Andrew Wyeth
“Gli uomini lavoravano troppo duramente ed erano troppo stanchi per leggere. Non avevano alcun desiderio di parole stampate sulla carta. Mentre erano al lavoro nei campi, vaghi e imprecisi pensieri s’impossessavano di loro. Credevano in Dio e nel potere di Dio di controllare la loro esistenza (…). Grande era la figura di Dio nel cuore degli uomini”.
Andrew Wyeth, nato a Chadds Ford in Pennsylvania nel 1917, ha vissuto e lavorato fra la Pennsylvania e il Maine. Da giovane, quando ancora non aveva inteso con chiarezza il suo destino, aveva forse desiderato andare, come aveva fatto suo padre, nell’Ovest: per cavalcare, vedere marchiare il bestiame, o sedersi accanto ai fuochi delle riserve indiane; doveva imparare, credeva, il mestiere di illustratore che aveva fatto famoso il padre. Non si concesse neppure quelle piccole fughe. Ne’i viaggi in Europa che avevano aggiornato il gusto di altri famosi acquarellisti americani, come John Singer Sargent o Winslow Homer, e che avevano compiuto anche i piu’ radicali “regionalisti”: Grant Wood, John Steuart Curry, Thomas Hart Benton – per non dire di Hopper. La provincia illuminata e ricca di civilissima storia da cui proveniva gli impedi’, persino, di guardare con occhio geloso o ostile alle grandi citta’ dell’Est: semplicemente, esse non giunsero ad essere per lui un metro di confronto.
Man mano che veniva la maturita’ – e fu un lungo tragitto, dal talento iniziale, istintivo, della mano alla definitiva costituzione d’immagine – i suoi temi, i suoi soggetti, la sua realta’ si son rastremati fino a figgersi su pochi pretesti: quasi soltanto sopra due case (a Chadds Ford e nel Maine), e sopra i loro fienili, la campagna attorno ad esse, la rara gente che le abitava. Di quella “Middle America” di cui s’e’ talora arbitrariamente detto che sia il cantore, non troveremo in Wyeth che assai poco: e non certo un abbandonato, suadente racconto.
“Davanti a lui si aprivano grandi distese di campi e di boschi. Dalle nuvole usci’ la luna e Isaia, salito in cima a una collinetta, si sedette a meditare.
Isaia penso’ che l’intera distesa di terra che aveva attraversato avrebbe dovuto toccare a lui, come al vero servitore di Dio. Penso’ ai fratelli morti e se la prese con loro perche’ non avevano lavorato piu’ duramente per possedere di piu’. Davanti a lui, al chiaro di luna, il fiume scorreva fra i sassi. Isaia comincio’ a pensare agli uomini che nei tempi antichi avevano come lui posseduto terre e bestie”
In ciascuno dei suoi dipinti piu’ famosi (a partire da Christina’s World, 1948, del Museum of Modern Art, attraverso Distant Thunder, 1961, fino a molti fra quelli oggi qui esposti – Blue Ribbon, ad esempio, o Coon Dogs, 1975) Wyeth ha raffigurato il silenzio, il raccoglimento, la malinconia di uomini, cose, animali in attesa di un loro quotidiano, eppure ogni volta sconosciuto destino. Soli, senza dialogo e senza parola, essi attendono una propria ora fatale circondati da una natura spoglia, risonante d’echi lontani; attendono sospesi fra il presente e una memoria densa, vischiosa d’un passato che non sa o non vuole svanire.
Guardano lontano, quasi ciechi di quel che vedono – cercando sempre un oltre, un limite non piu’ soltanto fisico al loro sguardo. E il freddo di campi battuti dal vento, di albe bianche e brumose, di muri screpolati, di troppo veloci tramonti, scende improvviso su quelle solitudini , accordando il suo al loro silenzio.
Allora – cosi’ – durano i pensieri degli uomini, delle cose di Wyeth; attoniti, muti, lenti, separati. “C’e’ un gesto, in Rembrandt – le sue persone che si volgono verso la luce. Ma e’ un gesto raggelato; il tempo ferma il suo respiro per un istante – e per l’eternita’. E’ quello di cui sono in cerca”. Per questo, nulla di questa pittura somiglia all’incanto facile e leggero di una nuova scoperta; e tutto porta sulle spalle il peso grave della rivelazione di una verita’ antica e difficile.
“Voi non afferrate il punto – voleva spiegare – il quadro non e’ fatto di quello che voi vedete e di cui parlate. C’e’ qualcos’altro, che voi non vedete affatto, e che non sapete vedere”
E’ nascosta, difforme da quel che subito offre alla vista il suo straordinario talento mimetico, questa vicenda d’immagine.
Sembra disporsi a restituire la realta’: e ne disegna in suo luogo una seconda, diversa, stremata da uno sguardo cosi’ lungo e cosi’ persistente che della prima ha come essugato ogni imprevedibilita’, casualita’, irruenza. Ne e’ una testimonianza precisa e inequivocabile la costante, forte gabbia geometrizzante in cui Wyeth costringe la visione. Una gabbia scritta da linee certe e nette – ortogonali di castissima evidenza, sopra le quali balenano profondi tagli prospettici diagonali – che hanno funzione di isolare l’evento (il misero evento, spesso, che inquadrano) in un suo spazio di silenzio e di attesa – in quel vuoto che lo avvolge, lo fascia come le mani del celebrante fasciano l’ostia innalzata ai fedeli.
Sembra farsi trepidamente vicina alle cose: e ne fa invece lontani i sensi e gli umori fintanto che essi non siano passati al setaccio esigente di un tempo, di una memoria individuale. “Anche se sembra amare appassionatamente i suoi soggetti, egli ne e’ in realta’ disinteressato”, e’ stato scritto: fintanto, almeno, che essi non siano divenuti come strutturalmente consentanei al suo animo. Non c’e’ spazio, in una pittura che pure sa fingere l’ultima crepa di un muro, per una divagante, non necessaria curiosita’. “Cerco, ha scritto, al di la’ del soggetto; perche’ per me esso significa molto piu’ della sua semplice apparenza”.
“George Willard si volto’ e usci’ dalla stanza di Enoch Robinson. Mentre usciva senti’ la voce del vecchio che, accanto alla finestra, piagnucolava: – Sono solo, sono solo qui – diceva la voce. – Era bella la mia stanza e c’era tanta gente e adesso invece sono tutto solo”.
“Subito dopo il ritorno fece costruire un’altra ala della vecchia casa e in una grande stanza esposta a ponente ebbe finestre che davano sul cortile e altre finestre che guardavano i campi. Alla finestra egli se ne stava seduto a pensare. Per ore e ore e per giorni e giorni se ne stava seduto, guardava la terra e pensava alla sua nuova posizione nel mondo”.
La finestra della casa. Per Wyeth e’ il punto di segregazione, e di congiunzione, del pensiero con il mondo visibile. Il discrimine tra caos e ordine, tra flagranza e memoria, fra vita e sogno.
Una finestra schiude gli interni alla poca luce che li svela; di li’ entra la breve folata di vento che solleva il velo bianco sul nudo della giovane donna; attraverso di lei il vecchio guarda i suoi luoghi conosciuti; ancora, e’ attraverso il suo trasparente biancore che gli occhi, dal campo, dallo stabbio, guardano di sera al calore della casa.
Si ripetono, attorno ad essa, i gesti monotoni, cadenzati d’una esistenza che non ha finito di nascondere il suo mistero. Il colore d’acqua, il poco sempre eguale colore (le ocra e tutte le terre; i verdi, i bianchi, i grigi) steso dal pennello spremuto fra le dita e poi, sulla carta, infinitamente strusciato dal manico, il poco colore scrive esatto il perimetro, i contorni, la carne delle cose: con lenticolare, certissima evidenza. E’, per certo verso, un’acme di realismo che prende figura (“realismo magico”, e’ stato detto, con ossimoro – per noi europei – troppo denso di riferimenti altri ed alieni); ma il taglio crudamente fotografico della composizione, la segreta impalcatura geometrica che la sostiene, e – sempre e soprattutto – quel bilico serbato fra un `qui e ora` di nuda immanenza e quella corrente di lontani, sconosciuti pensieri che l’attraversa da’ spessore d’ansia, e densita’fantasmatica, all’immagine.
“… e guardo’ la campagna. Si trovava in uno stato d’animo malinconico e vago, era colpito dalla bellezza del paesaggio. Se conoscete la campagna di Winesburg d’autunno e le colline basse macchiate di rosso e di giallo, potete capire quel suo stato d’animo. Ray comincio’ a pensare agli anni andati, quando da ragazzo viveva col padre, che faceva il fornaio a Winesburg; e ricordo’ come a quei tempi vagasse per i boschi a coglier noci e a caccia di conigli, o anche solo per sdraiarsi sotto un albero a fumare la pipa”.
Nondimeno – nonostante la tristezza che la pervade, e la sospensione sentimentale che la trattiene dal confessarsi apertamente – la bellezza delle cose, degli spazi, dei vecchi e delle donne di Wyeth e’ intensa, e come senza colpa. Diversa, in questo – forse soprattutto in questo – da quella, che l’anticipo’ di una stagione, di Edward Hopper. Per lui, nessuna consolazione entro’ a temperare la separatezza di un animo da un altro animo; per lui rimasero crudelmente senza riscatto il silenzio, la solitudine, l’incomunicabilita’. Come un grido soffocato, quel dolore precipita in Hopper sul nostro oggi, e l’avvelena.
In Wyeth il passo lungo della memoria svena il dolore, perdona la colpa, sogna – altrove: forse in un aldila’ di cui, sparso ovunque nella natura, s’avverte il tempo possibile – un destino piu’ dolce. Cosi’ la sua malinconia, la sua fuga dalla storia come atto fondativo di sempre ulteriori certezze, il suo occhio fisso sempre al di la’ di quanto non sia possibile vedere, tutto questo e’ per lui non uno strappo insanabile sulla realta’, ma un tragitto dolorosamente obliquo verso una piu’ nascosta bellezza.
(1) Questo brano, come gli altri riportati a intercalare il testo, e’ tratto dai Racconti dell’Ohio di Sherwood Anderson, editi in Italia da Einaudi (1950 e 1971) e dei quali Alberto Moravia ha scritto che basterebbero pochi capitoli “per apprendere sull’America e sullo spirito americano piu’ che in tanti romanzi neorealisti o in tanti libri di giornalismo documentario”. Scoperto nel nostro paese, e per la prima volta tradotto, da Pasolini, Anderson narra in Winesburg, Ohio, che e’ del 1919, storie di un paese del Middle West. Non perfettamente contigui geograficamente, dunque, la pittura di Wyeth e il libro di Anderson, che anticipa di una mezza generazione la maturita’ del pittore. Eppure l’una mi pare rispondere sotterraneamente all’altro: per quel modo, soprattutto, di dire di chiuse esistenze, sospese fra memoria e futuro, fra malinconia e saggezza, fra solitudine e bisogno di parola.
Andrew Wyeth nasce nel 1917 a Chadds Ford, Pennsylvania, quintogenito di Carolyn e Newell Convers Wyeth, celebre illustratore di libri e periodici popolari (era stato allievo di Howard Pyle, vero padre di quel genere nell’America al passaggio fra i due secoli), ma anche pittore di acuminato talento realistico. Da lui Andrew ricevera’ la prima istruzione, l’avvio alla carriera – presto trascurata – di illustratore, e alcune lezioni, invece, che gli saranno durevolmente care: l’ammirazione per il segno inciso e netto di Cranach, di Durer, di tutta l’arte tedesca di primo Cinquecento; alcune fondamentali letture (fra le quali quelle di Tolstoy, Thoreau, Withman, Dickinson); il vincolare la pittura a poche cose, a pochi luoghi realmente e profondamente conosciuti; e un senso di panica, profonda nostalgia diffusa nel paesaggio, nelle cose, nei volti conosciuti e ritratti.
Non ha ancora vent’anni quando espone trenta suoi acquarelli all’Art Alliance di Philadelphia (1936); l’anno seguente, la sua prima personale alla Macbeth Gallery di New York, che registra un sold out gia’ alla prima sera, segna precocemente quel che rimarra’ nel tempo il suo felicissimo rapporto con il mercato e con il largo pubblico del suo paese. Ha conosciuto, nel frattempo, il delicato modo dell’acquarello di Winslow Homer, che integra la lezione paterna, e che l’accompagnera’ nel primo tragitto della carriera (ancora acquarelli espone, negli anni immediatamente successivi, nuovamente a New York, a Boston, e a Manchester, New Hampshire).
Mentre cresce la sua consapevolezza di pittore, rifiuta il tradizionale viaggio di studio in Europa. Ne’ si confronta con i nuovi linguaggi che, sotto la spinta della forte immigrazione intellettuale ed artistica proveniente dal vecchio continente, stanno allora nascendo soprattutto a New York. Concentra la vita e il lavoro in quelli che van diventando i suoi luoghi esclusivi: Chadds Ford d’inverno, la costa del Maine l’estate. Incontra nel `39, e sposa l’anno seguente, Betsy James, dalla quale avra’ due figli, Nicolas e James, che diverra’ anch’egli pittore.
Inizia, mentre scade il quarto decennio, a provare insoddisfazione per la tecnica troppo rapida e istintiva dell’acquarello: “volevo qualcosa, dira’, di piu’ grave, sopra la quale fosse possibile restare a pensare a lungo, nella quale potessi immergermi”. Adotta prima la tecnica intermedia del drybrush, poi la tempera ad uovo, modo che sara’ d’ora in avanti il suo maggiore. Nel `43 abbandona definitivamente l’impegno di illustratore, gia’ molto trascurato negli ultimi anni, fecondi del nuovo metodo pittorico che espone due volte a New York, prima in una nuova personale alla Macbeth Gallery (1941), poi nell’ambito di una collettiva importante del Museum of Modern Art (American Realists and Magic Realists, 1943).
Perde il padre, morto in circostanze drammatiche, nel `45, e cio’ determina in lui l’ultimo passo verso la maturita’. Depone definitivamente ogni facilita’ e brillantezza d’esecuzione; concentra vieppiu’ il lavoro su pochi temi costantemente ripercorsi dall’occhio, dalla memoria e dal sentimento (“credo che occorra usare gli occhi al pari dell’emozione, e che l’una cosa senza l’altra non funzioni. Questa e’ la mia arte”, dira’); introduce piu’ di frequente la figura umana, per solito isolata in un interno o in un paesaggio, nei suoi dipinti, e da essa, dalla sua solitudine nel vasto spazio che la accoglie, consente che discenda alla sua opera quel senso di malinconia che cosi’ acutamente, d’ora in avanti, la pervade.
Tardano poco a venire i maggiori riconoscimenti, nazionali ed internazionali, per un pittore che il suo Paese ha riconosciuto come colui che, nelle parole di Nixon, meglio di ogni altro “ha saputo catturare lo spirito dell’America”. Una vasta sua retrospettiva trionfa, fra `66 e `67, alla Pennsylvania Academy of Fine Art di Philadelphia, al Baltimore Museum of Art, al Whitney di New York e all’Art Institute di Chicago. E identico consenso incontrano le successive antologiche a Boston (1970), al Museum of Modern Art di New York nel `76-`77 e alla Royal Academy di Londra nel 1980.
Insignito da Kennedy del “Presidential Freedom Award” nel `63, accolto come membro straniero dall’Academie des Beaux Arts di Parigi nel `77 (onorificenza che lo indusse, quell’anno, a compiere il suo primo viaggio in Europa), e dall’Accademia Sovietica nel `78, Wyeth – che vive tuttora nel suo piccolo eremitaggio della provincia americana – puo’ dirsi agevolmente il piu’ amato pittore statunitense del XX secolo. Diverso, e assai piu’ problematico, il suo rapporto con la critica, soprattutto con quella americana, che ha a lungo e quasi fatalmente visto in lui il contraltare della grande tradizione moderna americana dell’espressionismo astratto e della colour field abstraction. Solo in tempi relativamente recenti il tramonto di aprioristici steccati ha consentito che sull’opera di Wyeth si esercitasse un pensiero finalmente non piu’ orientato dalla polemica ideologica.