Riccardo Francalancia, il misterioso assisiate

 

Si nasconde, quasi, Riccardo Francalancia, nei regesti della vita cittadina nella prima metà degli anni Venti, ricchissimi ancora di una cultura multiforme e – com’era avvenuto già in tempo di guerra, con Picasso, Cocteau, Diaghilev, Strawinsky e molti altri con loro riuniti nel ’17 a Roma; e diversamente da quanto avverrà negli anni Trenta – davvero internazionale. Lascia una piccola traccia di sé. E deve essere per inclinazione del carattere se gli accade così, perché – al di là della fastidiosa mitologia che presto lo avvolse, del buon assisiate sceso nella capitale con un solido mestiere (di bancario) e una vocazione borghesissima, e lì preso dal tanto più incerto mestiere della pittura – è dall’albore, proprio, del decennio che ritroviamo Francalancia a colloquio con l’enclave di letterati e d’artisti che da “Valori Plastici” e da “La Ronda” passeranno ai tavoli della celebre terza saletta del caffè Aragno (poca luce, molto fumo, e il color tabacco delle pareti “che qualche maligno chiamava color pulce”, scriverà De Libero). Un’enclave eletta che Amerigo Bartoli riunì nel suo quadro famoso del ’30 (quando, dunque, quel tempo inclinava al tramonto), Gli amici al caffè: Cecchi e Baldini, Cardarelli e Bruno Barilli, Longhi e Ungaretti, Soffici e Broglio. E tanti altri con loro: fra i quali, appunto, alcuni di coloro che alla prima stagione dei più disparati “ritorni”, appena trascorsa la guerra, a Roma avevano dato vita: De Chirico, Martini, Socrate e Trombadori, de Pisis, Morandi nelle sue apparizioni in città…; e – assieme a tutti costoro e ad altri ancora – Francalancia.

Negli Amici al caffè Francalancia sta sulla destra, la testa appoggiata alla mano, forse assopito. Sta fra Longhi e lo stesso Bartoli, intenti l’uno a leggere, l’altro a scrivere o a disegnare. Entrambi gli volgono le spalle: non per scortesia, ma come può capitare fra amici. Bartoli stesso l’aveva ritratto tante volte nelle sue rapide caricature: con la figura altissima di Francalancia, ad esempio, intenta a versare un bicchiere di vino ad un Bartoli piccolissimo. Longhi ne aveva commentato l’opera poco innanzi (14 aprile 1929), su “L’Italia Letteraria”, nel secondo dei due lunghi articoli destinati alla prima mostra dei Sindacati fascisti di Belle Arti del Lazio (Clima e opere degli irrealisti), intitolandogli addirittura un paragrafo e fra l’altro scrivendo: “Per quanto è poi di questo misterioso e smanacciante assisiate, alias ‘la clarissa del Banco di Roma’, egli ha progredito per via di curiose evoluzioni, verso una più matura letizia di rilievi sul vivo, di cui son qui almeno due buoni esempi […] due paesaggi del ‘Ponte della Ferrovia’ dove l’accezione delle cose è più vicina a quella che corre oggi per il mondo; e dove certi toni pigri ed aridi, nell’acqua e nelle case, accanto ad altri, d’un miscuglio più acceso, negli alberi, dimostrano una coesione di sostanza, maggiore che di solito; simile agli accordi ferrigni di un Derain.”.

Si vedevano, alla mostra dei Sindacati a Palazzo delle Esposizioni, le quattro opere di Francalancia (tre paesaggi e una natura morta) accanto a quelle di Di Cocco, Ferrazzi e Matilde Festa Piacentini, far corona (assieme all’unica di Nino Bertoletti, che s’era certo anche stavolta voluto a bella posta far da parte per meglio dar risalto al ruolo della moglie, “vera pittrice della famiglia”, come usava dire) alla larga personale di Pasquarosa Bertoletti. Era allora trascorso appena un anno da quando uno spazio di piazza Rondanini, Le Stanze del Libro, aveva accolto la prima larga mostra del pittore di Assisi (trentatrè opere), al quale il recensore de “L’Impero” aveva riconosciuto “un pennello abile e un occhio che abbia una precisa e acuta visione del ‘vero’”, oltreché “una spiritualità, una comprensione dei valori mistici emananti dai luoghi che videro nascere il Poverello”. Ecco dunque che, in un batter baleno, la frittata era fatta: fondata in un attimo, resisterà a lungo la favola del pittore ingenuo, sincero e pio, che sugge dal suo luogo natio e dal buon tempo andato gli educati sentimenti che lo condurrano a certa salvazione. Così che tornano preziose le considerazioni di Longhi del ’29, primo momento di vera esegesi di questa pittura. E, persino, la sua ironia a doppio taglio: quando dice questi dipinti buoni da “affidare a qualche eremita furbone che aspetti con pazienza al varco la Rolls-Royce degli americani in cerca di primitivi: Ricardi Opus”. Un Longhi che, pur mostrando di preferire il tono più dimesso, più pianamente incline alla trascrizione realistica del paesaggio che è proprio dell’ultimo Francalancia, lascia cadere fra le righe la necessità di distinguere, nel pittore, un prima e un dopo: un’attitudine iniziale (che, dice, gli paion testimoniare certi suoi “disegni giovanili”) a concedere spazio alle “strappate” della fantasia e della memoria, “dove le cose correvan subito ad imboccarsi entro i lambicchi e le storte delle deformazioni più straordinarie”; e un oggi ove s’assiste al frutto del “freno imposto dall’artista” a quella sua più antica propensione fantastica, visionaria. Per averlo avuto, giorno dopo giorno, gomito a gomito ai tavolini dell’Aragno, persino Longhi mostra in realtà di conoscere solo imperfettamente l’opera di Francalancia, distesa ormai per tutti gli anni Venti; ma è comunque decisiva, la sua pagina, a trarre via il pittore dal solco in cui l’hanno messo le mani compuntamente giunte in preghiera dei suoi primi laudatori.

 

 

 

Abbiamo cominciato in medias res – con Francalancia giunto al suo primo traguardo di piccola celebrità – e ci occorre ora tornare indietro: verso esordi, però, assai meno documentati e, di fatto, ancor oggi in più d’un punto misteriosi. Venne a Roma, prima per conseguire la laurea, poi ad impiegarsi presso il Credito Italiano: da cui si dimetterà, nel ’22 o all’inizio del ’23, per darsi interamente alla pittura. Alla quale s’era accostato, da vero autodidatta, già nel ’19; avendo fin da allora rapporti d’amicizia con diversi intellettuali e artisti romani. Bartoli, Broglio, Bragaglia, fra i primi: ognuno capace di aprirgli nuove conoscenze, nuove prospettive. Sono ben noti i frutti dell’amicizia e della stima di Broglio: al quale Francalancia deve il suo esordio – come pittore e disegnatore – nelle due prime occasioni che il gruppo di “Valori Plastici” ha di esporre congiuntamente: in Germania nel ’21 (e l’impatto della mostra Das junge Italien, itinerante da Berlino a Hannover a Amburgo, è enorme sulla cultura figurativa tedesca in transito verso la Neue Sachlichkeit), e alla Primaverile Fiorentina nel ’22 (una fantomatica esposizione romana del gruppo, spesso segnalata nei regesti di Francalancia, non ebbe invece mai luogo). Sono note, parimenti, le suggestioni, soprattutto da Carrà e da Edita Broglio, ma anche da Morandi e dallo stesso de Chirico, che gli vennero da quella coinè di cultura.

Assai meno riconosciuti, se non del tutto sottaciuti, sono gli stimoli che, nei primissimi anni della pratica pittorica, vennero a Francalancia da Bragaglia e dall’attività della sua galleria: per certo assiduamente frequentata dal bancario ormai sicuro della nuova vocazione. Scorrendo à rebours alcune delle mostre ospitate da Bragaglia nello storico spazio di via Condotti, e poi in via degli Avignonesi, fra ’19 e ’22 – nel tempo dunque cruciale dell’educazione visiva di Francalancia, che da ognuno di questi incontri può aver tratto suggestioni – troviamo, ad esempio, quella di Rosai (della fine del ’22 appunto, con prefazione in catalogo di Soffici, ove il pittore presenta, senza grandi speranze ma contando sull’appoggio di De Chirico e Cecchi, “quasi tutta la mia opera (60 quadri)”, e molti disegni, anch’essi aurorali); quella di Dottori, futurista ma “futurista mistico”, e anche lui umbro, di cui vengono notati soprattutto i paesaggi, taluni dei quali arrampicati sulla verticale, come sarebbero quelli d’un pittore medievale; quella di de Pisis, primissima a Roma, e anch’essa, come l’altra di Rosai, intesa a ricapitolare le esperienze fatte sino allora dal pittore-poeta; quella, persino, di un Michele Cascella dimentico per un attimo delle eleganze orientaleggianti, e ingenuo narratore, questa volta, di affaccendate favole infantili.

Ecco dunque Francalancia involto in una dimensione di primitivismo che, in molteplici declinazioni, lo terrà avvinto lungo gran parte degli anni Venti: sino, almeno, al Ritratto di un amico (Sergiacomi), del ’29. Come avesse preso le mosse, codesta attitudine, lo dicono i disegni, resi noti per la prima volta da Carlo Ludovico Ragghianti, già in collezione di Edita Walterovna Zur Muehlen, compagna di Mario Broglio (accanto ai coevi disegni di lei – assai più noti, per essere stati pubblicati in larga serie dal secondo numero della terza annata di “Valori Plastici” – questi di Francalancia stanno un po’ come parenti poveri, veri giochi di bimbi, affrontati all’avveduta scaltrezza dei fogli di Edita, consapevoli di un primitivismo tanto diverso, a principiare da quello che in Russia preparava l’avanguardia di Larionov e Goncarova). Verranno in seguito datati al 1920, quei fogli di Francalancia: ma probabilmente, qualcuno almeno, può essere anche anteriore a quella data, e da collocarsi dunque proprio agli albori della sua vicenda di pittore. In Pavone e ranocchia, ad esempio, o in Carabiniere e ranocchia, e ancor più nel Torello infuriato “c’è un’adesione piena alla libertà immaginativa del fanciullo che mette tutto nella sua espressione, i momenti più liberati […], la satira […], gli spettacoli […], le ansiose interrogazioni del visibile […], in un intensissimo raccoglimento introspettivo dove già emerge la trasfigurazione visionaria della Stanza dei giochi 1928”. E’ Ragghianti, cui si devono queste parole, ad aver collocato per primo – e in realtà unico: poi mai più citato, abbastanza incredibilmente, dalla scarna bibliografia su Francalancia – in giusta prospettiva storica questi disegni, nell’ormai lontano 1969, quando nel suo fondamentale Bologna cruciale 1914 tracciò una linea, inedita, delle varie inflessioni del primitivismo in Italia a cavallo della prima guerra.

E’ allora la storia, questa, d’un inizio, che si riverbera su tutto il primo decennio della pittura di Francalancia. Storia esclusiva, i primi anni: che scorre unita nelle vene profonde del piccolo olio della Processione e nei Rami al sole, del ’19, nel Paese di Ciociaria del ’20, nella più ambiziosa Scalinata di Trinità dei Monti sempre del ’20, fino a Ritratto di Ciociara, Ritratto di giovinetta, Monti di Supino, Vitelli e pagliaio a Supino del ’22: ad esempio. Che si sospende per la prima volta proprio quell’anno, nel quale Francalancia, ormai fattosi esclusivamente e ‘professionalmente’ pittore, cerca la sponda d’altra pittura, di nuove sapienze: e sembra voler stringere, qui, un breve colloquio con Antonio Donghi. Storia che riprende poi passo, ma ormai episodicamente, a partire dal ’23, soprattutto nei ritratti: da quello del figlio Gustavo, straordinario incastro di volumi purissimi al servizio d’una prosa dimessa e quotidiana, sino a quello già indicato di Sergiacomi del ’29. Altre suggestioni, adesso, s’affiancano a quella iniziale vocazione: e siano i dadi gettati, quasi per sfida, a Trombabori, nelle nature morte, come in quella intitolata Alabastro, o nella davvero fiamminga Teiera e caki, del ’25, o ancora nella Natura morta con i tre vasi e i pennelli, del ’27. Ovvero siano inattesi pensieri dechirichiani che tornano improvvisi a sospendere il profumo, tante altre volte da Francalancia accarezzato, di una fin prosaica realtà: in uno dei suoi quadri giustamente più celebri, La stanza dei giochi, del 1928, già appartenuto ad Alfredo Casella.

 

 

Ma soprattutto, a muovere proprio da quel 1923, che sarà perciò da leggere come cruciale anno di svolta, s’apre la stagione più alta, quella da dirsi interamente sua: nella quale prende figura una natura spoglia di tutto, di seduzioni e orpelli, e come striata di solitudine. “Francalancia vi attinge – ha scritto sensibilmente Guido Giuffrè – una crudezza oggettiva e insieme allucinata, fortemente inquietante e tutta all’opposto della raccolta e serafica confidenza che ci si aspetterebbe, o meglio che sarebbe diventata prevalente già dal quarto decennio”. S’affaccia adesso, forse, Morandi, dice ancora Giuffrè: e può darsi, se si va con la memoria a qualcosa di Morandi del primo decennio: al Paesaggio Jesi del ’16 (l’unico dell’anno, già stato di Broglio, e presso la sua collezione certamente visto e meditato da Francalancia); o ai Fiori sempre del ’16 (dei quali qualcosa può aver ricordato, Francalancia, ancora nella Natura morta del ’22, ad esempio quel ‘senso del comporre’, disponendo nitidi volumi nello spazio misurato del piano di posa, che nacque in Morandi proprio al tempo dei suoi “Valori Plastici”); ovvero all’Autoritratto morandiano del ’17, oggi perduto (ma nel ’19 pubblicato su “Valori Plastici”, e non per caso riprodotto da Ragghianti nel saggio del ’69); fino al Cactus anch’esso del ’17: un giro d’anni, e di rare pitture, questo di Morandi, che, rousseauiano certo, spiega Francalancia forse più che Rousseau stesso. Morandi e, s’è sempre detto, Carrà. Solo quello, però, del Pino sul mare (anch’esso già in collezione Casella). E, pur quello, immaginandolo senza il cavalletto interrogante, ultimo retaggio d’una metafisica che non vale, adesso, per Francalancia; ma fissando soltanto lo sguardo, invece, come fece Longhi, su “quel mare di pietra cupa, quel po’ di misera spuma, il costone brullo umanato dalla porta dell’antro coi riflessi agli orli, teneri come su labbra”; il paesaggismo ulteriore di Carrà, fino al tempo dei primi dipinti sul Cinquale, essendo bagnato d’una luce malata, e venata d’un sentimento panico o romantico, che non appartiene, né ora né in seguito, a Francalancia.

Sono pochi quadri, quelli di cui ora si dice di Francalancia: che si distendono dai Monti di Palestrina, del ’23 appunto, a Sella di Colle, del ’28, e forse appena oltre, ma non superando di molto il crinale del terzo decennio. Ma quadri che segnano un suo vertice qualitativo: ove la natura, asciugata d’ogni racconto, si fa massa incombente, linea aspra ed essenziale, colore povero e unito, ferrigno. Con essi il pittore si lascia definitivamente alle spalle le suggestioni che può aver avuto dal Doganiere Rousseau: dal cui “primitivismo”, dalla cui particolare naïveté s’è insistito che Francalancia abbia preso le mosse, e entro la quale a lungo sia rimasto. Non mancavano da noi (e tanto meno all’Aragno, ove molto si sapeva d’Italia e d’Europa) occasioni per conoscere l’opera del Doganiere, almeno a larghi tratti: nozioni fondate dalle prime, ormai lontane aperture vociane di Soffici, e recentemente ribadite dall’articolo di Theodor Daubler su “Valori Plastici” (anno II, nn. IX-XII): e ben prima, dunque, che Broglio pubblicasse la piccola monografia di Roch Grey sul pittore francese, nel ’22. Ma se Francalancia ai suoi inizi (e, come credo, non oltre il ’22-’23) tenne Rousseau entro il cerchio di cose che guardava con interesse, fu certo soprattutto per il tramite d’un fondamentale articolo di Carrà pubblicato nel novembre del ’19 su “La Ronda”, intitolato L’arte parigina e sostanzialmente incentrato sul Doganiere (dopo quella a lui destinata, seguono riflessioni più brevi su Matisse, e su Derain). Attraverso quello scritto, privo di corredo iconografico, più che l’opera del francese, Francalancia poté presumere di accostarne la personalità: che fu infatti, più della pittura, capace d’affascinarlo. Rispecchiò allora i suoi primi passi nella “semplicità infantile”, nella “gioia candida ed elementare” che Carrà attribuiva a Rousseau; e fu certamente attratto da quel favoleggiato suo “vivere in umiltà e lavorare con estrema purezza”. D’altronde, in Italia, molti altri avvertirono quelle seduzioni: da Tullio Garbari a Gigiotti Zanini; né si possono escludere, a dar peso alle contiguità sorprendenti fra talune ‘stanze’ della memoria e della meraviglia di Zanini proprio dell’avvio del decennio e alcune carte e telette coeve di Francalancia, tangenze fra i due mondi.

Solo pochi anni dopo, poi, quando il ‘primitivismo’ di Francalancia si spogliò di troppo accese fantasticherie, di stupori troppo innaturali (quelli che Longhi avrebbe chiamato, censurandoli bonariamente, “i lambicchi e le storte delle deformazioni più straordinarie”), e volse all’assunzione d’un metro più scabro – trecentesco – di forma, ancora torna buono lo scritto del ’19 di Carrà: lì ov’egli, al solito agrodolce nell’avvicinare l’opera dei colleghi di qualsiasi età e latitudine, prende le distanze da “quei motivi fantastici ed esotici”, da quegli “elementi distrattivi” che, nell’opera del Doganiere, gli “lasciano, a lungo andare, scontentezza nel cuore”. Vengono adesso gli anni forse più alti di Francalancia, quelli, ispirati a un diverso ‘primitivismo’, più colto e armato di memoria storica, ove prende figura una natura spogliata e silenziosa, grandiosa – a suo modo – ma senza retorica. Presto, poi, ancora entro questi anni Venti (che, per la loro complessità, per le tante intenzioni diverse che stringono al loro interno, si dubita di poter nominare semplicemente aurorali, per quanto siano i primi della pittura di Francalancia), s’inaugura quel modo che sarà il più durevolmente perseguito dal pittore, sino alla fine.

S’intromette, quel modo nuovo (prima come un sussurro, e quasi di soppiatto; poi sempre più convinto di sé) fra altre e più determinate inflessioni di stile. Così, ad esempio, già Gallicano nel Lazio, che è del 1924, si fa stendardo gremito di piccole curiosità, di minuti racconti, che una ricercata intenzione neo-medievale impalca tutti sulla verticale, senza che la prospettiva scenda sull’immagine a far ordine e gerarchia. E L’Acrocoro del Pappagallo, inviato alla prima mostra del Novecento Italiano nel ’26, distende lo sguardo incuriosito sulla vallata, in un vario succedersi di verzure diverse, di rocce, di casamenti. Fino a L’Isola Tiberina, 1928, ove l’occhio scorre sereno dal primo piano al lontano orizzonte, in un nitore di luci da ricordare il primo Corot italiano. La natura, insomma, sta progressivamente conquistando una sua normalità; lo sguardo su di essa si fa rilassato e franco, sereno e accostante.

 

 

Tutte assieme queste sue intenzioni, questi suoi modi, Francalancia portò dunque alla prima personale del ’28, alle Stanze del Libro:  un recensore attento, Michele Biancale, annotò la molteplicità delle inclinazioni, e terminò con un dubbio il suo scritto: “Dimenticavo di concludere che, per essere il Francalancia autodidatta assoluto, e pittore solo da pochissimi anni, non sappiamo esattamente quale sarà la sua orientazione: se verso un maggiore intellettualismo […] o verso una più accanita insistenza su quelle qualità di visione istintiva per cui la sua pittura, sul nascere, ebbe un po’ l’apparenza orripilante”. Implicito, nel dubbio espresso, era peraltro il desiderio che il pittore lasciasse il modo giovanile e si volgesse tutto intero dalla parte della natura compostamente trascritta. Tirato così per la giacchetta, da Biancale e da tanti altri (compreso il prefatore di quella sua mostra, il collezionista Angelo Signorelli, che parlava d’una pittura tutta “semplicità, freschezza, immediatezza” e confessava come i quadri dell’assisiate valessero “a placare in me ogni incomposto moto dell’animo, ed a chiarire ogni mia sconsolata torbidezza”), Francalancia  volse piuttosto da quella parte che gli era da tutti richiesta. Così che i suoi esegeti poterono riconoscere in lui, gli anni a venire, “serenità e freschezza”, e “senso di riposo e di pace” (Magi Spinetti)  ovvero “pacato e raccolto lirismo” (Oppo); e assimilare la sua pittura a “un idillio campagnolo” (Francini), “ricamato con deliziosa pazienza” (Tridenti), dove “come sempre tutto tira al sommesso” e attraverso cui s’entra “dentro un mondo quieto, pulito e pieno di una poesia leggermente sconsolata”.

Non che altri non s’avvedesse come, celato sotto le umili vesti del compunto poeta d’Assisi, resistesse un altro occhio, capace di cernite più allarmate della realtà: fra gli altri ricordiamo un anonimo recensore che, su “Il Resto del Carlino” del ’32, riconobbe, a taluni suoi paesaggi, natura di “schemi astratti di colore, trascendenti ed allucinati”; così che ne uscivano quadri che parevano “soffiati nel vetro, mantenuti assieme da un illogico incanto, simili alle visioni dei sogni”; o Corrado Pavolini, pronto al solito a riconoscere i diritti del fantastico in pittura: “attoniti, si rimbalza senza rumore in un mondo di gomma elastica. Si stacca un pezzetto d’albero, e con quello si cancellano i nostri peccati. Rousseau assisiate. Francalancia è un omone di due metri che dipinge silenzi di due palmi”.

Ed anche a questa costa della critica, minoritaria ma assai più dell’altra illuminata, Francalancia dimostrò di saper dare ascolto, se protrasse fino ai primi anni Trenta – accanto all’altro suo, di un più acquietato realismo – quel suo modo eccitato e visionario, capace di riandare, rinnovandoli, ai modi che aveva scoperto in gioventù nelle discussioni tramate attorno ai tavolini dell’Aragno: quando la metafisica trascorreva in realismo magico, e quando, lui, ancora non sapeva bene di qual fatta sarebbe stato il suo mestiere di pittore. E talvolta, nel bel mezzo della fiaba che scendeva dalle sue tele – adesso con bonomia, ma mai con banale ossequio alle forme casuali della natura – nel prosieguo degli anni Trenta, poi di nuovo dopo la guerra, s’accese improvvisa una piccola luce d’allarme, un avviso d’irrequietezza, un seme d’incostanza. In qualche marina, come ne L’aquilone del ’38; in qualche stretto e torto vicolo d’Assisi d’anni Cinquanta; nelle repliche del tema a lui caro delle Beccacce; o infine in quelle Palme (1956) che sembrano voler riandare, con un soprassalto della memoria, ad uno dei paesaggi primissimi, il Bosco ceduo del ’22. “Né è facile dividere nettamente un aspetto dall’altro, ché Francalancia non fu – se occorresse ripeterlo – il monocorde o appunto il semplice che un’informazione superficiale potrebbe suggerire”: così, di recente, scriveva Giuffrè, chiudendo il già ricordato suo scritto del 1986, che fa spicco per lucidità nell’ambito di una esegesi che troppo spesso è stata per Francalancia, nel dopoguerra, largamente impari al suo lavoro di pittore.