Cézanne alla Buhrle
Paul Cézanne
Con La tentation de Saint Antoine s’apre il percorso delle opere di Cézanne conservate nelle collezioni della Fondazione Bührle. Ed è, subito, un apice – insieme – di qualità e di rilievo storico, quello che si tocca con questo dipinto: da sempre, e segnatamente dagli anni Sessanta del XX secolo in avanti, considerato da un’amplissima esegesi come una delle tappe cruciali del pittore in transito dalla stagione d’esordio alla prima maturità. “Verso il 1870”: dopo alcune oscillazioni della sua possibile cronologia (anticipata talora sino al ’67), su questa data sembrano infine concordare tutti gli studi recenti. Ma se sulla temperatura formale della tela – tramata e quasi percossa da quel crudo e insieme allucinato approccio all’historia messa in figura che caratterizza la più gran parte dell’opera cézanniana allo scadere del settimo decennio – non possono sussistere dubbi, altra e più complessa è la trama dei significati che essa raccoglie: ad acclarare i quali è stato determinante lo scrutinio sulle fonti possibili cui il pittore s’è rivolto nel concepire la sua immagine. Questa, e identicamente altre gemelle, ad essa profondamente congeneri: fra le quali almeno sono da annoverare la Pastorale (Idylle) del Museo d’Orsay (“la versione secolarizzata della contemporanea Tentazione”1) e Le déjeuner sur l’herbe di raccolta privata (non senza però che altri dipinti possano essere a questi accostati: e fra essi almeno le Baigneuses, anch’esse di proprietà privata e di recente individuazione2, e la prima versione d’Une moderne Olympia, entrambe condotte con il medesimo ductus pittorico.
Parve, un tempo, Baudelaire colui che queste immagini aveva più profondamente nutrito: “Les œuvres de cette époque ne sont […] qu’œuvres de damnation, de révolte et de remords, n’offrent que sujets macabres, sanguinaires, orgiaques et sacrilèges où s’opposent les noirs et les blancs”: e a quest’indicazione, proposta nel lontano 1936 da Sterling e da altri3 , ci si dovrà forse ancora attenere per cogliere il senso precipuo del particolare ‘realismo’ di Cézanne a questa data: che è scandaglio implacabile calato nelle forme del naturale, ma insieme necessità di tradirne la semplice apparenza, cercandone la notte interiore. Al capo opposto, cronologicamente, di questa intuizione – dopo che la Tentation aveva sollecitato molte riflessioni e ipotesi – sta l’indagine di Mary Tompkins Lewis che, sulla scorta di un’analisi acuta, peraltro già da altri avviata e che muove dalle concrete possibilità di Cézanne di aver conosciuto una prima stesura de La Tentation de Saint Antoine di Flaubert e di aver sperimentato l’eco della rappresentazione parigina del Tannhäuser della primavera del ‘61, può concludere, riferendosi in particolare ai “four emotional subject paintings Le Festin, La tentation de Saint Antoine, the small Baigneuses, and L’Idylle”, che “the visionary narratives of Saint Anthony and the tragic hero Tannhäuser became mediums through which Cézanne could freely confront his own demons of loneliness and tormented love”4.
Baudelaire, tra l’altro, torna anche nella percezione che Cézanne poté avere del testo di Flaubert (che considera, ben più che la Bovary, “chambre secrète de son esprit”): quando, in particolare, egli sollecita il suo lettore ad ascoltare in esso “cette faculté souffrante, souterraine et revoltée, qui traverse toute l’œuvre”5. Che d’altronde ad un universo altro rispetto a quello dell’asse paradigmatico pittorico guardasse Cézanne in questi anni in cui culminava la sua anticanonica formazione – un universo nel quale certo sopra ogni cosa contò l’amicizia fraterna con Zola, nata sui banchi del liceo di Aix e rinsaldata dalle fughe con lui compiute verso i boschi silenziosi della Sainte-Victoire – è fatto indubitabile. Bastano a confermarlo i limiti entro i quali (a proposito, quasi, d’ogni opera del decennio d’avvio, con la sola eccezione, forse, de Le festin) va trattenuta l’ipotesi d’una decisiva ripresa, da parte di Cézanne, di ipotetici modelli, sia iconografici che formali.
E anche per quanto riguarda La tentation de Saint Antoine: sulla quale sono state esaustivamente sondate tutte le possibili fonti (da Tintoretto a El Greco, da Annibale a Zurbaran e Valdes-Leal, o diversamente da Courbet e da Delacroix, per non dire della messe di rappresentazioni pittoriche del tema, d’ambito sia accademico che romantico, che accompagnarono l’insorgere di una nuova fortuna dei soggetti d’argomento religioso in Francia attorno alla metà del secolo6), senza giungere ad individuare, per essa, un prototipo ultimativamente convincente (e senza che nemmeno l’ipotesi di Reff, di una contaminazione del tema cristiano della Tentazione con quello pagano del Giudizio di Paride, pur seducente, appaia scevra di problemi: anche in base alla rilettura, operata da Schapiro, dell’iconografia del più tardo, e oggi perduto, dipinto cézanniano già noto, appunto, come Il giudizio di Paride7.
Un’ultima lettura sui significati reconditi della Tentation è quella di Mary Louise Krumrine, che delle molte precedenti analisi fa tesoro e insieme rispetto ad esse ulteriormente procede nel riconoscere quell’immagine come paradigmatica della “crainte de l’érotisme” di Cézanne8. Per la studiosa, la figura all’estrema destra del dipinto è figura androgina che, più che soltanto alludere ad una doppia anima di Cézanne stesso – tentato, a sinistra, dalla seduttrice : e disinteressato alle lusinghe del sesso nella attitudine pensosa e malinconica che assume a destra – rappresenterebbe Zola (del quale un giovanile ritratto, d’attuale ubicazione sconosciuta, di Cézanne mostra lineamenti non dissimili da quelli della figura assisa melanconicamente accanto al fuoco). O meglio: raffigurerebbe quella straordinaria fusione della personalità dei due amici che è riconosciuta dalla Krumrine anche in altri dipinti cézanniani di questi anni, in particolare nella Lecture chez Zola, ove appunto il personaggio usualmente identificato con Zola potrebbe in realtà essersi appropriato di alcuni dei tratti somatici tipici di Cézanne9. Comunque, “la peur et l’ennui éprouvés devant le corps de la femme” sono per la Krumrine il vero soggetto della raffigurazione: paura e noia di un Cézanne disposto a raffigurarsi nelle fattezze ambiguamente androgine del personaggio assiso pur di dar figura, con esso, al sogno di fratellanza che Zola, nel ’66, aveva sognato per loro: “Tu es toute ma jeunesse: je te retrouve mélé à chacune de mes joies, à chacune de mes souffrances. Nos esprits, dans leur fraternité, se sont developpés côte à côte […] parce que nous avons pénétré nos coeurs et nos chairs”10. Meno chiaramente risolta dalla studiosa, infine, è a mio avviso la circostanza del contemporaneo, nascente legame di Cézanne con Hortense, le cui fattezze sarebbero da riconoscersi nella figura in piedi al centro della composizione: circostanza però che, a meno di non scorgere il rapporto con Hortense segnato fin dai suoi albori da una sorta di dolorosa incomunicabilità, parrebbe contraddire il tono complessivo della lettura della Krumrine.
Le numerose e complesse interpretazioni che l’iconografia de La tentation de Saint Antoine ha suscitato trovano ragione, sì, nella complessità del tema raffigurato, ma più ancora si giustificano con la nitida percezione che gli studi hanno avuto del rilievo che questo dipinto non grande, né ricco di facili seduzioni, riveste nel registro dei tempi dell’operosità cézanniana (non senza, però, che l’indagine iconografica, ricca di risvolti tesi ad illustrare la vicenda intellettuale ed emotiva del giovane Cézanne, abbia in qualche modo accantonato, o fatto secondo, il riconoscimento del particolarissimo portato formale dell’opera, e più in generale del singolare complesso di dipinti ascrivibili allo scadere degli anni Sessanta11). Spartiacque fra due mondi, La tentation de Saint Antoine si pone, apparentemente, come ultimo baluardo d’una pittura – “couillarde”, definì più tardi Cézanne stesso le sue prove eseguite “au couteau” attorno al ‘66-’67 – confinata agli anni della formazione; in realtà, molto in esso preannuncia il Cézanne maturo, e fin tardo ed estremo. Non solo e non tanto dal mero punto di vista dello svolgimento di alcuni temi, cadenze, occasioni figurali (è da sempre riconosciuta, ad esempio, la capacità che il nudo accovacciato della donna in primo piano ha di preannunciare pose e attitudini di molte future bagnanti): ma, più in profondo, relativamente al modo stesso di concepire la pittura che fu di Cézanne: ivi compresa la delega immensa che ad essa il pittore continuò a fare sino alla fine.
Nella Tentazione è già radicalmente asserito il duplice e confliggente bisogno di confrontarsi con la tradizione, ed eluderla. Al di là delle solo eventuali riprese (s’è visto, d’altronde, quanto ipotetiche) di questa o quella iconografia, la struttura stessa del comporre – sia nell’episodio della vera e propria tentazione relegato sul fondo, con il bilanciato divaricare dei due corpi, sia nella ‘figura’ piramidale che i tre nudi designano sul primo piano – ripete sintassi costruttive di secolare memoria. Nel contempo, non può però sfuggire il bruciante atto di sottrazione, quasi di consapevole impoverimento, che Cézanne compie rispetto a qualunque tradizione: da un canto privando i suoi personaggi d’ogni aulicità, d’ogni decoro, persino d’ogni orpello di quella grazia insita nelle necessità della narrazione; d’altro canto radicandoli al suolo come ‘oggetti’ indimenticabili, affidando alla loro corporeità greve, inamena, la loro ultima ragione d’essere al mondo: cementati nello spazio della pagina pittorica senza alcuna sapienza d’artificio prospettico12, e invece con quel senso d’eternità che ad essi discende dalla loro natura di corpi estratti a forza dalle strette maglie della realtà.
Estraneità, dunque, rispetto ad un passato, ad un asse paradigmatico illustre, che avrebbe potuto redimerlo. Ma, del pari e di più, estraneità nei confronti di quei giovani ‘parigini’ che già a quella data egli aveva titolo per chiamare e percepire come compagni di strada. E, nella Tentazione, è già intero quel bisogno di silenzio, di appartatezza, di solitudine che apparterrà sempre a Cézanne, e che gli sarà, nel tempo a venire e vieppiù dopo la breve parentesi di Pontoise ed Auvers, irrinunciabile. Proprio per l’immensità dell’affidamento da lui fatta alla pittura: luogo non solo – come molte, troppe volte ci si è acconciati a credere, sulla scorta d’una sua celebre frase – atto a dar figura, soltanto, alla sua “petite sensation”: ma luogo di confessione, di ricerca acuminata, ansiosa, e tanto spesso sofferta, di verità.
Al di là dell’evidente metafora della doppiezza del proprio animo – di sessuofobo e di licenzioso, di filosofo e di squilibrato, di testimone e di attore –, al di là delle simbologie d’amore copiosamente disseminate nell’historia, e al di là del disinteresse a dare alle sue maschere (tragicomiche, sovente) una plausibilità narrativa, nel gruppo d’opere condotte fra ’69 e ’70 Cézanne trova già se stesso: scopre l’asciutta essenzialità di una parola che fugge sempre la ridondanza (La pendule noire, opera paradigmatica in tal senso, nasce negli stessi mesi); e la grazia negata ad ogni suo personaggio, che cerca tutt’altro; la irrecusabile pesantezza, infine, d’ogni figura – sia essa figura di donna, d’albero, di nuvola – che s’ancora alla superficie, ed entra in conflitto con essa, allargandosi attorno uno spazio che altro non è se non una porzione di spazio atto a contenere il breve respiro dell’esistere; che non è, non sa essere, non vuol essere una spazialità allargata, tradizionalmente e sapientemente prospettica.
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“Hortense Fiquet n’a partecipé à la vie de son mari qu’en supportant les longues poses, sans bouger et sans parler, qu’il lui infligeait. Cézanne n’a presque jamais peint d’autres femmes qu’elle, et, étant donné le grand nombre de portraits qu’il a fait de sa femme, on s’imagine facilment le grand sacrifice qu’elle lui faisait, elle, qui était très vive et qui aimait beaucoup bavarder. Quand elle essayait parfois de prendre part aux discussions sur l’art entre Cézanne et ses amis, son mari lui disait d’une voix douce, mais pleine de reproche: ‘Hortense, tais-toi, mon amie, tu ne dis que des bêtises’”13. Per quanto risalga al 1936 (anno magico per gli studi su Cézanne, nel trentesimo anniversario della morte), la ricostruzione fatta allora da Rewald della natura dei rapporti fra Paul e Hortense non ha avuto bisogno di molte revisioni; meglio, le ha sopportate senza che sulla loro per qualche verso ancora misteriosa unione sia caduto troppo pesantemente il maglio di un’acribia interpretativa non sempre rivelatrice14.
Davanti a molti dei ritratti della moglie, si verifica, all’opposto, la profonda verità poetica della parola semplice di Jacques Rivière: “dans tous les portraits de Madame Cézanne je lis l’ineffable confiance de la lassitude”15 [“in tutti i ritratti di Madame Cézanne vedo l’ineffabile sicurezza della lassitudine”]. A tutti, ma in particolare a questo Madame Cézanne à l’éventail che apre, splendidamente, la teoria eccelsa di ritratti presenti nella collezione Bührle, le parole di Rivière sembrano saper scendere sino al cuore, scavandone l’anima; e, diverse ed eguali, le si stringono quelle lontane del Rewald. Percepiamo così, dinnanzi a questo volto che è assieme mite, buono e infinitamente distante, lentamente opalescente entro i toni ombrosi e quasi annottati, bluastri e porpora che lo circondano, un’intensità di vita slontanata, fatta remota dal tempo. Percepiamo il tempo lungo della posa; e quello, ancor più lungo, della devozione della donna a colui che la ritrae. E percepiamo, in quel suo singolare aspetto di maschera immutabile sovrammessa a un corpo vivente, un’esistenza che pulsa; e, accanto ad essa, la rinuncia ad asserirla.
Il catalogo recente di Rewald ne sonda ciascuno degli aspetti, problematici, della possibile datazione: oscillante sino ad ora fra ’77 e ’80, o un poco oltre: fra il tempo in cui a Parigi la famiglia Cézanne occupava un appartamento al 67 di rue de l’Ouest all’anno di Melun (dall’aprile ’79 sino all’aprile dell’80, quando Cézanne è nuovamente a Parigi, allogato al numero 32 della medesima rue de l’Ouest). Determinante per la collocazione cronologica del dipinto è sembrata a lungo la testimonianza resa dal piccolo Paul Cézanne, a quel tempo però non più che un fanciullo (era nato nel ’72), che ricordava il decoro parietale a fiorami bluastri come appartenente al primo appartamento parigino; decoro che s’incontra identico in un solo altro ritratto, quello di Louis Guillaume, oltre che in una decina di nature morte. Stilisticamente, però, il dipinto della collezione Bührle appare più avanzato del Louis Guillaume. E ancora “the sharply drawn oval line leading from her [Madame Cézanne’s] ear seems to accentuate the masklike appearance and also divides the pinkish bluish area from the yellowish neck, as though the two did not belong together. Moreover, the hand resting in the lap looks almost as though it had been painted without the guidance of a model”. Così che il Catalogue raisonné può, per la prima volta, plausibilmente proporre una doppia esecuzione per il dipinto, che sarebbe stato iniziato nel ’78 e ripreso fra ’86 e ’88: non senza che il Rewald possa concludere il suo ragionare con la considerazione, esattissima, che “the date of execution does not affect its grave beauty, the intensity of its somber colors framed by the purple of the chair, or its solemn grandeur. This is a masterpiece”16.
Il maggiore per dimensioni fra gli autoritratti, e l’unico che raffiguri il pittore quasi a figura intera, è questo Cézanne à la palette: anch’esso avanzato dal Catalogue raisonné sino ad un “circa 1890” per qualche verso sorprendente, a considerare le opinioni di Venturi (1885-’87; poi 1883-’85), condivise anche, tra l’altro, dalla retrospettiva parigina del 1995-’96, ove il dipinto – non esposto – figurava riprodotto in catalogo con la data 1885-’87. Il dipinto, in effetti, non mostra alcuna di quelle fratture dell’unità spaziale dell’ambiente che circonda la figura che saranno, a partire dall’89-’90 appunto, quasi normative (per la verità a muovere dalle nature morte, prima che il medesimo non avvenga nei dipinti di figura). D’altronde, che la grande tela sia almeno in parte anomala nel percorso di Cézanne, tutto – a cominciare dall’iconografia, sino alla per una volta nitidamente asserita consapevolezza di sé – sta a suggerirlo.
Il fondo, libero dunque di determinazioni complessamente prospettiche che indichino una molteplicità di sguardi possibili sul dipinto, è invaso da una luce piena e netta che, proveniente dal fondo, ribalta verso il riguardante la figura saldissima di Cézanne: ancorata al piano della pittura, diresti, soltanto dalla paratia del cavalletto e della tela che vi s’appoggia. Entro il breve spazio intercorrente fra quella tela che arretra e il fondo che pulsa in avanti, s’accampa la figura nera e azzurra del pittore: quasi in lotta per assicurare alla sua massiccia presenza lo spazio altrimenti negatogli. L’occhio destro è il fuoco, l’unico – e quasi allarmante – della composizione. Radicata da quello sguardo alla sua consistenza di cosa, la figura – già in traccia, ormai, d’una semplificazione delle sue forme che cerca la geometria – si fa oggetto pesante che si posa nel mondo, e vuole ascolto. “Nous voyons la profondeur, le velouté, la mollesse, la dureté des objets – Cézanne disait même: leur odeur” [“Noi vediamo la profondità, il velluto, la morbidezza, la durezza degli oggetti – Cézanne dice perfino: il loro odore”]; nella convinzione che “peindre un visage ‘comme un objet’, ce n’est pas le dépouiller de sa ‘pensée’” [“dipingere un volto ‘come un oggetto’, non vuol dire privarlo del suo ‘pensiero’”]. E, usando ancora l’intuizione di Merleau-Ponty, ecco che questo volto – che viene al mondo con tutta la sua gravità di pensiero, con tutto il suo pesante carico di moralità – ci restituisce, limpida, “l’impression d’un ordre naissant, d’un objet en train d’apparaître, en train de s’agglomérer sous nos yeux”17 [“l’impressione di un ordine nascente, d’un oggetto che sta comparendo, che sta coagulandosi sotto i nostri occhi”].
L’irruzione improvvisa dell’incanto della giovinezza – adesso che Cézanne è prossimo ai cinquant’anni, e certo l’avverte lontana –, assieme al ‘lusso’ di consentirsi un modello al di fuori del nucleo familiare, sta al fondo d’una piccola serie di dipinti, quattro, che segnano, più che una tappa, una pausa o un’eccezione nel suo tragitto di ricerca. Da sempre giudicate uno dei vertici della sua ritrattistica (“Ces toiles comptent parmi les chefs-d’œuvre incontestés de l’artiste”, annotava di recente Joseph Rishel18), anche alle quattro tele raffiguranti Le garçons au gilet rouge è toccata una datazione oscillante fra l’ultimo e il penultimo decennio del secolo (da una parte Venturi, che ne avanzò in ultima istanza la cronologia sino al ’95; e, d’altra parte, Gowing e, adesso, Rewald): dubbi infine risolti dall’elemento decorativo della banda rosso bruna, e del sottostante stipite bianco, presenti in almeno due dei quattro ritratti, e riconducibili ad un appartamento occupato da Cézanne fra ’88 e ’90 al quai d’Anjou, sull’Île Saint-Louis a Parigi19.
Pausa, o parentesi, s’è detto: perché, nel ritrarre il giovane italiano Michelangelo di Rosa, Cézanne scopre una voglia non a lui usuale di variare la posa del modello, e assieme di cogliere in esso tratti diversi del carattere. Dall’innocenza alla grazia, dalla malinconia alla noia, sino all’improbabile depressione che Schapiro volle riconoscere come specchiata da Cézanne stesso sull’occasionale modello20, una molteplicità di inclinazioni dell’animo sembra trovar figura nei quattro dipinti: debitori fors’anche di suggestioni diverse (si son nominati, quali fonti possibili, Pontormo, Rosso, Delacroix…), ma certo soprattutto luoghi privilegiati, quantomeno nella ritrattistica, del pensiero cézanniano che la forma sarebbe discesa autonomamente, quasi fatalmente, dal colore: “quand la couleur est à sa richesse, la forme est à sa plénitude”. Il dipinto Bührle è, fra tutti, probabilmente il più cromaticamente variato (giocandovi infatti, rispetto ad esempio all’esemplare di New York, un ruolo di primo piano la vasta gamma dei verdi e degli azzurri d’acqua), e certo il meno vincolato a memorie da dir ‘classiche’ nella posa imposta al giovane modello. Forse, ancora, l’ultimo del piccolo gruppo. Del quale è possibile Cézanne si sia assai più tardi ricordato, nel comporre, con tanta maggior castigatezza, la posa de Le jenne homme à la tête de mort della Fondazione Barnes.
Giardiniere, ma poi tuttofare a Lauves – ove Cézanne s’era ritirato dopo aver venduto il Jas de Bouffan – e, all’occorrenza, anche infermiere: Vallier era un vecchio, come vecchio era, o sentiva d’essere, Cézanne, che per lui ebbe un trasporto tale da farne, gli ultimi anni, il suo unico modello. “Je suis dans la ville de mon enfance, et c’est dans le regard de gens de mon âge que je revois le passé. J’aime sur toutes choses l’aspect des gens qui ont vieilli sans faire violence aux usages, en se laissant aller aux lois du temp”21: ecco cos’era, per lui, Vallier: del quale, quando il vecchio era assente alla prevista seduta di posa, Cézanne – forse – non si peritava di vestire i poveri abiti, sostituendosi così egli stesso al suo modello: “un étrange échange ainsi, une substitution mistique, et peut-être volue” si sarebbe allora realizzata, ipotizzava Gasquet, fra i due vecchi; nati entrambi, in un’altra epoca, sotto il cielo di Aix22.
Dicendo d’uno di questi ritratti, oggi in collezione privata inglese, Venturi scrisse, consentendo in fondo con il ‘paradosso’ di Gasquet, che “l’immagine del vecchio giardiniere, fermo e solenne […] rivela la personalità di Cèzanne negli ultimi momenti della vita meglio di un autoritratto”. “Chi ama Michelangelo nella Pietà Rondanini più che nel Davide, chi ama Tiziano nel S. Sebastiano di Leningrado più che in quello di Brescia” – o, potremmo aggiungere, chi ama Giacometti più nel silenzio ottuso e chiuso in sé di Lotar che nell’enigma de La cage – “deve sentire l’incomparabile grandezza di questa tra le opere di Cézanne”. Ancora Venturi diceva, a proposito del ritratto di collezione inglese, che “l’uso sempre più frequente dell’acquarello influisce anche quest’opera, malgrado lo spessore della pasta cromatica, che ricorda addirittura le opere del primo periodo”: poiché, nonostante quella gravità di pasta, “la figura è luminosa come se avesse una luce interiore”23. Intuizione che Rewald ha, nel 1978, così precisato: “reste à savoir si les autres représentations du jardinier n’avaient pas été égalment commencées sur des gammes plus claires pour s’assombrir au fur et à mesure que l’artiste s’acharnait sur elles”24: a distanza di tanti anni, i due studiosi individuano dunque un’analoga ricerca di luce dietro tutti i ritratti di Vallier, apparentemente condotti secondo diversissime intenzioni di forma.
La tela Bührle è ritenuta, nel catalogo della Fondazione del 197325, l’ultima opera di Cézanne, e incompiuta: quella cui il pittore era intento quando il mattino del 16 ottobre del 1906 egli tornò al lavoro dopo il malore del giorno innanzi, patendo la ricaduta che in meno d’una settimana lo condurrà alla morte. Di quest’opinione (che sembrerebbe non del tutto implausibile, visto il grado di solo parziale finitezza che concerne la barba e il cappello del giardiniere, anche se non appoggiata ad alcuna tradizione critica) non tengono conto però né Rewald né Françoise Cachin, che indicano come probabile alternativa la tela, molto simile a quella Bührle, della Tate, o piuttosto – “according to tradition” – il ritratto di profilo di raccolta privata inglese26.
Giocata più sul rapporto dell’uomo con lo spazio che lo circonda, attenta a preservare intatti quei rapporti di tono che Cézanne inseguiva gli ultimi anni con caparbia e quasi esclusiva volontà, e meno concentrata – per converso – sulla figura del vecchio, l’opera Bührle è meno carica di dramma, meno gravata di quel silenzio incombente che si stringe addosso al busto tagliato a mezzo, al volto di Vallier segnato dal tempo: dunque è meno atta a caricarsi di quei valori anche simbolici che il lavoro estremo d’una vita può ambire a interpretare. Di fatto, essa è – al pari di tutti gli ultimi ritratti di Vallier, compresi ovviamente quelli intitolati talora Marin – uno dei capolavori ultimi di un’esistenza fatta immensa proprio dalla ricerca inesausta di valori di forma non confliggenti con quelli della natura.
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Dopo la prima datazione proposta da Venturi nella seconda metà degli anni Ottanta (poi avanzata fino al 1900 circa), nel Catalogue raisonné Rewald accoglie alcune ipotesi ulteriori (Gowing, Cooper) e colloca Le mont de Cengle al traguardo ultimo dell’operosità di Cézanne (1904-6)27. S’attaglia, in particolare, anche a questo dipinto un commento di Stokes a proposito d’uno dei più quieti e luminosi fra i dipinti di Château-Noir, anch’esso databile attorno al 1904: “Dans ces derniéres tableaux, la mosaïque est plus atténuée; cependant il y a moins de souci pour les volumes pris en eux-mêmes que pour leur interdépandance; l’esprit en est plus tumultueux sans tutefois perdre le calme et souvent un certain ton emphatique. Mais nous devons nous rappeler que dans leur vieillesse les grands peintres reviennent souvent à leur style primitif, perfectionné par l’expérience des ans”28.
Come e più che in quel dipinto, sono frequenti ne Le mont de Cengle le zone della tela lasciata vergine; procedimento che, come è ormai noto, non implica di per sé un grado di incompiutezza dell’opera, ma sottolinea invece la cautela estrema del Cézanne tardo ed estremo nel disporre i propri tocchi di colore, ciascuno dei quali doveva rispondere ad una necessità avvertita dal pittore come imperiosa ed assoluta, senza rompere quell’equilibrio fra i toni che il concerto degli altri era venuto determinando nel campo della tela. “Interrompue”, dunque, meglio che “inachevée”, l’opera su cui Cézanne sceglie, ad un certo punto, di sospendere il lavoro.
Più singolare, nel dipinto Bührle, la compresenza di due attitudini all’apparenza fra loro conflittuali: quella, appunto, che motiva le sorvegliatissime e calcolate ‘lacune’ della pasta cromatica, e quella che induce una certa foga nel disporre, l’una a fianco dell’altra (ma, qui, anche con sovrapposizioni particolarmente frequenti), le zone del colore. Foga che sembra nel nostro dipinto crescere dalla zona inferiore e centrale a quella sovrastante del cielo.
Al solito, le piccole costruzioni che punteggiano la valle (sovente, ma forse non del tutto plausibilmente visto il compito di chiarificazione spaziale che infine esse s’assumono, definite “pre-cubiste” da molta parte della più recente esegesi cézanniana) costituiscono i luoghi di riposo dell’occhio nella percezione del paesaggio: quasi punti di ancoraggio necessari, nell’evidente rinuncia ad ogni indicazione prospettica, a consentire un’ultima plausibilità dello sguardo su quello spazio che asserisce la superficie come unico luogo della pittura, ma nel contempo si fa concavo ad accogliere l’emozione. L’iconografia, per una volta in questi anni, non è quella della Sainte-Victoire: ma medesima, rispetto alle coeve e più celebrate rappresentazioni della montagna, è la scelta formale e, infine, la temperatura dell’immagine29: che lascia trapelare la pensosa prudenza, quasi la castità del processo pittorico, molto lontano, ad esempio, da certi assalti emozionalmente accesi condotti alle rocce di Bibemus o di Château-Noir sullo scadere degli anni Novanta, nei quali un segno profondamente inciso e talora violentemente asserito traversava sovente i campi del colore.
Alcune piccole costruzioni scandiscono anche l’altro paesaggio Bührle, giocandovi in qualche misura un ruolo di analoga normalizzazione spaziale. Certamente questo Paysage, collocato già da Venturi a cavallo fra ottavo e nono decennio (una congiuntura temporale confermata dal Catalogue raisonné, che lo data “circa 1879”30), è un’opera meno interamente felice dell’altra: resta, ciò nonostante, di grande interesse proprio per la capacità che ha di annunziare, con tanto anticipo, alcune sintassi visive che saranno proprie di Cézanne solo molto più tardi.
Fatto non frequente, non è stata determinata con ultima esattezza la località raffigurata: il che toglie certezza anche alla sua collocazione cronologica. Rewald argomenta brevemente che se il dipinto raffigura un paesaggio provenzale, esso deve essere stato dipinto prima del marzo 1879, tempo nel quale Cézanne torna brevemente a Parigi (prendendo proprio allora la decisione di rinunziare alla partecipazione alla quarta mostra impressionista, vista la sua perseverante intenzione di inviare alla giuria del Salon, e la recente determinazione del gruppo – singolarmente sollecitata da Degas31 – di non consentire più l’ammissione a coloro che si sottopongano al verdetto dell’ufficialità), mentre se raffigura un paesaggio del settentrione il dipinto si collocherebbe nella seconda metà dell’anno, quando il pittore soggiorna a Melun. Il paesaggio Bührle, in realtà, a parte l’impossibilità di individuarne con certezza il soggetto e il luogo, è di non agevole datazione: potendoglisi plausibilmente avvicinare opere quali La maison abandonnée – che gli si apparenta per quel modo accelerato e franto, tutt’altro che analitico, che ha nel rappresentare la verzura e le fronde degli alberi – datata oggi, in via d’ipotesi, al ‘78-’79, ma che Venturi collocava negli anni Novanta; o il Paysage en Provence ascritto senza ulteriori precisioni al ‘79-’82, anch’esso affannato e veloce nella stesura della vegetazione32.
note
1. M. G. Messina, La tentazione di S. Antonio: analisi di un tema chiave nell’opera del primo Cézanne, in Cézanne e le avanguardie, a cura di N. Ponente, Roma, Officina Edizioni, 1981, p. 27.
2. M. Tompkins Lewis, Cézanne’s Early Imagery, Berkeley, University of California Press, 1989, plate XIII.
3. M. Florisoone, Paul Cèzanne, la secrète et dramatique montée vers le divin, “Le Correspondant”, 10 agosto 1936; C. Sterling, Cézanne et les maîtres d’autrefois, “La Renaissance”, maggio-giugno 1936. Citati entrambi in G. Tinterow, Catalogue, in Impressionisme. Les origines 1859-1869, Paris, Édition de la Réunion des musées nationaux, 1994, p. 351.
4. M. Tompkins Lewis, cit., p. 195.
5. C. Baudelaire, Madame Bovary par Gustave Flabert, in Œuvres Complètes, Paris, Éditions Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1961, p. 657.
6. Cfr. in particolare T. Reff, Cézanne, Flaubert, St. Anthony, and the Queen of Sheba, “The Art Bulletin”, june 1962, pp. 117-118; e M. G. Messina, cit., pp. 26-27.
7. M. Shapiro, The Apples of Cézanne: An Essay on the Meaning of Still-Life, [1968], ed. it. cons. L’arte moderna, Torino, Giulio Einaudi editore, 1986, pp. 3-46.
8. M. L. Krumrine, Les ècrivains parisiens et l’œuvre de jeunesse de Cézanne, in Cézanne. Les années de jeunesse. 1859-1872, Paris, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 1988, p. 39.
La posizione della studiosa è sostanzialmente condivisa da L. Gowing, L’œuvre de jeunesse de Paul Cézanne, ibidem, pp. 17- 30.
9. M. L. Krumrine, cit., p. 41, nota 30.
10. É. Zola, Mon Salon, Paris, 1866, cons. in Paul Cézanne. Correspondance, a cura di J. Rewald, Paris, Éditions Grasset et Fasquelle, 1978, pp. 116-118.
11. A correzione di taluni sbilanciamenti in chiave accentuatamente psicanalitica di parte della più recente esegesi sugli anni giovanili di Cézanne consulta l’equilibrato scritto di G. Giuffrè, Cézanne, gli anni settanta. Anticipazioni e traguardi, in L’impressionismo e l’età di Van Gogh, a cura di M. Goldin, Conegliano, Linea d’ombra Libri, 2002, in particolare p. 57.
12. Tale ricercata rinunzia di Cézanne è stata, singolarmente e a lungo, ascritta a incapacità o insipienza, così che ne risultava un giudizio fortemente negativo su tutta l’opera giovanile; cfr. ad esempio B. Dorival, Cézanne, Paris, Édition Pierre Tisné, 1948 (in particolare, p. 28: “la grande faiblesse de Cézanne, alors, c’est de ne pas savoir construire son espace, échelonner ses plans: faiblesse d’autant plus criante qu’insensible aux valeurs d’atmosphère…”).
13. J. Rewald, Cézanne et Zola, Paris, Édition A. Sedrowski, 1936, p. 99.
14. Vedi ad esempio, per una visione assai più riduttiva della figura di Hortense Fiquet, J. J. Rishel , Catalogue, in Cézanne, Paris, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 1995, p. 318.
15. J. Rivière, Cézanne, in “La Nouvelle Revue Française”, n. 15, 1° marzo 1910; cons. in Étude: l’œuvre critique de Jacques Rivière à la Nouvelle Revue Française 1909-1924, édition renouvelée, Paris, Éditions Gallimard, 1999, p. 128.
16. J. Rewald, with Walter Feilchenfeldt and Jayne Warman, The Paintings of Paul Cézanne. A Catalogue Raisonné, New York, Harry N. Abrams, Inc., Publishers, 1996, vol. 1, n. 606, p. 403.
17. M. Merleau-Ponty, Le doute de Cézanne [1948], cons. in Cézanne dans les musées nationaux, a cura di H. Adhémar e M. Séullaz, Paris, Éditions des musées nationaux, 1974, pp. 12-13 (la traduzione è di Enzo Paci, in M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1962).
18. J. J. Rishel, 1995, cit., p. 322.
19. J. Rewald, 1996, cit., vol. 1, nn. 656-659, pp. 423-427.
20. Schapiro (Paul Cézanne, New York, Harry N. Abrams, 1952, p. 92) ipotizza ne “the languid posture of the model and [his] close envelopment by heavy sloping drapes […] the mood of depressed reverie”: del che Rewald (1996, cit. vol. 1, p. 426) mostra, più che ragionevolmente, di dubitare.
21. Citato da F. Cachin, Catalogue, in Cézanne, Paris, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 1995, p. 512.
22. Ma l’ipotesi di Gasquet è ritenuta “highly improbable” da Rewald (1996, cit., vol. 1, p. 557)
23. L. Venturi, Cézanne, [II], “L’Arte”, settembre 1935, pp. 407-408
24. J. Rewald, Catalogue, in Cézanne. Les dernières années (1895-1906), Paris, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 1978, p. 92.
25. L. Reidemeister, in Stiftung Sammlung Emil G. Bührle, Zürich und München, Artemis , 1973 (ed. cons. 1986, p. 152).
26. J. Rewald, ibidem; F. Cachin, 1995, cit., pp. 512-515.
27. J. Rewald, 1996, cit., vol. 1, n. 928, pp. 544-545.
28. Citato in Rewald, 1978, cit., p. 150; il dipinto è il n. del catalogo ragionato del 1996.
29. Constatazione, tra l’altro, che può forse generare qualche sospetto sulla lettura fortemente simbolica del tema della Sainte-Victoire proposta recentemente da Michel Hoog (L’Œuvre, in Sainte-Victoire. Cézanne. 1990, Aix-en-Provence, Musée Granet; Paris, Éditions de la Réunion des musées nationaux; Paris, Spadem, Adagp, 1990, pp. 197-207).
30. J. Rewald, 1996, cit., vol. 1, n. 412, p. 273.
31. Cfr. R. Pickvance, Contemporary Popularity and Posthumous Neglect, in The New Painting. Impressionism 1874-1886, a cura di C. Moffet, with R. Berson, Geneva, Switzerland, Richard Burton SA, Publishers, 1986, pp. 243-265.
32. J. Rewald, 1996, cit., vol. 1, nn. 351 e 440.