La seconda stagione della scultura di Antonietta Raphaël

alla memoria di Valentino Martinelli

 

 

La seconda stagione della scultura di Antonietta Raphaël

 

Per Raphaël, il dopoguerra non fu quella stagione felice che la fine di una lunga notte d’ansia – per lei, ebrea, ancor più gravida di minacce – avrebbe potuto significare. Paradossalmente, anzi, gli anni che vennero furono per Antonietta forse i più tormentati di una vita mai facile. Nel settembre del ’43 era tornata a Roma, con Mafai e le figlie, dal rifugio genovese, ove era stata a lungo costretta, sin dal ’39, dal montare minaccioso della persecuzione razziale. A Genova aveva potuto giovarsi della generosa solidarietà di Jesi e Della Ragione; e forse, proprio nei giorni più aspri del conflitto, aveva intravisto uno spazio di quiete. Ora, nuovamente a Roma, allontanati i fantasmi più cupi, sembrava aprirsi la speranza di una nuova normalità. Ma è un tempo breve; già nel corso del ’45 qualcosa la spinge di nuovo in Liguria, con la figlia minore. “Hai frastagliata la nostra casa in due …”, scriverà più tardi a Mario, ricordando i giorni di quell’ennesima separazione: della quale sente ora, oscuramente, l’irrevocabilità. Negli anni di guerra – un tempo, dunque, per ogni altra ragione difficile – Mafai le scriveva: “amerei soltanto avere vicino te”; e ancora: “il mio desiderio più forte è stare vicino a te e alle bambine …”.  Nascevano allora, contemporaneamente e certo non per caso, sculture pacificate. Immaginate serenamente, ripensando un canone antico, talvolta, come il Ritratto di Jesi. O accompagnate, quasi, da un sorriso: Mafai con il gatto, Mafai con i pennelli. Ora, d’improvviso, tutto sembrava cambiare.

E di fronte alla nuova realtà, anche la scultura di Raphaël cambia. Lascia il suo ormai lungo passato, fatto – all’inizio – soprattutto di colti, pensosi riferimenti al classicismo severo di Maillol. Lascia quel modo che era stato il suo, di far lentamente affiorare alla pelle di levigata perfezione e politezza del gesso, della pietra o del bronzo i pensieri, i sentimenti e le emozioni raccolte nel grembo nascosto della figura. E s’abbandona a una foga del fare prima sconosciuta, che scende a corrompere d’impurità ciascuna delle più importanti figure di questo suo tempo. È una digitazione franta, adesso, che colpisce il gesso, poi il bronzo della Genesi del ’47 (la prima versione d’un tema poi lungamente ripercorso), che invierà alla Galleria Nazionale di Roma, in occasione di quella ‘Rassegna nazionale di arti figurative’ che tenne il posto, nel ’48, della V Quadriennale romana, sperandone un qualche riscontro critico, che non venne. È un bronzo sofferto, mutilo (ma, nel suo dramma apertamente confessato di materia ingovernata e quasi ciecamente aggregata, molto lontano dall’algido proposito di citare, attraverso la frammentazione, l’autorità dell’antico), sul quale la luce batte e crepita con improvvise accensioni, con sgarbati baleni. Valentino Martinelli – nel primo studio filologicamente attento e criticamente esaustivo che alla Raphaël fosse destinato: su “Commentari”, nel 1952 – ne vide il gesso, “che mostra sulla bianca superficie i colpi impetuosi della stecca e della mano, come in una Laveuse di Renoir” e la “materia sgorgata calda da un centro misterioso del mondo”, e di lì cresciuta su per le forme ottuse, grevi delle gambe massicce, del ventre gonfio, dei seni turgidi: una impietosa figura di madre che dalla terra trae linfa e vigore.

“Ho sempre lavorato a un certo soggetto: la madre con il bambino, cioè la genesi e la maternità. Come maternità intendo l’inizio del mondo, l’inizio delle cose, di tutte le cose”. Certo: ed era già riconoscibile, questa fonda scaturigine della sua scultura, in quell’opera quasi aurorale, ma già magica, che è il cemento con Le tre sorelle. Ma lì – era il 1936: e la pratica scultorea era per Raphaël appena agli albori – a dispetto della materia povera e naturalmente scabra, il soffio della vita, che ai tre torsi di fanciulle veniva da un cuore unito e segreto, prendeva infine forma in appagata serenità, e insieme in pensosa reticenza a dire troppo alta, troppo forte, la ragione di quel loro silenzioso legarsi ad un unico cespite. Il tema della maternità, allora celato nel bozzolo nascosto dell’opera, esplode invece adesso in un grido, in un affanno; e sfiora l’oltraggio, il sovratono: nella Genesi, come, appena più avanti, nella straordinaria figura della Niobe erosa, (che ‘corregge’ un’opera precedente, ascritta da Raphaël stessa al ’36, e che è forse di un poco successiva, ma in ogni modo da porsi entro i suoi anni Trenta romani), scavandone il corpo, ora ridotto a dolente filamento di materia che alza tremante nello spazio il breve passo quasi di danza. Mentre a quel corpo della madre, forse già punita dagli dei per la sua fertilità, si stringe uno dei figli, come cercando riparo in quel ventre eroso, ridotto ormai a fantasma.

Ad altro anche pensava, e pose mano, Raphaël, questi stessi anni. Ad altro, capace di riconnettere questa sua stagione all’antica, e i suoi nuovi pensieri di forma a quelli, diversi, che ne avevano alimentato il primo tempo della scultura: perché anche adesso, come sempre, nulla di troppo programmatico viene a indirizzarne univocamente il lavoro: che scende, ogni volta, prossimo alla vita, ascoltandone le ragioni, mutevoli. La seconda versione de Le tre sorelle, che inviò alla Biennale di Venezia del ’48, è un esempio di questa diversa inclinazione: da dir quasi castamente ripiegata sulle più antiche ragioni di forma. Al modo d’un gruppo classico (per quanto libero da testuali riferimenti ad un cespite più precisamente individuabile di cultura), i tre giovani corpi nudi delle figlie, ancora immaginate come adolescenti, poggiano l’uno accanto all’altro sull’unica base, e da essa si distaccano in educate, sapienti movenze. La frammentazione ne ha intaccato l’integrità delle membra (limitatamente, nella prima esposizione veneziana del gruppo, alle braccia: non essendo state che in secondo momento spiccate le teste dal busto): il che accentua quel sentore d’antico che la scultura dichiara di volere per sé, confermato d’altronde dalla ordinata sintassi compositiva dei tre corpi, e dalla politezza delle superfici bagnate da un morbido effetto chiaroscurale, e sulle quali la luce scivola senza traumi, come soffiata sui volumi sdutti delle tre fanciulle.

È importante la testimonianza dell’animo dubbioso che presto (già nell’aprile del ’48, all’immediata vigilia dunque dell’invio dell’opera a Venezia) Antonietta mostrò di nutrire nei confronti di quella sua scultura, in qualche modo eccentrica rispetto al più coinvolto sentire di quel tempo: in una lettera a Mafai, essa confessa allora d’esser rimasta “perplessa” a vedere compiuto il gruppo de Le tre sorelle: stupita lei stessa, e incredula, “della purezza e della ingenuità di questa scultura”. “Come ho fatto – scrive ancora – a fare questo gruppo delle tre sorelle così calmo, così sereno dopo tutto ciò che mi è accaduto? Dio lo sa”. In un’altra lettera, di poco successiva, Raphaël dimostra d’essere pienamente cosciente “che dentro di me si stanno svegliando processi molto più importanti” di quelli che l’avevano guidata nell’anteguerra. Anche se non è poi del tutto lucida nell’individuarli: “ora come ora mi interesserebbe molto di più una madre che lancia il suo grido al cielo perché il suo figlio è stato torturato dai reazionari e fucilato perché ha combattuto sulla montagna per la libertà, più che non una Niobe che piange per i suoi figli”.

In concreto, Antonietta continuerà a immaginare e a ritrarre Niobi, genesi, maternità, volti familiari; e continuerà a tenersi lontana da quei soggetti ispirati ad una attualità politica, nei confronti della quale scoprirà presto tutta la sua estraneità (appartiene esclusivamente alla imperfetta nozione critica che sul suo lavoro ebbe, a lungo, gran parte della storiografia italiana se la sua opera fu sempre presentata a Venezia – ove fu chiamata a partecipare ininterrottamente fra ’48 e ’54, probabilmente per interessamento di Mafai e con l’avallo concorde di Roberto Longhi e di Carlo Ludovico Ragghianti – assieme a quella dei maggiori esponenti del fronte neorealista: in particolare, alla XXV e alla XXVII Biennale le sue sculture figureranno nelle sale che ospitavano le opere di Guttuso e Pizzinato). Ma, al di là della imperfetta individuazione di quelli che saranno i temi della sua scultura a venire, è da tenere in conto questa importante e lucida confessione che Raphaël fa ora circa il tormentato momento di trapasso che si sta verificando nel suo immaginario formale, e che d’ora in avanti la condurrà, con poche eccezioni, a dar figura al dolore e alle lacerazioni della vita, in un continuo crescendo di accentuazioni espressive del suo linguaggio plastico.

Su un simile registro di forma si scalano d’ora in avanti molti lavori: fra i quali cadono sempre più raramente – come inattesi, e forse insperati momenti di pausa – attimi di più distesa espressione: così, ad esempio, alcuni ritratti (di Miriam e di Giulia: rielaborati, e trasposti in bronzo, dalle teste un tempo modellate per il gesso con Le tre sorelle inviato a Venezia) databili allo scadere del quinto decennio, che sembrano ripetere i modi nobilmente classicheggianti della sua ritrattistica degli anni Trenta; e ancora l’Adolescente (1949), o il gesso de La danza (anch’esso del ‘49), bagnato di poco colore, soffuso di grazia, e d’una eleganza quasi orientale. Ma che altra sia adesso la strada maestra della sua scultura, l’attestano – nel tempo stesso della Niobe – cose pur diverse come la piccola terracotta colorata con Leda e il cigno, nella quale l’abbraccio della regina con Zeus, nascosto sotto le spoglie dell’animale – abbraccio che varrà alla donna una numerosa figliolanza – è tanto stretto da far supporre una sorta di strana, quasi scipionesca metamorfosi in atto nei due corpi; o la frastornante immagine della nuda e altera Giuditta che reca sul capo, come un trofeo, la testa mozzata di Oloferne.

Sino ad uno degli ultimi volti immaginati da Antonietta: ed è quell’Autoritratto, altero e distante come un’icona bizantina, dell’avvio degli anni Cinquanta, immagine certo liminare d’un genere un tempo da Raphaël tanto frequentato, sulla scorta di esempi che dall’antichità classica o etrusca giungevano a Maillol. In esso, ogni citazione aulica d’una canonica classicità è dispersa, così che resta soltanto, a quest’immagine spoglia e lontana da ogni asse paradigmatico che altrimenti la giustifichi, il suo icastico e quasi brutale apparire alla soglia della vita. Gli occhi ridotti a fessure; la frontalità di quel volto che s’offre come una sfida; la figura pesante e grave sulle spalle troppo esili (“poggiata sui gomiti come una Sfinge”, quella donna – per ripetere una suggestione di Dino Campana che Martinelli menzionò per un’altra scultura di Raphaël – nel suo propendere verso chi guarda); e quell’abbraccio stretto e saldo delle mani forti sul petto: tutto sta a dire d’una ormai non più ricercata misura soltanto linguistica, soltanto formale, come canone di questa scultura: e della sua urgenza di testimoniare soprattutto il transito d’una vita attraverso l’esistenza.

Il tempo che tocca all’Autoritratto è anche quello che vede Raphaël, rientrata a Roma, partecipare (vincendo, finalmente, uno dei premi per la scultura) alla VI Quadriennale; ottenere, in occasione della sua prima vasta antologica di pittura e scultura, i primi significativi riconoscimenti critici (recensiscono la mostra, tra gli altri, Guttuso, Maltese, Mezio, Venturoli); esporre ancora a Venezia; e leggere, come s’è accennato più sopra, sulle pagine d’una rivista autorevole, il saggio storicizzante dedicatole da Martinelli. È però, negli anni a venire, soprattutto la pittura – quella, in particolare, degli esordi ormai lontani dati nell’ambito della ‘scuola di via Cavour’ – ad essere riscoperta e nuovamente valutata. Raphaël, che pur si sente ora soprattutto scultrice, e al suo lavoro più recente ambirebbe vedere riservata attenzione, ascolta e in qualche misura asseconda la suggestione di questa nascente predilezione di parte della critica, e torna con maggior confidenza alla pittura: così che l’impegno scultoreo, pur mai del tutto trascurato, si dirada un poco sulla metà degli anni Cinquanta.

Quando, sul finire del decennio, esso torna, per alcuni anni, a farsi egemone sulla pittura, vengono alcuni grandi gruppi – La fuga, Genesi n. 3, Angoscia n. 2, Maternità – ancora incentrati sui temi prediletti. La stessa ansia, lo stesso dolore li segna: talvolta, come nella nuova versione della Genesi, sino al punto che la digitazione si fa sul gesso così sincopata, e l’incidere su di esso del colpeggiare della mano, della spatola e della raspa così franto e drammatico, che l’immagine ne esce erosa, consunta, bruciata: apparentandosi, quasi, alle più dilaniate figure di certo nostro coevo informale.

Mentre la pittura frequenta così i territori tutti diversi d’una favola accesa da suggestioni testamentali e da sogni d’Oriente, e sempre percorsa da una vena d’erotismo e da memorie della visionarietà allucinata di Scipione (fino al tardo Il sogno della ballerina, dipinto per tanti versi esemplare delle multiformi inclinazioni d’una pratica pittorica che, proprio come era avvenuto nella gioventù di Antonietta, dimostra ora di seguire percorsi affatto indipendenti da quelli del lavoro plastico), la scultura del tempo tardo e quella, ormai rara, degli anni estremi mostra di non voler recedere da quell’intensità emotiva che ne aveva segnato la stagione della piena maturità. Nascono adesso sovente allungate sulla verticale, le sue forme: quasi cercassero in quello slancio verso l’alto un utimo riscatto dalla condizione di dolore donde, tuttora, scaturiscono: così è La grande Genesi, ed egualmente la nuova versione di Leda e il cigno (in durissimo palissandro: quasi una sfida giocata contro le sue mani che sentivano, ma non volevano accettare, il peso dell’età ormai avanzata): un ultimo abbraccio di due corpi avvinghiati, non più separabili. Fino allo sguardo lento, profondo, insieme innocente e selvaggio, d’una Salomè bambina che regge teneramente fra le braccia, come un figlio con cui giocare ancora, la testa mozza del Battista.