Ernesto Porcari : il segno, la figura, la parola
Ernesto Porcari : il segno, la figura, la parola
a Gabriella Drudi
La scultura di Ernesto Porcari nasce, senza battesimi e lontana da ogni ecclesia, nutrendo nel suo cuore l’aporia.
La materia, da una parte, che la costituisce : non mai ridotta a mera occasione, a transito indifferente, e sempre assunta – invece – a luogo perspicuo donde far sgorgare, dialetticamente, il primo pensiero di forma ; dall’altra, l’ansia di superarla, quella materia ove la forma nasce, dimenticandone il peso e l’ingombro, traforandola di luce e di vento.
Ancora : da un canto la natura irrevocabilmente astratta del linguaggio, e il disincanto suo, da sempre connaturato, verso qualsiasi comunicazione che presupponga un messaggio ; dall’altro il gemmare così frequente di questa scultura ‘accanto’ a una figura, a una parola, a un sogno cui si possa dar nome.
Un primo corollario, allora : Porcari è uno scultore che non ha spavento dell’impurità in cui potrà incorrere ; che sa quanto l’approdo del rigore gli sarà arduo. Che forse, di quell’approdo, non si cura. E un secondo : senza famiglie nobilitanti che ne garantiscano la via nel mondo, questa scultura rischia, a ogni passo, la solitudine della ricerca.
Non so neppur bene se ne saprò dire il perché : ma ogni volta che, in questi ultimissimi anni, ho guardato questa scultura, ho ripensato a Gabriella Drudi. Sempre pensando che anche lei l’avrebbe amata ; e desiderando che avesse potuto conoscerla ; e sapendo che ne avrebbe scritto come nessun altro. Che avrebbe amato quel suo nascere – contratta, come in agguato – da un segno, da un minimo segno costruttivo, che non confessa altro che la propria ansia di venire al mondo. Un segno che si ripete in poco spazio, e poi di lì si slancia a catturare una dimensione grande, che somiglia un poco a quella del corpo, di un corpo allungato nello spazio, teso per tutto lo spazio che gli serve a dirsi intero. Un segno che scrive, ossessivo, introflesso, e che però già spera di parlare ad un altro.
Gabriella, credo, avrebbe guardato a questa scultura, e ne avrebbe inteso le radici (ma ontologiche, non solo e non tanto formali) affondate in quel surrealismo astratto che segnò la ricerca newyorkese subito appresso alla guerra, e subito prima che tuonasse l’action painting. Un surrealismo stanco delle accademie dell’inconscio del suo ceppo europeo, ma che non aveva smesso di pensare ad una ‘figura’ (sgorgata non dal caso, ma da una fonda, individuale fatalità) che stesse annidata al cuore della forma. E Gabriella, come oggi più nessuno, avrebbe inteso cosa significhi per Porcari il segno, e poi la figura, e la sua parola : il nominare quella figura, e quel far scorrere la sua ‘parola’ accanto, quasi addosso alla scultura che nasce, come carezzandola ; senza che l’idea (il suo raggelato, per sempre statuito concetto) la bloccasse una volta per sempre in una forma che spera l’eternità ; senza che ci fosse, per questa scultura, un approdo d’immagine troppo tautologicamente vincolato da quella figura.
Negli anni, Velante, Bucintoro, Pelle d’asino, Albero, Elica, La lettera E … : figure al limite, tutte, di una vita riconoscibile. Ma che tutte, giunte a un passo soltanto dal dirsi fatte di carne e sangue, s’arrestano infine dubbiose, fanno un inchino, e con sorriso volano altrove. In un luogo ove saranno soltanto, licinianamente, figure abbandonate e vaganti nello spazio, dallo spazio soltanto create alla vita incerta che vivono : in bilico fra apparizione ed eclissi, fra equilibrio e crollo, fra verità e illusione. Come amalussante stanche eppur sorridenti, allora ; come orgogliosi angeli ribelli, le vele lievi e i cerchi imperfetti di Porcari, le sagome alluse e lasciate a mezzo, le sue figure interdette solcano l’aria avventurose, tramandola di sogni senza plausibilità, senza costrutto. Segni, ancora e sempre, sono : ma segni che si dànno ora non più sul piano – su quella materia ove nacquero e che hanno infine saputo dimenticare – bensì in uno spazio che, senza essere da loro fisicamente saturato, ne ripercuote l’eco gioiosa, in riverberi ogni volta riaccesi dall’ambiguità di cui si ammantano.