaso, in brusco rapporto con l’aria tremante che li circonda: così diversi da quei suoi altri Fiori del ’24, intrepidi ed esatti nella loro calibrata avventura spaziale, sapienti inframissioni luminose tra primo piano e fondo. E i paesaggi di questi stessi anni e mesi: ventosi, turbati, e nei quali uno sconosciuto disordine, una voglia – persino – di veloci, arrischiate scritture, frastorna sovente le essenziali e quasi geometrizzanti campiture di colore attorno alle quali eran costruiti altri paesi: gli uni e gli altri, i Fiori e questi nuovi Paesaggi dicono d’uno sguardo che, posandosi sulla propria conosciuta natura, ha sperato di intrecciare con essa una più essenziale parola.
Questi anni che furono, per Morandi, di rischi nuovi e fecondi, segnarono per Rosai, a Firenze, un opposto ripiegamento su modi iconografici e stilistici più antichi, che vennero non senza essere accompagnati da “qualche cedimento di fantasia, qualche irrigidimento e raggelamento nella materia pittorica” (36). Eppure, se tanto avveniva soprattutto nei paesaggi e in quelle scene d’interni sulle quali maggiormente si fissava il gusto del pubblico, altrove Rosai ritrovava quel modo autentico di unirsi al reale, come posandovi addosso una mano impietosa, che aveva sottratto alla genericità del vernacolo tanta parte della sua migliore giovinezza. E furono così figure di nudi, ritratti e autoritratti, oltre a Crocifissioni che toccarono “forse il punto di massimo tormento e di tensione tragica dell’artista” (37), ad attingere ora un’acme d’espressività cupa, livida e insieme ghignante – chiave espressiva , questa, nella quale Rosai, di qui alla morte, darà le sue prove più alte.
A Firenze – ancora sorvegliato dal regime che, dopo l’arresto nel ’34, l’aveva inviato l’anno seguente a quel confino ove aveva conosciuto e dato figura al dramma dell’arretratezza del Sud del paese – era nel tempo della guerra anche Carlo Levi. Sono anni, questi, già di piena maturità per il pittore, che aveva densamente operato, a partire dal primo dopoguerra, nella sua Torino così naturalmente europea, e così poco disposta a scambiare le lunghe radici della sua cultura con quelle più giovani e più virulente che il fascismo tentava di innestare. Allora, attorno ai “Sei” s’era raccolta quella secessione pittorica rispetto ai modi del Novecento che per qualche verso anticipò il modo di ribellione messo in atto da Roma e da Milano al chiudersi del decennio: ma troppo vincolante risultò per quei giovani prima la lezione ‘astratta’ di Casorati (e per alcuni di loro, parallelamente, quella di Guidi), poi quella ‘moderna’ di Parigi, perché essi potessero desiderare di cercar altri motivi di dissenso dalla retorica novecentesca.
E Levi stesso dovette attendere i suoi giorni ‘oltre Eboli’ perché la vocazione che poi avrebbe lungamente segnato la sua pittura sgorgasse piena; ed anche allora, furono dapprima le sue figure, i ritratti bruschi e condotti come di getto, a ridirla: mentre i suoi paesaggi lucani ancora si nutrivano della inestinguibile lezione di forma di Matisse. Proprio il tempo fiorentino vide infine divenire egemoni, contro le ragioni d’uno stile tanto a lungo sedimentato, quelle d’un più franto colloquio con la realtà: che prese allora per lui le spoglie drammatiche di corpi nudi atterrati, avvinti, esangui – piegati sopra il proprio cieco dolore dall’orrore della guerra.
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Di lì a poco Levi aderiva al manifesto di fondazione della Nuova Secessione Artistica Italiana, che avrebbe preso il nome di Fronte Nuovo delle Arti (ottobre 1946); lo faceva assieme a Birolli, Cassinari, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova e Alberto Viani, ma presto (assieme a Cassinari, e a Marino, anche se presumibilmente per ragioni quasi opposte dalle loro) ritirò la sua adesione, e non partecipò alla prima mostra del gruppo tenuta nel ’47, a Milano, dai primi firmatari ai quali s’erano aggiunti Corpora, Turcato e i tre scultori d’area romana, Leoncillo, Fazzini e Franchina. E quali che fossero le ragioni contingenti del suo diniego, certo quelle più fonde dovettero risiedere non tanto nella genericità sempre denunciata di quel manifesto (che auspicava assieme “una dialettica delle forme” e una maggiore “frequenza della realtà” da parte di quegli “undici artisti italiani” uniti, per loro stessa ammissione, da “una sintesi riconoscibile soltanto nel futuro delle loro opere”), quanto nella presa d’atto che egli poté fare d’una via, auspicata da quei pittori, assai lontana da ogni preoccupazione di impegno nei confronti della realtà – impegno che egli allora si proponeva invece di mantenere (38).
Quella di Levi fu una facile profezia: l’anima ‘realista’ del movimento, impersonata soprattutto da Guttuso, capitolò presto di fronte alla assai più folta schiera dei futuri ‘formalisti’; equando il Fronte di fatto si sciolse, alla fine del ’48, la via al più omogeneo Gruppo degli Otto di Venturi, nel quale confluirono molti degli ‘undici’, era aperta, e con essa una delle tappe più significative dell’arte italiana del secondo dopoguerra (39). Un’arte italiana che più d’ogni altra cosa ambiva, ora, d’essere e restare, a differenza di quanto era avvenuto durante il fascismo, in dialogo con quella europea. Sono vicende, queste, ben note. Ma assai meno riconosciuto è il ruolo determinante che quelle iniziali complicità giocarono nello sviluppo che prese larga parte della costa così detta realista della pittura italiana fino, almeno, al ’50.
Non mi par dubbio infatti che proprio la volontà di dialogo che essa – e per essa, segnatamente, Guttuso, che ne era la figura principalissima e ideologicamente trainante – manifestò con tendenze di fatto così diversamente orientate (una ricerca di solidarietà prima di tutto morale che riattingeva evidentemente a Corrente, e che è manifesta, ad esempio, nella proposta avanzata da Guttuso nell’estate del ’48 di accettare nel Fronte Nuovo, insieme, artisti di opposto concetto quali, da un canto, Treccani e Zigaina e dall’altro Cagli e Mirko (40) ), che proprio questa volontà, dunque, sia da porre alla base dell’equivoco indirizzo che per molti anni prese il movimento realista abbracciando senza riserve quel ‘picassismo’ di cui non sarebbe stato altrimenti difficile intendere, oltre che l’ormai fatale ritardo storico, il forte segno formalizzante che implicava. In altri termini, attraverso la perdurante devozione a Guernica, Guttuso (che in cuor suo molti dubbi doveva nutrire in proposito già al ’48 (41) ) credette possibile assicurare al fronte realista un pieno diritto di cittadinanza nella tradizione moderna: ipotesi che si rivelò presto, però, impraticabile sia per l’equivoco di fondo che la minava, sia per la ingombrante e troppo spesso rozza ingerenza del partito nelle vicende artistiche nazionali, sia infine per il basso profilo qualitativo di troppi interpreti di quel nuovo realismo.
Che d’altronde questa adesione, di natura per così dire tattica, al linguaggio post-cubista non potesse essere una via congrua per dar figura ad un rapporto stringente con la realtà sarebbero bastate a confermarlo, da sole, le poche righe che proprio a Guttuso destinò Lionello Venturi presentando le sue opere alla mostra del Fronte Nuovo alla galleria della Spiga: “Si può non essere cubisti, non si può ignorare il cubismo. Esso ha insegnato a frapporre un velo intellettuale fra l’occhio e la natura. Quel velo è l’ordine intellettuale dell’arte contemporanea. Guttuso se ne è accorto più della maggior parte degli artisti italiani e ne ha tratto profitto”, mediando attraverso il cubismo – prosegue Venturi, qui evidentemente sollecitato a rendere esplicita, almeno come termine dialettico, la vocazione realista di Guttuso – fra l'”ordine astratto” e la “realtà” (42).
Ma che, in sostanza, stesse a minare profondamente il connubio fra post-cubismo e impegno verso il reale una inconciliabile alterità, fu fatto subito percepito da altri, egualmente impegnati sul piano politico: da alcuni fra coloro, in particolare, che più da vicino avevano partecipato al clima di Corrente. Da Treccani, ad esempio, che nel ’48 scriveva, mettendo in discussione coraggiosamente le sue stesse posizioni di poco avanti: “possiamo dire, come nel nostro manifesto del 1943, scambiando l’opera di Picasso con la rivoluzione proletaria, che le immagini del pittore ‘sono provocazione e bandiera di migliaia di uomini’? Io non credo, Picasso non è ancora questo. Guernica è un terribile documento (…) ma non è ancora la protesta di migliaia e centinaia di migliaia di uomini semplici che vi si riconoscono”. E altrove, nello stesso testo, Treccani denuncia esplicitamente il “formalismo picassiano” nel quale infruttuosamente indulgono tanti vecchi compagni di via. Egualmente Gabriele Mucchi, ricco di un lungo e sempre denso impegno pittorico, scriverà poco più tardi circa gli anni dell’immediato dopoguerra: “La via verso i contenuti del realismo e anche verso un mutamento del linguaggio pittorico pareva già allora definirsi per me come per molti altri artisti. Pure fra il ’45 e il ’48 ci fu in tutti una specie di involuzione (…). La riapertura delle frontiere culturali portò molti pittori a ‘riscoprire’ la pittura francese, il cubismo, Picasso (…). Molti pittori che già parlavano di realismo, invece di trarre da Guernica l’insegnamento vero che quella pittura poteva dare, cioè la scelta nella realtà, si buttarono all’imitazione della maniera di Picasso, manipolando le sue peculiarità più formali” (43).
Nei fatti l’opzione neo-cubista, presto scaduta per giunta in molti epigoni a facile formula, consentiva non più che una generica impalcatura narrativa dell’immagine, araldica e declamatoria: raggelandosi immancabilmente sul suo dubbio spalto di modernità, così dichiaratamente linguistico, proprio il tanto predicato ‘anti-formalismo’, e quel problematico, ansimante rapporto con la natura e il mondo che è implicito in ogni autentica vocazione realista. Guttuso stesso d’altronde, pur continuando per un certo tempo a sostenere strategicamente quei modi e quelle inflessioni, presto se ne distaccò (non senza, peraltro, aver fornito in quel clima d’immagine alcuni quadri notevoli, come ad esempio la serie degli Zolfatari, del ’47-’48), fino a presentare alla XXV Biennale di Venezia del 1950 (che verrà chiamata la “Biennale del realismo” (44) ) un quadro come Occupazione delle terre incolte in Sicilia dove la scelta stilistica propende già altrove, verso quella maniera marcatamente chiaroscurale e plastica sulla quale a sua volta indugerà a lungo il movimento realista italiano.
(1) G. Giuffré, Fausto Pirandello, Roma, 1984; ove ritrovi tra l’altro la documentata datazione che spetta alla Siccità, principiata ad Anticoli Corrado l’estate del ’36 e terminata nei primi mesi dell’anno seguente (cfr. in particolare pp. 108 e 205-206). Per il percorso complessivo del pittore confronta adesso anche C. Gian Ferrari, Fausto Pirandello, Roma, 1991.
(2) M. Mafai, autopresentazione, sotto il titolo di Mostra personale di Mario Mafai, in Seconda Quadriennale d’Arte Nazionale. Catalogo Generale, Roma, 1935, p. 35.
(3) G. Marchiori, Artisti contemporanei: Mario Mafai, “Emporium”, XLVI, settembre 1940, p. 126; A. Santangelo, Mario Mafai, “Emporium”, XLVIII, aprile 1942, p. 156.
(4) Per Afro a questi anni vedi Afro fino al 1952, cat. della mostra a cura di B. Mantura e P. Rosazza Ferraris, Spoleto, 1987 ed E. Crispolti, I Basaldella, Cinisello Balsamo, 1984. Per il periodo genovese dei Mafai, F. D’Amico, Antonietta Raphael. Sculture, cat. della mostra, Milano, 1985; Mario Mafai. Le Fantasie, cat. della mostra a cura di F. D’Amico e F. Gualdoni, Modena, 1990; e F. Gualdoni, Mario Mafai, in AA. VV., Nove maestri della scuola romana, Torino, 1992.
(5) E. Maselli, La pittura alla II Quadriennale, “L’Italia Letteraria”, 13 aprile 1935.
(6) La nota redazionale de “Il Tevere” è riportata da M. Fagiolo dell’Arco, Scuola romana, Roma, 1986, pp. 138-140 (cfr. ibidem e passim anche per le altre notizie sull’attività delle gallerie a Roma allo scadere degli anni Trenta; sulle quali vedi utilmente anche M. Quesada, Nella scia della ‘Cometa’, cat. della mostra, Roma, 1988, e G. Appella, Roma, De Libero e la Galleria della Cometa, in Galleria della Cometa. I cataloghi dal 1935 al 1938, Roma, 1989).
(7) G.C. Argan, Sei artisti alla Galleria di Roma, “Le Arti”, II, febbraio-marzo 1940, pp. 197-198.
(8) R. De Grada, Invito alla discussione, “Corrente di vita giovanile”, III, 2, 31 gennaio 1940. Dello stesso De Grada vedi, per la vicenda complessiva del gruppo, Il movimento di “Corrente”, Milano, 1952. Vastissima è la bibliografia successiva sull’argomento: si consultino in particolare almeno M. De Micheli, Le vicende di un gruppo e la storia di un pittore, cat. della mostra di E. Treccani, Roma, 1953; M. Valsecchi, Gli artisti di “Corrente”, cat. della mostra, Ivrea, Verona e Milano, 1963; A. Luzi, Corrente di vita giovanile (1938-1940), Roma, 1975; Corrente. Cultura e societa’. 1938-1942. Omaggio a Edoardo Persico 1990-1936, cat. della mostra a cura di E. Crispolti, V. Fagone, C. Ruju, Napoli, 1978; Corrente: il movimento d’arte e cultura di opposizione. 1930-1945, cat. della mostra a cura di M. De Micheli, Milano, 1985; Artisti di Corrente. 1930-1990, a cura di E. Pontiggia, Busto Arsizio e Ferrara, 1991; ma tenendo in conto che altri importanti contributi alla comprensione del periodo sono presenti nella bibliografia dei singoli artisti, o nelle loro raccolte di scritti.
(9) T. Sauvage (A. Schwarz), Pittura italiana del dopoguerra (1945-1957), Milano, 1957, pp. 33-34, ove anche si veda l’indicazione bibliografica dello scritto citato di Persico. “Eticità come responsabilità storica”, annota Crispolti (1978, cit., p. 42), e per questo verso sovrapersonale e laica; eticità che, fra le proposizioni prime espresse sulla rivista, mi pare rispecchiarsi intera in questo brano di Marchiori: “Certi bei tipi augurerebbero oggi, per il loro piccolo diletto, un’arte di beatitudine ottimista. Rispondiamo loro che non si può, senza dimetterci dalla nostra posizione di uomini, essere insensibili al dramma quotidiano. Se essi vogliono un’arte felice, comincino dunque a finirla con questa umanità sofferente di uomini afflitti e timorosi, di esseri senza impegno che dubitano della propria esistenza, con questa baraonda dove ciascuno scansa l’altro per prendergli il posto, rovescia l’altro che gli è nemico, lo calpesta e gli schiaccia la testa per passare” (Arte e pubblico, “Vita giovanile”, I, 7, 30 aprile 1938).
(10) R. De Grada, Tranquillo Cremona e gli artisti lombardi del suo tempo, a Pavia, “Vita giovanile”, I, 8, 15 maggio 1938.
(11) Consultato in A. Schwarz, cit., pp. 214-216.
(12) Idem, pp. 217-218.
(13) E. Treccani, Rinnovamento culturale e movimento realista italiano nelle arti figurative (1952), in Arte per amore, Milano, 1966, p. 149.
(14) G. Marchiori, Generazioni e umanita’, “Vita giovanile”, I, 10, 15 giugno 1938.
(15) R. De Grada, La pittura italiana alla III Quadriennale romana, “Corrente di vita giovanile”, II, 4 e 5, 28 febbraio e 15 marzo 1939.
(16) La prima mostra di Corrente (che aveva intanto, con il numero 16 del 15 ottobre ’38, mutato il titolo della sua rivista in “Corrente di vita giovanile”) presentò assieme i seguenti artisti: Carrà, Tosi, De Grada senior, Arturo Martini, Bernasconi, Marussig, Messina, Manzù, Mucchi, Genni, Cesare Monti, Tomea, Birolli, Valenti, Badodi, Migneco, Panciera, Cantatore, Tallone, Lanaro, Cherchi, Luigi Bartolini, Cassinari, Grosso, Mantica (funge da catalogo il numero 6, anno II, della rivista, 31 marzo 1939). Ancor più numeroso, per l’aggiungersi di molti giovani soprattutto romani, ma assai più legato a rappresentare il lavoro di una sola generazione, il gruppo che esporrà mesi dopo alla galleria Grande nella seconda mostra di Corrente: composto stavolta da Birolli, Valenti, Badodi, Cassinari, Migneco, Cantatore, Mucchi, Tomea, Genni, Salvadori, Panciera, Fontana, Caputi, Filippini, Martina, Broggini, Franchina, Cherchi, Tallone, Reggiani, Manzù, Guttuso, Santomaso, Tamburi, Mafai, Pirandello, Hiero Prampolini, Fazzini, Mirko, Afro, Montanarini. Da notare, in entrambe le mostre, l’assenza di Sassu, certo per la perdurante sua condizione di sorvegliato politico, e di Treccani, ancora al primissimo incontro con la pittura.
(17) La mostra di Ciarrocchi, Sadun, Scialoja e Stradone fu presentata da Cesare Brandi alla galleria del Secolo di Roma nel marzo del ’47 con il titolo di Quattro artisti fuori strada: ma sul recupero che i quattro andavano facendo – con differenti sfumature, peraltro, l’uno rispetto all’altro – di certo espressionismo di costa francese insistevano già più complesse articolazioni di lingua, di pensiero e di stile alle quali “non è estraneo il clima dell’esistenzialismo, quel vago sentore di malinconia e noia dell’esistenza, l’assurdo che traduce il concetto d’angoscia e trae le sue origini dal pensiero fenomenologico” (B. Drudi, Note biografiche, in Toti Scialoja, cat. della mostra a cura di G. De Feo, Roma, 1991, p. 198). Per uno studio recente della mostra del ’47, vedi E. Bilardello, I quattro fuori strada, cat. della mostra, Roma, 1987.
(18) Dopo un lungo sodalizio con i pittori di Corrente, ricorderà Birolli che “nel ’35 Persico si stacco’ quasi completamente da noi. Diceva che la pittura non gli interessava più, che noi avevamo mancato al nostro compito”; citato da M. De Luca, Notizie biografiche, in Renato Birolli, cat. della mostra a cura di P. Vivarelli, Milano, 1989, p. 159. Poco dopo, comunque, nel gennaio del ’36, Persico moriva a Milano, non avendo ancora compiuto i trentasei anni.
(19) R. Birolli, Quindicesimo taccuino (gennaio-aprile 1942), in Renato Birolli, 1989, cit., p. 18.
(20) Il Premio Bergamo, nel quale confluirono per stimolo di Bottai le più illuminate intenzioni espresse dal regime in materia d’arte figurativa, si tenne in quattro edizioni, dal ’39 al ’42, e divenne – soprattutto nel ’40 e nel ’42 – una delle palestre più importanti del nascente “realismo” italiano, che vi fu largamente rappresentato e piu’ d’una volta premiato. Fra gli altri segnaliamo, in questa prospettiva, i riconoscimenti assegnati a de Pisis (secondo premio) nel ’39; a Mafai e a Guttuso nel ’40 (quando il primo e il terzo premio andarono ai Modelli nello studio e alla Fuga dall’Etna , mentre premi minori venivano attribuiti, fra i giovani vicini a Corrente, a Martina e Cantatore); a Morlotti, a Savelli e a Cassinari cui toccarono alcuni dei premi minori nel ’41; a Guttuso, ancora, e a Birolli, che ottennero rispettivamente il secondo e il quarto premio – con la Crocifissione e l‘Elegia per un paese felice – nell’edizione del ’42, quando premi minori toccarono anche a Cantatore, Savelli e Afro. Confronta ora, sulle vicende del Premio, M. Galmozzi, L’avventura traversata. Storia del Premio Bergamo 1039-1942, Bergamo, 1989.
(21) Così Corrado Cagli, che veniva dall’esperienza per lui decisiva della V Triennale di Milano, si esprimeva nell’autopresentazione del ‘gruppo d’opere’ che proponeva alla II Quadriennale del ’35 (catalogo, cit., p. 42).
(22) Dibattito al Gabinetto Viesseux, “L’Approdo Letterario”, 43, settembre 1968, citato da Vittorio Fagone in V. Fagone, L. Vitali, Ernesto Treccani, Milano, 1970, p. 6.
(23) A. Schwarz, cit., p. 46. La Bottega degli artisti di Corrente, aperta nel dicembre 1940, pochi mesi dopo quindi la soppressione del periodico (l’ultimo numero è del maggio dello stesso anno), aveva nel ’42 mutato il suo nome in Galleria di Corrente e della Spiga, la cui prima mostra, il 28 marzo, è dedicata ai disegni di Scipione. Sostenuta economicamente da Alberto Della Ragione e diretta prima da Morosini e poi da De Grada, la nuova galleria di Corrente ospitò, prima della collettiva del ’43 di Cassinari Morlotti e Treccani mostre di Birolli, Santomaso, Hiero Prampolini, Savelli, Migneco e Bartolini. Proseguiva nel frattempo, sempre sostenuta da Della Ragione, anche l’attività editoriale di Corrente, promossa dallo stesso Morosini, che comprese volumi sui disegni di Guttuso e su Manzù, Mafai e Marino Marini rispettivamente introdotti da Morosini, De Micheli, Santangelo e Anceschi.
(24) G. Anzani, Catalogo delle opere esposte, in Cassinari, cat. della mostra, Piacenza, 1983, pp. 199-200.
(25) M. De Micheli, 1953, cit.. Da ricordare a questo proposito anche un altro passo dello stesso De Micheli, sempre a proposito di Guernica: “Ogni oggetto di questo avvenimento allude a qualcosa d’altro: è lampada, è toro, è cavallo. Ma è una lampada eroica, un toro eroico, un cavallo eroico. Non simboli, emblemi” (in Realismo e poesia, “Il ’45”, I, 1, febbraio 1946, pp. 35-44).
(26) In A. Schwarz, cit., pp. 221-222.
(27) E. Treccani, Diario, 28 giugno 1943, in Arte per amore, 1966, cit., p. 26.
(28) M. De Micheli, 1953, cit..
(29) Ancora dal citato Secondo manifesto. Nel diario, in data 9 maggio 1943, Treccani annotava: “Nel mio studio questa sera ho parlato con Ennio della questione degli equivalenti in pittura. Per ‘equivalenti’ intendo il simbolo degli oggetti, l’astrazione e il superamento naturalistico.”; in E. Treccani, 1966, cit., p. 19.
(30) La lettera di Guttuso a Morlotti, datata Quarto, luglio 1943, è riprodotta in A. Schwarz, cit., pp. 219-220 e, più completamente e con qualche differenza, in E. Treccani, cit., pp. 45-48; le altre citazioni del testo sono tratte da Treccani, ibidem, passim, e dal citato Primo Manifesto …
(31) M. De Micheli, Realismo e poesia, cit., ora in N. Misler, La via italiana al realismo, Milano, 1973, pp. 240-249; Manifesto del realismo, sottoscritto in Milano nel febbraio ’46 da Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Morlotti, Paganini, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova, ora in A. Schwarz, cit., pp. 232-233.
(32) De Micheli, peraltro, dimostrerà poco dopo apprezzamento per l’opera di Morlotti, dedicandole un saggio (Volontà e immagine nella pittura di E. Morlotti, “Il ’45”, I, 3, maggio 1946, pp. 15-19) propenso a sottolineare in particolar modo l’impegno morale dell’artista, e giustificando implicitamente la mancata menzione di Picasso nel manifesto realista del febbraio: “Morlotti sa, scrive De Micheli, che dopo il cubismo c’è Guernica. Egli perciò penetra nel dramma con una tensione estrema”. Introducendo il saggio di De Micheli, d’altra parte, la redazione de “Il ’45” (la rivista, diretta da De Grada, aveva per redattori Cassinari, De Micheli, Gatto, Guttuso, Morlotti, Treccani, Vittorini, e per redattore capo Stefano Terra) premetteva una nota in cui si specificava la diversa posizione della rivista: “Sarebbe tuttavia errato pensare che il saggio pubblicato abbia un carattere esemplificativo di eventuali premesse teoriche” (per queste tensioni teoriche interne al gruppo del realismo milanese cfr. soprattutto N. Misler, 1973, cit., in particolare pp. 197-205, dove si ritrovano anche sinteticamente riportati i contributi al dibattito di altri protagonisti della critica militante di quegli anni, da Peirce a Cruciani, da Trombadori a Testori). Va ancora ricordata, infine e naturalmente, la Lettera a Picasso di Morlotti edita come detto più sopra da “Il ’45” nel suo primo numero, nella quale però Picasso è ancora visto e ammirato in una più distesa prospettiva storica, che muove appunto da Cézanne (“Il ’45”, I, 1, febbraio 1946, pp. 33-34).
(33) In N. Naldini, De Pisis, Torino, 1991, p. 234; per la successiva citazione, idem, p. 235.
(34) F. Arcangeli, Appunti per una storia di De Pisis, “Paragone”, II, luglio 1951, ora in Dal romanticismo all’informale, Torino, 1977, I, p. 289.
(35) F. Arcangeli, Giorgio Morandi, 1964, ed. cons. Torino, 1981, p. 215.
(36) P.C. Santini, Ottone Rosai. Opere dal 1911 al 1957, cat. della mostra, Roma, 1983, p. 123.
(37) C.L. Ragghianti, in Ottone Rosai, cit., p. 124.
(38) Il manifesto di fondazione del gruppo, datato 1 ottobre 1946, è in A. Schwarz, cit., p. 234. Fu subito registrato in area comunista il tasso di genericità nell’impegno “realista” che gran parte degli artisti firmatari denunciava; cosi’ scriveva, ad esempio, A. Trombadori su “L’Unità” del 20 luglio ’47, a commento della mostra milanese: “E’ proprio l’istanza realistica, permanente e connaturale a ogni vero movimento poetico, che oggi, con maggior forza e arricchita di infinite esperienze, si ripropone. Non si può dire che tutti gli artisti del Fronte Nuovo sentano questa istanza in modo eguale. Anzi si deve dir subito che la minaccia dell’evasione ‘astrattista’, cioè della fuga per la via più semplice, pesa su molti di loro”.
(39) Ufficialmente il Fronte Nuovo resterà invece in vita fino alla Biennale del ’50. A quella del ’52, gli “Otto pittori italiani” (Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova), battezzati quell’anno stesso da Venturi, colgono e sviluppano l’eredità formalista del dissolto movimento, avendorinunciato a mediare con il fronte realista che a quella stessa Biennale propone opere di ormai dichiarato ed esclusivo impegno contenutistico, quali La battaglia al Ponte dell’Ammiraglio di Guttuso, gli Scaricatori di sale di Pizzinato, la Strada di periferia di Mafai, la Zappatrice di Borgonzoni, i Braccianti di Zigaina, e ancora, fra le molte altre, le opere di analoga vocazione di Attardi, Mirabella, De Stefano, Migneco, Mucchi, Novati, Muccini, Purificato.
Ma appunto ben prima di quella data ormai molto avanzata era intervenuta la frattura fra le due anime di quella che Pallucchini definirà la “generazione così detta di mezzo, tra i quaranta e i cinquanta”, orientata “verso un linguaggio di più ampio respiro europeo” (Introduzione, in XXVI Biennale di Venezia. Catalogo, Venezia, 1952, p. XXI): e già, sostanzialmente (e certo non indipendentemente dall’espulsione dal governo dei socialisti e dei comunisti nel ’47, e dall’esito delle elezioni del ’48, che avevano spinto la sinistra a dismettere l’abito più conciliante tenuto sino ad allora), in occasione della “Prima mostra nazionale d’arte contemporanea” promossa dall’ “Alleanza della Cultura” di Bologna tra ottobre e novembre ’48. A quella mostra, dove gli artisti di sinistra si presentarono in forze, seguì su “Rinascita” una nota, ispirata da Togliatti, che tacciava di “cose mostruose” le opere esposte: era niente più che un piccolo segno, ma fatalmente premonitore, del nuovo orientamento che andava prendendo il partito nei confronti del fenomeno artistico e dei suoi interpreti, da parte dei quali sarebbe stata da allora in avanti attesa una posizione di lotta ispirata alla chiarezza espositiva, alla pregnanza dei contenuti, alla positività del giudizio. Tutto ciò – che risulto’ subito evidente nei dibattiti che accompagnarono e conclusero la mostra, ai quali parteciparono tra gli altri Trombadori, Guttuso, De Grada e Birolli, Turcato, Consagra – segnava una amara involuzione rispetto alle posizioni ancora di problematica ricerca che il gruppo prestigioso di intellettuali italiani (fra i quali Banfi, Bianchi Bandinelli, Petrassi, Quasimodo, Sereni, Vittorini), presente pochi mesi prima a Wroclaw, aveva difeso nell’ambito di quel Congresso, di fronte – tra l’altro – alle posizioni di Zdanov (cfr. per questo soprattutto N. Misler, cit., pp. 41-62).
(39) “Io sono d’accordo che se non facciamo qualcosa muoriamo”, scriveva nell’agosto del ’50 Morlotti a Birolli (in L. Somaini, Otto pittori italiani. 1952-1954, cat. della mostra, Milano, 1986, p. 15): dando con ciò precisa testimonianza del disagio profondo che era ormai intervenuto in una parte di quella generazione un tempo unita dalla speranza di un cammino comune.
(40) A. Schwarz, cit., p. 64.
(41) Confronta ad esempio il “saluto” di Guttuso a Picasso in occasione della sua presenza alla Biennale di Venezia del ’48, ove è detto che “la lezione cubista (…) assunta meccanicamente, di logica in logica, ha condotto al moderno formalismo”, a “diligenti ‘trascrizioni su variazione’ esteriori e decorative di quel che (Picasso), volta a volta, andava trovando secondo gli imponevano la sua fantasia e il suo sentimento” (ora in P. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti, III**, Torino, 1992, pp. 70-71).
(42) In A. Schwarz, cit., pp. 56-57.
(43) E. Treccani, Le due vie della pittura contemporanea, in Arte per amore, cit., pp. 140-142; G. Mucchi, Sulla mia vita e sul mio lavoro di pittore, in S. Solmi, Gabriele Mucchi, Milano, 1955, p. 21. Un’altra eccezione notevole alla generale assunzione del picassismo in Italia come via spuria alla pittura di realtà e’ costituita da Franco Francese che, forse per un suo guardare a Gris piuttosto che a Picasso (Schwarz), o più probabilmente per il restare saldo che fece su alcuni riferimenti allora desueti (da Permeke a Sironi), sfuggì fin da questo momento suo iniziale (pur lavorando da tempo, egli tenne la sua prima personale solo nel ’54) ai sentieri più battuti da quel realismo del quale rimarrà sempre un solitario, singolare, ma non per questo meno essenziale interprete.
(44) “Tocca a questa Biennale registrare un fatto che potrà avere qualche conseguenza sull’avvenire della giovane pittura italiana: la strada nuova, diciamo neorealistica ed obbiettivamente rappresentativa, di alcuni artisti sotto l’impulso di uno stimolo politico o sociale” (R. Pallucchini, Introduzione, in XXV Biennale di Venezia. Catalogo, Venezia, 1950, p. XV).