Scialoja: dagli esordi agli anni Sessanta
Toti Scialoja : dagli esordi agli anni Sessanta.
1939-1948 : gli esordi, e le prime conquiste di forma.
E’ un già lungo tragitto di forma, quello che Scialoja compie dal ’39 (l’anno che lo vede fare il primissimo esordio all’ufficialità di una manifestazione espositiva: presentando un disegno alla terza edizione della Quadriennale romana) al 1948, quando, dopo aver partecipato fra marzo e maggio alla V Quadriennale, stavolta ospitata a Valle Giulia, il mese successivo declina l’invito ad esporre rivoltogli dalla XXIV Biennale di Venezia. Caso, questo, assolutamente singolare: di un ancor giovane artista che rinunci, e non per urgenze polemiche, all’occasione veneziana. Dunque in quelle poche settimane che intercorsero fra i due inviti – per Roma e per Venezia – cade la presa di coscienza, in Scialoja, di un cambiamento che è in lui in atto e che è di tale portata da spingerlo a considerare non più rispondente al suo animo la pittura, che, ancora, gli esce dalle mani: giacché è appunto da questa distanza fra pensiero e lavoro che discende la rinuncia ad esporre alla Biennale (1).
Dentro questo 1948 va quindi individuata la prima crisi di un percorso che s’era fino ad allora sviluppato per oltre dieci anni congruamente, senza salti impreveduti o troppo brusche cesure; ed insieme la prima consapevolezza d’un animo che d’ora in avanti sarà sempre avvertito, sovente in anticipo sul concreto avverarsi della pittura, delle proprie più fondanti ragioni creative; un animo che sorveglierà dappresso, con lucida comprensione delle proprie interne movenze, e spesso con piglio quasi tirannicamente autocensorio, gli istinti del fare.
Se dunque al ’48 va posto il discrimine di questa nuova e severa ‘moralità’ di Scialoja, a monte d’esso si snoda una lunga e gioiosa stagione durante la quale il senso della ricerca risiede, più che nel filtrare stimoli e suggestioni, nell’accettarli e saggiarli con mano prensile e curiosa. Nelle prime Nature morte, che risalgono al ’40, “Toti” (si firma, adesso, così) mette a frutto quanto ha saggiato, gli anni immediatamente precedenti, nel disegno: quel gettarsi a capofitto nell’immagine, quella scrittura veloce e abbreviata, quella parola detta in un attimo, e subito definitiva.
Sono visti dall’alto i Cardi e cipolle (del ’40, appunto), o analogamente i Fichi spaccati, l’Aringa sulla zuppiera, di quello stesso anno; colti da un solo sguardo in quel loro vorticare di forme sommariamente delineate, costruite da un colore caldo, ricco, squillante. Lontanissimo, quel colore, dai casti accordi tonali che avevano sedotto tanta pittura romana sulla metà del Trenta; colore di timbro, invece, alto e sonoro, al modo di quello che questi stessi mesi è in certe cose di Guttuso, in certe sue Nature morte, soprattutto, del ’40, del ’41. Scialoja è qui, rispetto al più sperimentato compagno, ancor più sommario di disegno: che non ha gli scarti, le angolosità, le ricercate asprezze di quello guttusiano (su cui fa aggio ora il Picasso di Guernica), ma accompagna appena lo strusciare del colore in anse, curve, serpentine. Mentre l’immagine sale alta fino a occludere l’orizzonte, e nega ogni possibile, rasserenata apertura prospettica, in un tripudio di colore quasi matissiano, quale era stato – è singolare notarlo – in certi paesaggi lucani di Levi, fra ’35 e ’36, o ancor prima in cose giovanilissime di Adriana Pincherle.
Già in parte diversi, poco dopo, sono i Nudini del ’42-’43: anch’essi di infinito, franto, tripudiante colore – Circe, soprattutto – ma insieme come fatti più segreti e distanti, assorti in qualche loro misterioso pensiero. Araldici, eppure malinconici. Senz’ombre che non siano luminose, parrebbero tutti esposti allo sguardo, e non lo sono: qualcosa di indefinito, fuggente e sottilmente inquietante alita senza clamore nella luce dello studio che ha svelato – in mezzo ai fiori, al fonografo, all’uccellino imbalsamato – quelle singolari nudità d’adolescente.
Al termine di questo primo tragitto di pittura stanno, infine, i soggiorni del ’47 e ’48 a Parigi: ove un viaggio divenuto canonico conduceva allora tutti i nostri giovani, che vi scoprivano Hartung e Magnelli, e con loro le tracce disseminate di una ininterrotta avanguardia, transitata negli anni Trenta per Abstraction-Création e Cercle et Carré e ora giunta alle composizioni astratto-concrete dei jeunes peintres de tradition française. A Parigi, invece, Scialoja scopre Soutine; e la pennellata, da breve e interrotta, si fa lunga, nervosa, filante. Svettano e franano, adesso, i suoi paesaggi urbani, bruciati da lunghe, saettanti lingue di fiamma accese da un giallo pieno ed intenso che ripensa – senza volersi nascondere il ricordo – la luce abbacinata di Van Gogh. La attonita malinconia di certi paesaggi romani appena precedenti – di Fabbriche sul Tevere, ad esempio, che è uno fra i piccoli capolavori di questi anni – si tramuta così in affanno, in sovratono. Può sembrare, ora, che gli sia per qualche cosa vicino Stradone: così parve, anche, a Cesare Brandi, che infatti riunì i due, con Sadun e Ciarrocchi, al Secolo, in una mostra che chiamò “Quattro artisti fuori strada” (2). Ma il puntiglioso surrealismo di Stradone, e quel suo modo d’accostare la realtà che è sempre sul punto di farsi caricaturale, è del tutto estraneo a Scialoja. Che, intanto, a Parigi ha dato il suo ultimo grido; in Francia, assieme a Soutine, egli ha guardato Braque: e sarà proprio da lui, oltre che da Morandi, che muoverà la sua crisi, e il suo nuovo linguaggio.
1948-1954 : altre scoperte e nuove prospettive.
Il Marché aux puces del 1948 è uno dei primissimi esempi del modo nuovo di Scialoja (3): il colore vi è ancora corposo, denso, quasi di pasta; e svettano filiformi, ancora, gli esili, irrequieti fumaioli sui tetti bianchi e grigi, contro il cielo bianco e unito di Parigi: reminiscenze, quelle densità cromatiche e quella nervosa scrittura, del tempo appena trascorso. Ma altrove – già – è la forma del dipinto: in quella inedita necessità di costruire il quadro per tasselli di colore puro e indeclinato, capaci di distendere sulla superficie un ritmo fatto di ombre e di luci, di pieni e di vuoti. A pensare – di fronte a questa o ad altre analoghe tele di questo tempo – alla pittura che verrà di qui a dieci anni, c’è da stupire per il tanto che adesso Scialoja è già capace di preannunciare: quei temi, appunto, che saranno per lui fondanti, della superficie come luogo esclusivo della pittura, dello spazio come epifania di un tempo ritmico, scandito dal succedersi pausato degli eventi.
A ciò egli arriverà sviluppando le premesse di un pensiero fenomenologico ancora di là da giungere a maturazione; pure, non sarà senza significato rilevare, così precocemente nel suo tempo d’artista, questo primo annuncio di quella che sarà una delle sue opzioni e consapevolezze fondamentali. Per ora Scialoja lascia crescere il suo linguaggio su codici diversi, orientati da Morandi – cui ancora sarà debitrice ad esempio, nel 1951, la Natura morta già in collezione Moravia – ma anche, contemporaneamente, dall’ambiente parigino, cui più volte in questi anni egli mostrerà di riferirsi, operando scelte sempre singolari, e niente affatto comuni all’interno del generale ossequio che la pittura italiana del dopoguerra dimostrava verso l’arte francese.
Il Nudo del ’49 è uno dei punti d’avvio di una ricerca che durerà almeno fino al ’52. Il colore, che s’è fatto liquido e trasparente, dilaga omogeneo nel corpo della donna, le cui forme semplificate e ripiegate su se stesse si compongono quasi perfettamente all’interno di un grande ovale. La brusca retrocessione dell’immagine dal canone d’una corretta referenzialità dipende qui certo, in prima istanza, da Picasso: ma altro s’insinua fra la scomposizione di radice cubista, che sbilancia le simmetrie e gli equilibri del nudo, e il ricordo dei grandiosi volumi del Picasso mediterraneo, che fa sì che quel corpo reclinato giganteggi, pur con le sue ombre luminose e leggere, nello spazio compresso della tela.
Altro: ed è forse, in pari misura, il fascino che può ora esercitare su Scialoja la tarda operosità di qualche grande vecchio della scultura francese, Laurens su tutti, o la curiosità che gli accende una delle esperienze più devianti del panorama parigino, quella di Bram van Velde, la cui singolare figura veniva solo allora, e solo parzialmente, riconosciuta in Francia. Quel tanto di surrealtà che ancora resiste nell’astrazione organica del pittore olandese interessa probabilmente Scialoja assai più di quanto non faccia l’accademia post-cubista di un Manessier o di un Bazaine: ed è quanto, anche, va a correggere, o a complicare di sensi diversi, il riferimento morandiano di una Natura morta come quella presentata, assieme ad altri quattro dipinti del ’49 e del ’50, alla XXV Biennale di Venezia (la Biennale, occorre ricordarlo, che vede ormai definitivamente contrapposte le fazioni dell’astrattismo venturiano e del realismo di Guttuso e Pizzinato, dalle quali Scialoja si tiene egualmente distante).
Sono questi e quelli che immediatamente seguiranno, fino al ’53, anni spesi in una ricerca molteplicemente, e a tratti anche confusamente indirizzata. Scialoja sa d’aver rinunciato ad ogni precedente assetto del suo lavoro; capisce, d’altra parte, di non volersi confrontare, e tanto meno legare, con nessuno dei gruppi, degli schieramenti, dei programmi che in patria, attorno a lui, cementano solidarietà apparenti che un tempo breve, a volte fatto soltanto di pochi mesi o poche settimane, disperde, lasciando sovente chi vi ha aderito, chi vi ha impegnato il proprio entusiasmo e le proprie energie, in una sorta di rinnovata prostrazione per un progresso di idee che è infine mancato. Intuisce già adesso definitivamente che la sua crescita sarà individuale, né orientata da esempi italiani, vecchi o nuovi che siano..
Un gruppo di dipinti datati fra ’50 e ’52 (e fra essi, La pecora morta, Donna davanti alla stufa, Bambine che giocano in riva al mare; quest’ultimo, del ’52 appunto, verrà esposto alla Biennale di quell’anno) narrano vicende imperfette e come sospese di esili e allungate figurette femminili che, senza peso o volume, e contro fondali spogli di verità, vivono una loro astratta, misteriosa, talvolta allarmante esistenza. La femme invisible di Giacometti, Arp, Brauner forse, o Maurice Henri: le fonti possibili (e per il clima italiano remote, desuete o del tutte ignorate) sono tutte di costa francese, e d’ambito surrealista. Eppure, s’avverte che a nessuna Scialoja è disposto ad appoggiarsi con intera fiducia: è piuttosto, il suo, un trascorrere territori, lambiti da infinite suggestioni letterarie e poetiche, lontani da quelli più usualmente battuti dalla pittura italiana che cerca ancora un rinnovamento – lontani dal credere ingenuo che basti un’impaginazione neocubista dell’immagine ad uscire dagli impacci della figurazione.
Assieme alla Bambine in riva la mare, il gruppo di opere presentate alla XXVI Biennale comprendeva un Arlecchino che è forse, fra i dipinti di quel tempo, quello che meglio dimostra la singolare vicinanza che allora strinse Scialoja a Bruno Cassinari (4). Il quale (presto sottrattosi anch’egli alla logica dei gruppi e degli schieramenti: avendo ritirato subito l’adesione, che gli era stata sollecitata da Morlotti e da Marchiori, al “Fronte Nuovo delle Arti”) da qualche tempo – dal ’49, in particolare: quando, ad Antibes, conosce e frequenta Picasso, Matisse, Cocteau, Eluard – stava cercando per la sua pittura una crescita diversa dal tonalismo e materismo lombardo che, fino agli anni immediatamente successivi alla guerra, ne governavano gli orientamenti dello stile.
L’Arlecchino, dunque, largamente consente con quanto proprio allora insegue anche Cassinari: un’apparizione gioiosa e piena d’un colore puro, a tratti squillante, avvistato sulla superficie, ove, come in una tarsia, lo dispone e contiene un disegno che tende ad essenzializzare la forma. Se si vuole, anche qui trascorre una trasfigurata memoria di sintassi cubiste: ma a fronte della frantumazione spaziale, e complicazione narrativa, cui giungono le contemporanee poetiche neocubiste, c’è – in entrambi – un’opposta tensione verso un’immagine fortemente emblematica, e quasi araldica.
Ora, Scialoja è vicino alla sua maturità. Nel ’53 è nuovamente a Parigi. E lì tutto, fra quanto ha fatto dopo la guerra, gli appare insufficiente, lontano comunque da quel che adesso desidera. Vuole, spera una rifondazione: e chiudendosi gli occhi su quanto ha attorno, su quel che i suoi anni gli indicano come attuale, guarda di nuovo alle fonti dell’esperienza moderna – a Cézanne, a Picasso, a Braque.
La sua pittura del ’54 non è allora un cedere – che sarebbe tardivo – alla ancora dilagante poetica dell’astratto-concreto, ma invece lo specchio di quella sua volontà di ripartire da poco, dalle rare e caute movenze essenziali al dipingere. Sono quadri lenti, sommessi, pensosi, quelli che gli escono dalle mani; un olio magro, un colore accordato, una griglia di segni che si intersecano, raffittiscono, scemano – che scandiscono, così, densità e rarefazioni, ombre e trasparenze. Adesso, pur restando all’interno di una struttura linguistica braquiana, Scialoja ha fatto il passo per lui decisivo: ha eliminato l’oggetto come pretesto, e vincolo, di pittura.
1955-1956 : la prima maturità.
Distolto che ebbe l’oggetto, e con esso qualsiasi relitto di referenzialità naturalistica, dal proprio orizzonte visivo, Scialoja avvertì di poter operare uno strappo ulteriore, e ben più radicale, sul tessuto linguistico dei suoi anni. Rinunciò al pennello, di cui aveva preso a temere l’incondizionata disponibilità ad acconsentire al governo del pensiero, e si scelse per strumento di pittura un semplice straccio intriso di colore.
Una scelta né casuale né povera di conseguenze; e, anche, la prima concreta prefigurazione d’una poggiatura dell’animo, sentimentale ora più che programmatica, verso l’imprevedibilità creativa dell’automatismo. Ma oltre a legare quelli che sono – da questo punto di stazione – il prima e il dopo di Scialoja (quello scrutinio asistematico ma pungente esperito su certi episodi del surrealismo francese fra quarto e quinto decennio; e quello che sarà il contatto con l’automatismo d’oltreoceano, anch’esso di radice surrealista), l’adozione – ora – di questo strumento e della tecnica particolare che esso comporta vale anche a porre una definitiva distanza fra l’esperienza sua e quella di altri suoi compagni di strada, intenti, quegli anni stessi, a pensieri non troppo distanti dai suoi. Di Afro soprattutto, naturalmente, amico e sodale da sempre (e che proprio in quell’anno, il 1955, scambiava dall’America con Toti alcune lettere di straordinaria intensità intellettuale). Ma anche di altri, vicini o più lontani – e, questi ultimi, spesso ravvicinatigli dalla mediazione proprio di Afro: Corpora, ad esempio, o Birolli, o Santomaso (5).
Vicino alla metà degli anni Cinquanta, in molti degli ‘Otto’ s’assiste ad una brusca caduta del tessuto linearistico e disegnativo che ne aveva strutturato ogni singola esperienza, e di contro ad un improvviso inorgoglire del colore, ora libero di effondersi sulla tela e di determinare autonomamente il senso dell’immagine. Birolli fra Verde te quiero verde, del ’54, e gli Incendi alle Cinque Terre dell’anno seguente; Corpora fra le Composizioni del ’53 e i dipinti subito successivi; Morlotti persino – per quanto il suo caso sia, evidentemente, assai diverso – che è ora alle soglie di quegli Studi esposti alla Biennale del ’54 che poi egli volle distrutti; Santomaso, che fra tutti ha forse la virata più stretta, fra il macchinismo ‘rurale’ e descrittivo del ’54 e la liquida caduta di colore di molte sue cose dell’anno seguente; Afro, che dopo aver avvistato nel ’53 scioltezze maggiori, nel ’54 tornava a segnare di angolosità e di crudi incastri lineari il Ragazzo col tacchino, da cui avrebbe infine girato, senz’altri ritorni, verso la sua più alta stagione – per tutti questo tempo è quello d’una sopraggiunta libertà che era il portato comune di una generazione e di un orientamento di lavoro.
Lo straccio si posa e si svincola sulla tela con una corsa non in tutto prefigurata; la bagna di colore senza depositarvi materia; ottiene stesure magre, al limite della trasparenza, ma senza le lente, sapienti alchimie che erano, ad esempio, di Afro; segue talora la mano che scrive il segno peregrinante e inquieto, e talora, invece, ne anticipa le intenzioni. Pigro o eccitato, aspro o gentile, dolce e sgarbato, lo straccio sa disporsi a rendere il doppio animo che Toti cova, adesso, nel dare l’immagine.
Pubblica nel ’56, avendolo forse già concepito l’anno innanzi, un saggio su Afro che è insieme la più concreta analisi che allora sia apparsa sulla sua pittura, e una proiezione di se stesso e dei suoi desideri sui modi dell’amico – quasi un volerne indirizzare la crescita futura. Scrive: “la sensibilizzazione acuita della superficie libera l’immagine di Afro da qualunque tentazione di articolazioni spettacolari, di fondi cedevoli. La lontananza trasuda alla superficie e vi si offre come una schiuma emersa …” (6). E ad Afro – a Figura verticale, I e II, ad esempio, entrambe del ’55 – appartengono quella voglia e quel talento di far lentissimamente affiorare l’immagine dal fondo al primo piano “come una schiuma emersa”, appunto: per estenuati rapporti di ombra e luce, luce ed altra luce. Ma a chi poi, se non allo stesso Scialoja (e con quella determinazione e chiarezza, a lui soltanto, adesso, in Italia), appartiene la volontà di stare per intero sulla superficie, omogeneamente occupata, satura, e tutta in tensione?
1956-1957 : dalla pittura di gesto alla scoperta della impronta.
Nella primavera del ’56, Lionello Venturi pubblica su “Commentari” un saggio importante sulla pittura di Scialoja, attento particolarmente ai più recenti indirizzi del pittore. Dagli “oggetti non precisati, che hanno una forma di leggenda” di una Natura morta del ’52 ai “modi analitici del cubismo”, ove “Scialoja ha trovato il suo equilibrio”, Venturi non ha incertezze nel riconoscere un sicuro progredire degli esiti formali. Dopo, una sorta di perplessa affettuosità prende ad accompagnare le sue parole e il suo giudizio. “Del 1955 è il suo passaggio dal cubismo all’astrattismo, e cioè alla rappresentazione di una realtà immaginata, anzi che fisica” – in cerca di “immagini che affiorano alla coscienza o da un ricordo lontano o dall’ignoto”; più avanti, ai primi mesi del ’56, “l’immagine si forma nella sua consistenza plastica anche se non nella sua verisimiglianza”.
Dietro una trama più complessa e più faticosa del dettato, si riconosce qui il velato rimpianto per un tempo trascorso: “è stato un momento felice il 1954 – dice ad un punto Venturi – ma un temperamento come Scialoja non può fermarsi”. Chiudendo il saggio, egli riporta infine un lungo pensiero di Scialoja sulla sua pittura: come delegando al pittore la giustificazione dell’ultimo ‘strappo’ da lui operato: “Il colore sta perdendo il suo senso di allusione per diventare una presenza e quasi una realtà fisica, riportando in primo piano il problema della materia e della superficie pittorica. Prima d’essere segno la pittura è ineluttabile scaglia fisica, strato tangibile: è calce, è gesso, è canapa, è resina, è polvere, è smalto, è grumo. (…) Questa realtà fisica entra nell’immagine insieme con il colore, anzi è il colore stesso, è la presenza completa. L’immagine pittorica diviene sempre meno ‘cosa immaginata’ o dipinta, ma semplicemente è nella sua qualità di realtà, di presenza a nostra immagine e somiglianza” (7). Non allusione ma presenza; non memoria o sogno; non retaggio della vista o fantasma della mente, ma un esserci della pittura, semplice e radicale: è esplicita, in queste parole di Scialoja, la presa di distanza dal pensiero critico più recente dello studioso: il quale pure continuerà generosamente ad appoggiare la crescita, da allora in avanti autonoma e solitaria, di Scialoja, fino a firmare la presentazione alla parete che, accanto a Burri, gli destinerà la Biennale di Venezia del 1958.
Andava ricordata, questa solidarietà testimoniata più volte da Venturi a Scialoja lungo questi anni cruciali, offerta in anticipo su altre che di lì a poco verranno – di Dorfles e Villa, di Alloway e Gendel: perché rara e difficile, allora, nel momento del primo formarsi di un nuovo linguaggio; proprio ora che Toti – non diversamente, ad esempio, da quanto accade quei giorni stessi a Mafai – di altre, più antiche solidarietà e vicinanze si trova a dover fare dolorosamente a meno.
Ora che, di mese in mese, la pittura corre a toccare e possedere quei traguardi che il pensiero d’essa s’è già dato, sulle pagine del Giornale di pittura (8). Poco innanzi, l’avventuroso svincolarsi dello straccio sulla tela dava figure larvali e fluttuanti; gorkiane certo, per quel loro sospendersi interroganti come in un fluido che le contenga – seppur già eccitate da un segno rapido, incauto, non preventivato.
Adesso, dopo il soggiorno a New York, frana l’ultimo impianto figurale che ancora governava le tempere magre del ’56. Quanto era prima elemento fra gli altri elementi, atto fra altri atti – il gesto acceso, vibrante, spazioso – s’erge a solo protagonista della pittura. Il primo dell’anno, che appunto apre il 1957, è un passo su questa via: si lacera la figura, si spezza la sua luce a destra e a sinistra di quel rosso denso ed unito che non è più fondo, non primo piano, ma determina l’unico campo dove accade la pittura; si spezza, quella figura, divisa urtata e franta dal crepitare dei segni, dalle gocciolatura, da un gesto che grida ad occhi chiusi la sua verità.
Persecuzione, poco più tardi, è un approdo già perfetto di questo modo. Lampo nero e bruno che squarcia la bianca distesa di nebbia, rivolo d’ira scritto nella schiuma di un’onda immensa, vi confluiscono l’eccitata passione toccata con mano nella Decima Strada, l’urgenza di specchiare tutto intero sulla tela il proprio sentire, e la ruvida consistenza di una materia anticanonica – polveri e colle industriali sulla scabra tramatura di una canapa grezza – che riconduce a possibilità di stesure pittoriche l’aspra bellezza pensata da Burri.
Di nuovo è il pennello che agisce qui sulla tela; di nuovo antiche sapienze fabrili son chiamate a dar forma all’immagine. Settimane e mesi scorrono così, in questo magico anno, ricolmi di intatto splendore: e vengono, fra gli altri, Senza respiro e Irritazione, Strappo e Resistenza e Il segno rosso. Finché forse proprio di questa istintiva, sorgiva felicità Scialoja ha spavento: uno spavento indotto, forse, dall’insidia possibile della gratuità di quel gesto che gli sgorga senza impacci dalla mano; ma fors’anche spavento di quella bellezza ricondotta, nonostante Origine, a suggere linfa da secolari, prestigiose alchimie pittoriche (ad esempio in quell’”alternanza di dripping e di campiture” (9) che riconoscerà poi compresente in Persecuzione e in altre opere di questo tempo).
E’ così che nascono le impronte: che cercano un’intenzione annidata dentro l’immediatezza del gesto, e insieme cercano una prassi – che sarà quella dello stampaggio – e uno strumento – un groppo poco più che casuale di carta intrisa di colore – capaci di scardinare, ancora e per sempre, vie e modi di grazie accertate, di troppo facili seduzioni.
Con le impronte, nell’estate del ’57, Scialoja tocca e possiede per la prima volta la sua più alta maturità, e mette termine a quello ‘studioso corso’ avviato, in una Roma diversa, tanti anni prima.
1957-1960 : dall’attimo alla ripetizione.
“Preparava la tela a terra – non voleva altro orizzonte. Prendeva un foglio di carta leggera, oleata, su cui la materia cromatica avrebbe aderito, senza lasciarsi assorbire. Questo foglio duttile, sottile quanto una pelle, se lo accartocciava stretto, in fretta, come un fazzoletto, fra le mani. Steso di nuovo, a terra, e lisciato delle rughe più grossolane, lo riempiva di pennellate rapide, eloquenti. Poi lo rovesciava sulla tela, premendo, battendo, gridando, una due tre cinque volte : fino all’esaurirsi del colore, fino al margine della tela, fino al cedimento del supporto fragile” (10). Nella testimonianza di Gabriella Drudi, che restituisce con straordinaria evidenza la foga e fin l’affanno di quei giorni di nuove scoperte, il procedimento fabrile delle impronte è passo per passo ripercorso : così che se ne intende alla prima tutto il furor che lo sosteneva, tutto l’empito ancora gestuale che lo denotava. Più nascosta è, al contrario, l’ultima radice semantica del procedimento immaginato da Scialoja : per il quale l’atto dello stampare è sì cieco, notturno e rabdomantico, ma insieme perfettamente consapevole. Più precisamente, esso è cieco rispetto a quanto accade fra la carta e la tela, e invece cosciente di quanto si dà fra il braccio e la carta che stampa.
Strutturalmente, pur nella assoluta novità tecnica, il procedimento di Scialoja è analogo (e come specularmente ribaltato) a quello posto da Kline a fondamento del proprio modo di dipingere : un modo che Scialoja aveva avuto modo di conoscere a New York, e che molto l’aveva preso. Kline poneva, a progetto della sua opera, decine e centinaia di piccoli fogli percorsi da un gesto elementare, violento, immediato, dunque del tutto automatico. Poi operava una selezione fra quei fogli, rigirati dalla mano in tutte le direzioni, attentamente scrutati ad uno ad uno : una scelta cauta e pensosa, che in qualche modo interveniva a sanare la cecità assoluta del primo approccio all’immagine. Quindi la scelta : Kline sceglie e manda a memoria, quasi, quel gesto (uno tra i tanti scoperti dai primi, veloci appunti), un tempo fatto di slancio, al buio : ha memoria, ora, della sua direzione, della sua intensità, dei suoi incontri e scontri con i gesti vicini. Con quella memoria, infine, si accosta alla tela ove, con recuperata cecità, opera la nuova e definitiva aggressione gestuale alla superficie.
Tutto cambia, e quasi si ribalta, in Scialoja che elabora il procedimento delle impronte ; ma rimane certamente la suggestione profonda esercitata su di lui da Kline e da quel processo creativo : nel quale l’assoluto automatismo prima, la piena autocoscienza poi, sapevano confluire infine in un gesto miracolosamente carico – insieme – di ombra e luce, di slancio e consapevolezza, di viscere e di pensiero (e in tal senso, la complessità del modo di Kline, se pur certo non indotta da una preoccupazione d’ordine concettuale, ma frutto d’una semplice e felicissima intuizione fabrile, si dà come eccezione rispetto alla normatività del “gesto” così come esso è concepito nella tradizione della pittura d’azione, legata sempre alla sua radice d’automatismo surrealista).
Quell’automatismo surrealista che Scialoja, all’opposto dei compagni d’oltre oceano, ha da sempre in sospetto : del quale subisce il fascino di strumento atto ad eludere le paludate e ferree sintassi della pittura tonale che ne avevano condotto i primi passi (da un certo Mafai a Morandi), ma che presto, e ora definitivamente, gli prospetta il fantasma della casualità, dell’arbitrio, infine della gratuità (“ogni mio intervento sulla tela inchiodata al suolo mi appariva ingiustificato e arbitrario”, dirà) (11). Quell’automatismo, scrive allora, non può arrivare da solo ad affondare lo scandaglio nel “petrolio nero e fecondo dell’anima” (12): ed è come se, arrestandosi un attimo prima, si contenti (come di fatto s’è dato in tante declinazioni del surrealismo storico) di quasi divertite accademie dell’inconscio.
A tutto ciò Scialoja sente di sfuggire attraverso il colore stampato sulla superficie. La superficie che, appunto, è una delle sue certezze, uno dei fondamenti della sua pittura, dalla quale riparte in questo momento difficile : superficie intesa, cézannianamente, come fuga dalla mimesi servile, come luogo esclusivo di una pittura soltanto autoreferenziale. Accanto a quella nozione ormai antica, un’altra sorge adesso, imperiosa : ed è quella di una “forma, come elemento di superficie distinta e caratterizzata dal mio sentimento ; o meglio dai miei sensi. Forma come porzione di senso” (13). La forma è dunque per Scialoja, ora, il freno posto all’arbitrio della superficie. La forma è l’impronta.
L’impronta è, a sua volta, la necessità di ricondurre l’eccezione all’interno della norma ; è il dato che mitiga il cieco furor degli action painters, che guida il volo notturno del gesto libero sulla tela.
Che, d’altra parte, in questo suo momento aurorale, l’impronta non sia una nozione chiusa e tetragona, ma invece ancora soprattutto un modo attraverso il quale Scialoja pensa e riflette sulla sua pittura, è testimoniato non solo dalla rapida evoluzione cui va incontro in questi mesi il suo operare, ma anche dal denso dibattere che, della natura ultima di questo suo modo, egli fa nel suo Giornale di pittura. Un momento assai precoce (datato all’ottobre del ’57) di riflessione sulla pratica dello stampaggio è offerto allora dai colloqui che Scialoja ha con Leoncillo, cui lo legava una antica prossimità.
Con Leoncillo, il dibattere attorno al modo dell’impronta che andava nascendo (e che lo scultore chiamerà, nel suo Piccolo diario, “orma”) fu certo intenso, e a tratti non scevro di qualche animosa e conflittuale passione. Tutta l’emozione e la densità di pensiero di quei giorni sono attestate, in parallelo e quasi giorno dopo giorno, nei diari di lavoro dei due artisti. Scrive dunque Scialoja : “Una intera domenica passata con lo scultore L. che è in crisi. Si informa della mia tecnica. Gli spiego che dipingo stampando, schiacciando, ecc. Mi chiede per quale motivo profondo, costitutivo, io abbia bisogno di un interposto modo, di un diaframma, di un meccanismo tra me e la pennellata diretta, e perché questa esigenza, riscontrabile oggi in tutti gli artisti vivi, stia nascendo anche in lui.
“Il pittore non è più il demiurgo che impartisce i suoi dettati, le sue lezioni, le sue scelte, le sue grazie, i suoi giudizi sull’intera natura, cioè sul suo Regno. La pennellata non è più il suo sigillo (..). Il mezzo sarà il nostro gesto, cioè la materia stessa messa in moto : abbiamo bisogno di una corrispondenza di una giustezza e di una infallibilità che non si riferiscano ad un pensiero precedente e sovrastante ma che appartengano proprio alla presenza fisica ed oggettiva dell’opera d’arte-cosa esistente” (14).
Nel Piccolo diario di Leoncillo, i fantasmi che attraversano la sua ricerca si scoprono non dissimili da quelli che avevano preso ad abitare il pensiero di Scialoja dal ‘55-’56. Così ad esempio – e pur con un accento più problematico che assertivo – anche Leoncillo scrive di “lacerazione” e di “gesto”, di “automatismo” e di “forma”. A volte, le tangenze con la riflessione di Scialoja si fanno stringenti : “E la creta diviene materia nostra per gli atti che compiamo su essa e con essa , atti che nascono da una reazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dolcezza, dalla disperazione motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e vediamo”. E ancora : “la grandezza di una scultura è rapportata alla ampiezza dei gesti che occorrono per farla, alla natura del loro intersecarsi e sommarsi (…) ; tagliare la creta col filo è realizzare un atto decisivo crudele e liberatore”. Poi, altrove : “prima una cosa è, poi può essere concettualizzata (…). Così è un colore. Un colore rosso è un’idea, ma lo zolfo è giallo” (laddove Scialoja aveva scritto : “allora il colore è sbiancato perché è argilla, ed è giallo perché è zolfo, ed è rosso perché è ruggine”). E infine, sorprendentemente per la quasi perfetta coincidenza con il tema del tempo che sarà di lì a poco organicamente espresso nella pittura di Scialoja : “una successione di atti crea una forma … una forma che si organizza su quegli stessi atti, sulla loro successione” (15).
Certo, molto altro distingue il pensiero e i propositi dei due amici. Una vocazione interamente astratta, quale era quella che sosteneva allora l’opera di Scialoja, una vocazione che inducesse l’intero portato esistenziale a manifestarsi all’interno di una griglia mentale strutturante gli atti elementari della pittura, della scultura, non appartenne mai a Leoncillo. Che confessa infatti al Piccolo diario, di ritorno da uno degli incontri allo studio di piazza Monte Savello : “Sì. Protagonista è il gesto, il fare, la creta, i colori. La materia insomma. La loro successione, il loro articolarsi in un discorso, la forma che ne nasce, ma dietro questo deve esserci il motivo, il sentimento profondo che si vuol dire, i mille richiami a ciò che si è visto, sentito, pensato. Senza questa ragione espressiva tutto è vano, non c’è nulla. I gesti possono essere mille, stupidi e inutili” (16). Richiamando con ciò la necessità sua di un ultimo radicamento dell’immagine nella realtà, sia pure di una realtà trasfigurata dalla memoria ; e in ciò ponendosi, Leoncillo, in una contiguità stretta con il sentire che motivava allora la ricerca di Afro.
Proprio quell’autunno del ’57, invece, e proprio attraverso la pratica dell’impronta, Scialoja sente di aver messo al riparo la sua opera da quel sospetto di gratuità che tuttora spaventa Leoncillo. Nei passi del Giornale più sopra citati, inoltre, e in molti altri di quel tempo (oltre che – indirettamente – nelle stesse considerazioni che Leoncillo annota nel suo diario) emergono altre consapevolezze che gli si vanno facendo definitivamente limpide : prima fra tutte quella sorta di nudità, di condizione scalza, che fatalmente spetta – adesso – all’”opera d’arte-cosa esistente”. E’ un lucido avvertire, quello di Scialoja, che è ormai irrevocabilmente trascorso il tempo di un informel che ha pur implicato modi e nozioni (ad esempio, quella del gesto) non estranee al suo fare, ma che d’altra parte monta adesso, in Italia e in Europa, in compiaciute e sovente vanamente orgogliose accademie di pasta e di materia, infinitamente distanti da quel dire secco e necessario, da quella parola aspra e forte che spetta ora alla pittura.
E ancora, il tempo : che s’affaccia adesso come demone totalizzante nell’opera di Scialoja, sino a costituire una sorta di passaggio obbligato attraverso il quale debba transitare ogni altra verità. “Superficie è forma se diviene ritmo”, scrive (17): ovvero lo spazio non può darsi disgiunto, o al di fuori del tempo. Il tempo è una sequenza di accadimenti, ciascuno dei quali serba memoria del precedente senza mai poter essere, rispetto a quello, identico. Il tempo è dunque, sulla tela, una successione di eventi che hanno una direzione e che ‘ricordano’ se stessi, cresciuti in una sequenza ritmica, cioè intervallati l’un l’altro da una pausa.
L’impronta si identifica dunque con l’evento, che è a sua volta nucleo e luogo essenziale della realtà. Evento che per Enzo Paci, la cui filosofia del relazionismo era ben presente a Scialoja, “non avverrebbe se non fosse in rapporto con tutti gli altri eventi e degli eventi passati non conservasse in sé la permanenza muovendoli nel contempo verso l’avvenire e rinnovando la loro forma” (18). Attraverso Paci (la cui riflessione accompagna dappresso il volgersi di tanta parte della più avvertita cultura artistica italiana, tra fine Cinquanta e primi Sessanta, da una diffusa adesione ad un sentire esistenzialista a una prima conoscenza dello strutturalismo e della fenomenologia), Scialoja giunge – ancor prima di farsi allievo, a Parigi, di Merleau-Ponty – alla consapevolezza della centralità che, nel pensiero contemporaneo, andavano assumendo talune nozioni sulle quali da anni si esercitava la sua riflessione. Così, ad esempio, egli ritrova in Paci i termini a lui tanto familiari di forma e tempo, di evento e permanenza, di spazio e campo, di figura e ritmo, di pausa e direzione : concetti, tutti, posti a definire problematicamente i confini della realtà come essa si offre alla sonda dell’esperienza e del pensiero, dunque della conoscenza : che è quanto, ormai da lungo tempo, preme al cuore della ricerca di Scialoja.
Che, nel luglio del ’57, scrive : ”instaurare il luogo dove poter esprimere il proprio spasimo di esistere e finalmente assolverlo in una sfera di ragione presente, una sfera significante” (19). L’impronta non è ancora nata, e già spera – nell’elaborazione concettuale che sempre in Scialoja accompagna, sovente anticipandola brevemente, la prassi della pittura – una sua vita diversa e più piena di quella che segnerà la sua prima facies. Erano venute, le prime grandi tele del nuovo linguaggio – Il sette di settembre, Procida n. 2 … – come luoghi ancora segnati dalla foga e dallo slancio cieco : immagini coinvolte e drammatiche, ammesse ora nuovamente da Scialoja al proprio fare da quella sorta di filtro anti-emotivo che è per lui l’”interposto modo” dell’impronta : quasi bastasse ora al pittore frapporre fra il suo gesto e la tela la fragile interfoliazioine della carta stampante per legittimare ancora la sua ansia di esprimersi “tutto intero”, senza prudenza o freni, sulla superficie. Sono così, quei primi dipinti della nuova stagione, ricolmi e quasi trionfanti di colore magmatico e variato, di materia celermente sovrapposta in più e più strati, impressa da un gesto che si ripete in affanno, condotto ancora da un automatismo assoluto : ed è una traccia quasi organica quella che si deposita sulla canapa, in sovrapposizioni celeri, frequenti, ossessive, che corrono a saturare tutta la pagina pittorica, in una nozione di all-over che è come un ultimo omaggio reso da Scialoja alla pittura d’oltre oceano.
Giunge intatta sino ai primi mesi dell’anno seguente, quella libertà che l’impronta ha consentito di recuperare : e lo stampaggio finisce talvolta per mimare, quasi, l’empito del gesto (Falso Nord, forse della metà del ’58). Ma è solo un transito : presto l’impronta si isola, si raccoglie in se stessa, monta a figura, e si offre così a strumento del nuovo bisogno di forma di Scialoja. Con essa, il tempo scende sulla superficie ; vi fa corpo ; non se ne disgiungerà più. Un’unica matrice – il foglio di carta oleata pregno di colore – stampa adesso più volte, perdendo progressivamente materia, e ripetendo la propria traccia sempre più esigua sulla superficie, in genere procedendo da sinistra a destra.
L’impronta somiglia adesso all’evento, fino a indentificarvisi : monade di una realtà fenomenologica, essa si dà come intero concettuale ed esistenziale, denso, proprio come Scialoja aveva tempo addietro sperato, insieme di “viscere” e di “pensiero”, di intenzione e di accoglienza (“potessi esprimere interamente dal grembo, e fare dell’opera un grembo”) (20).
Si dispone in sequenza : perché la realtà non può darsi senza memoria e senza futuro, e non può manifestarsi al di fuori di uno spazio, o meglio di un “campo” ove s’invera la relazione degli eventi che la costituiscono. Nel campo della tela, l’insieme delle impronte realizzano un ritmo, dato dall’alternanza di pieni e di vuoti, ove le pause contano non meno che le scansioni, il silenzio non meno che il grido. La materia scema ancora d’orgoglio, quasi a prendere un’ultima distanza dalle hautes pates di un informel che il nitore e la nudità del pensiero che sorregge la prassi di Scialoja hanno sospinto ormai definitivamente lontano.
Il colore, infine e soprattutto, ha una brusca virata. I rossi di fiamma, i rosa infinitamente incantati, l’oro ed i verdi che nutrivano sontuosi le prime, crepitanti, magmatiche impronte, lasciano il posto – questo ’59 che avanza – ai bianchi accecati, alle ocra sorde del fondo. Sui bianchi, sull’ocra, l’impronta scrive la sua ripetizione con altro bianco, gessoso, e solo qui e là segnato – ferito, proprio, diresti – da un rosso che non ha spavento a confessarsi, ora, scopertamente simbolico. Eppure, a considerare queste opere accanto a quelle coeve di Burri (che è, questi anni, il più prossimo compagno di strada di Scialoja), accanto – in particolare – alle più incendiate e clamorose e dolenti sue combustioni e plastiche, se ne percepisce una natura fondamentalmente diversa : più reticente e segreta, più rattratta e muta, in Scialoja ; pur, appunto, nella evidente convergenza verso un registro cromatico ristretto, nel quale il rosso, la ferita del rosso, riveste un suo ruolo di forte valenza simbolica.
Come se il lucido pensiero ordinante (un pensiero in cui la forma chiusa e tetragona del dipinto ha da far aggio, adesso, su ogni altra ragione) impedisse a Scialoja l’abbandono ad un’emozione pienamente confessata ; esigendo, all’opposto, un dire aspro, reticente, scevro d’incanti. Come se – ancora – Scialoja sentisse l’urgenza di arginare il pathos dell’immagine : quel pathos che, presente ed esposto come non mai in Burri nelle Combustioni plastica e in alcune Combustioni legno del ’57 e ’58, trova presto anche in lui, in quasi assoluta coincidenza di tempi con la pittura di Scialoja, una sordina nell’assetto nuovamente geometrizzante, neoplastico dei grandi Ferri tra ’58 e ’59.
Fintanto che New York, ove Scialoja torna nel corso del ’60, lavorando in uno studio a Greenwich Street, non gli dona l’ultimo scarto : nulla di nuovo – ora come nel ’56, e adesso a maggior titolo di allora – conosce o apprende a New York. Sono forse soltanto gli spazi – della città, delle strade, del suo studio laggiù – a agire sul suo immaginario. Così, allora, gli scende dalle mani una pittura insieme eguale e nuova : eguale nei fondamenti teorici che la innescano ; nuova appunto nelle dimensioni, che crescono adesso a dismisura, senza spavento, lontane da ogni convenzione europea.
Ed è in quella dimensione, che almeno concettualmente Scialoja non abbandonerà più (se non nel breve momento di silenzio espressivo sulla degli anni Settanta, quando l’amore per la pittura troverà ricovero quasi esclusivamente in piccolissime carte e collages), che vengono tutti i dipinti di quell’anno, in una serie colma di spoglio, intenso splendore : Manhattan, Greenwich grigio, New York bianco, Greenwich bianco tre, Cocktail party , altri insieme a loro. Tutti rinunciano, quasi, ad abbigliarsi d’un colore diverso dal bianco, dal nero, dal grigio, talvolta – ancora – da un rosso come nascosto nella coltre della materia. Le impronte si son fatte giganti, incombenti, minacciose. Ineluttabili, appaiono, nella loro chiusa e segreta esistenza : monadi inaccessibili e altere, parlano ancora dello spazio dell’esistenza, e del tempo che la scandisce, ma con un’ansia nuova : come dicessero non un teorema illuminato dalla luce della ragione, ma un presagio oscuro, avvolto di malessere.
E sembrano così, nella loro notturna epifania, portare sulle spalle non solo il nitore di un pensiero giunto a perfetta maturità, ma insieme a questo tutto quel che Scialoja ha pensato e voluto e amato nei suoi anni più giovanili : l’ultima, fatale solitudine dell’atto creativo, l’angoscia di una ricerca che spera l’assoluto, il dolore d’esistere, la consolazione dolce che può scendere dalla pittura. Così che, per qualche verso, queste immagini finiscono per andar oltre persino agli anni, al tragitto denso di acquisizioni di forma di Scialoja ; oltre, certamente, rispetto ai colloqui scambiati con chi gli era più vicino, fra Roma e New York : de Kooning, Rothko, Guston, Afro, Burri.
Immagini solitarie, sono : fra le più dure, spoglie ed estreme dei loro anni. I bianchi, i grigi, e i neri soprattutto, senza seduzioni, senza fughe simboliche, senza avventure sentimentali, dicono soltanto il loro aspro consistere di materia appoggiata dalla mano su altra materia : grembo sopra un grembo, come aveva sperato che fosse ; traccia umana che vuole riconoscersi, e comprendere se stessa, nel scorrere lento e ineluttabile del tempo, della vita, della memoria.
1960-1964 : Parigi.
Da New York a Roma, di qui a Parigi : è, nel ’60, un cercare convulso un luogo possibile. “Situazione catastrofica, fallimentare, della pittura a Parigi (…) L’antica tradizione esaurita e spezzata”, scrive già nel marzo dell’anno seguente (21) ; eppure a Parigi rimarrà fino al ’64.
Un incontro, almeno, risulterà determinante : è quello con Merleau-Ponty, di cui Scialoja prende a frequentare le lezioni alla Sorbona (chi altri, fra i suoi colleghi, avrebbe avuto l’animo di mettersi dietro a un banco ad ascoltare, alla sua età ?). Al solito, Scialoja, dal nuovo incontro, non deriva scoperte, ma quelle conferme che è andato a cercare. E Merleau-Ponty, che gli parla ancora di tempo, di spazio, di relazione, è l’anello che lo lega saldamente, autorevolmente, al tempo suo appena trascorso.
Altro sta accadendo, intanto. In una pagina del Giornale c’è una strana invettiva contro Fautrier, “insopportabile perché feticizzava e paralizzava la materia in sé stessa” (22). Distante come era Scialoja da Fautrier, ci sarebbe da stupirsi di queste righe : in realtà, a Parigi, quanto accade a Scialoja è forse in prima istanza proprio l’avvistamento che egli fa della possibile e autonoma dignità espressiva della materia. Di qui la necessità che egli avverte di segnare il confine di quella nuova ammissibilità della materia nella propria pittura : e quel confine esclude, appunto, la nozione di una materia ingovernata, in crescita cespitosa e organica, dotata d’una pienezza espressiva indipendente da ogni altra inflessione del linguaggio della pittura : una materia, dunque, quale s’era configurata all’interno, soprattutto, della coinè informale, ed esemplarmente in Fautrier.
C’è poi, parallela, una nuova esigenza di “racconto” che si fa presente ora a Scialoja : forse dettata dal bisogno di uscire dall’indeclinabile assoluto del suo anno a New York . “Mettere insieme e giustapporre due frasi, due voci diverse, come personaggi di un dramma. Fare delle impronte un racconto …” (23). Così le impronte, da un canto, accentuano il modo della loro esistenza che aveva preso a darsi dalla seconda metà del ’58, e si fanno vieppiù nette, cadenzate, isolate in campi spaziali di loro esclusiva, gelosa pertinenza ; d’altra parte, collegate ora fra loro da una serie di elementi materici (corde, garze, merletti…) e non più soltanto dalla pausa silenziosa di un fondo anodino, sfruttano quella nuova relazione per dar figura a una loro vita diversa : di comunicazione, rapporto, o partecipazione ; così, infine, “l’elemento tempo si umanizza, prende coscienza del suo valore soggettivo puro, ovvero della vitalità organica” (24).
E ancora : “paura di vivere vuol dire convertire l’oppressione in favola” (25). Perché l’angst dei compagni d’oltre oceano non s’è dissolta ; solo, adesso, Scialoja spera, con la pittura, di potere risarcire qualcuna delle ferite dell’esistenza. Forse per questo, anche, il colore ritrova in questa pittura un suo pieno diritto di cittadinanza. Un pallido colore : appena un sogno di rosa, un velo d’azzurro nella trama ancora dominante dei grigi e delle terre spente ; ma bastevole a suggerire almeno l’incipit di una favola ; a togliere asprezza alla nuda ostensione del concetto. Così, attraverso questo pertugio aperto dentro una pittura che è stata sempre, e rimarrà, tetragona a ogni tenue inflessione di grazia, transita, a Parigi, un abbandono – il primo di Scialoja, da tanto tempo – all’incanto della materia, e al dolce accordo del tono.
Note
1. Scialoja è ammesso dalla giuria della III Quadriennale, presieduta da Cipriano Efisio Oppo, a presentare un’opera nella sezione del “bianco e nero”, ed espone nella sala LIV il disegno Donna (III Quadriennale d’Arte Nazionale. Catalogo Generale, Roma, 1939, p. 233).
Alla XXIV Biennale di Venezia Scialoja risulta in catalogo nell’”Elenco degli artisti invitati” (Catalogo. IV edizione. Definitiva, Venezia, 1948, p. 18).
2. Ciarrocchi Sadun Scialoja Stradone, Roma, Galleria del Secolo, cat., marzo 1947. Il titolo dato da Brandi al suo saggio introduttivo, contro il quale come è noto polemizzarono aspramente i giovani di “Forma”, che proprio allora facevano uscire il primo e unico numero della loro rivista (Forma 1, Roma, 15 aprile 1947), fu appunto Quattro artisti fuori strada.
3. Esposto quell’anno stesso (dal dicembre ’48 al gennaio ’49) allo Studio La Finestra di Roma, in una serie di venti “Paesaggi di Parigi 1948”, con il titolo di Baracconi al Marché aux puces. Nel piccolo catalogo della mostra, Scialoja scrive della Parigi che ha vissuto, e attesta lucidamente, in chiusura, quali siano a quella data per lui le radici e i termini principali del modo nuovo che cerca. “Un certo alone, una certa densità vivente : quello spazio umano, respirabile, che solo può alimentare la vita della forma. Uno ‘spazio’ che ci garantisca che le cose, fuori di noi, attorno a noi, esistono, sono riconoscibili, possono essere amate. Su questo caldo spessore, su questa misteriosa ‘qualità’ plastica (che abbiamo ritrovato in Corot, in Renoir, in Seurat, in Bonnard, in Van Gogh ; che Braque non ha mai smarrito ; che in Modigliani è divenuto scudo eroico, e febbre in Soutine ; che la pittura metafisica italiana ha cristallizzato altissimamente, e che era in Scipione e in Mafai) si deposita, come lanugine, su di un vecchio velluto celeste a fior di luce, la polvere di Morandi”.
4. In quel torno di anni, dopo aver esposto con Cassinari alla “Saletta” di Modena nel gennaio ’52, Scialoja scrisse un impegnativo saggio sulla sua pittura, Cassinari pittore metafisico, apparso su “Letteratura”, maggio-giugno 1953.
5. La corrispondenza fra Afro e Scialoja, in questi anni particolarmente intensa, è pubblicata, a mia cura, in Afro. L’itinerario astratto. Opere 1948 -1975, cat. della mostra, Lugano, galleria Matasci e Verona, galleria dello Scudo, a cura di L. Caramel, Milano, Mazzotta, 1989, pp. 149-165.
6. C. Efrati (Scialoja), Afro, in “Arti Visive”, II serie, n. 5, Roma, 1956, s.i.p.
7. L. Venturi, Toti Scialoja, in “Commentari”, VII, n.2, Roma, aprile-giugno 1956.
8. Tuttora in larga parte inedito, nonostante suoi stralci siano stati di frequente pubblicati su riviste e cataloghi di mostre, e una scelta di sue pagine siano state edite dagli Editori Riuniti nel 1991, il Giornale di pittura è un intenso diario intellettuale cui Scialoja affida, molto più che l’annotazione dello scorrere dei suoi giorni d’artista, la crescita del suo pensiero estetico, confrontandosi con le esperienze artistiche con cui entra di volta in volta in contatto, e analizzando la propria con sempre lucida, e sovente tormentata, acribia critica. Il Giornale è un dattiloscritto, conservato presso l’Archivio Scialoja, ordinato per anni, con numerazione progressiva delle pagine all’interno di ciascun anno. Al dattiloscritto si farà riferimento, tranne che per quei casi in cui la pubblicazione del brano citato ricorra nel volume menzionato degli Editori Riuniti (segnalandolo allora come Giornale…, 1991, cit.).
9. T. Scialoja, Tavole delle opere, in Toti Scialoja. Opere dal 1940 al 1991, cat. della mostra, a cura di Giovanna De Feo, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Edizioni della Cometa, 1991, p. 47.
10. G. Drudi, Tempo e immagine nella pittura di Toti Scialoja, in “Artistes”, Parigi, n.2, maggio 1984, s.i.p.
11. T. Scialoja, Tavole…, cit., p. 53.
12. T. Scialoja, Giornale …, cit., novembre 1957, p. 97.
13. T. Scialoja, Giornale …, cit., luglio 1957, p. 33.
14. T Scialoja, Giornale …, cit., ottobre 1957, p. (132)
15. Leoncillo, Piccolo diario, in Leoncillo, cat. della mostra a cura di G. Carandente, Spoleto, Chiostri di San Nicolò, Bologna, Edizioni Alfa, 1969, pp. 85-86.
16. Leoncillo, ibidem.
17. T. Scialoja, Giornale …, cit., luglio 1957, p. (40).
18. E. Paci, Tempo e relazione, Torino, Taylor Editori, 1954, pp. 136 ; per le successive citazioni vedi idem, pp. 138-141, 201, 209-211.
19. T. Scialoja, Giornale …, cit., luglio 1957, p. 44.
- 20. T. Scialoja, Giornale …, cit., ibidem.
21. T. Scialoja, Giornale …, 1991, cit., p. 161.
22. T. Scialoja, Giornale …, 1991, cit., p. 175.
23. T Scialoja, Giornale …,1991, cit., p. 169
24. T. Scialoja, Giornale …,1991, cit., p. 171.
25. T. Scialoja, Giornale … , 1991, cit., p. 172.