“Immagini”: arte italiana alla Bce
Immagini
Arte italiana dal 1942 ai nostri giorni
I limiti cronologici che questa mostra dedicata all’arte contemporanea italiana abbraccia sono assai vasti : vanno dagli anni ultimi della seconda guerra alla più recente attualità, e coprono dunque un arco di tempo che, ormai, s’estende per oltre mezzo secolo. Da ciò stesso si desumerà, alla prima, che il conto degli eventi e delle personalità che hanno segnato questi lunghi decenni non potrà darsi, qui, che per sparsi cenni. Eppure, quei cenni, speriamo non insufficienti, nel loro complesso, a rendere l’immagine di un’arte che, dopo le lunghe soste di un secolo, il XIX, sovente prigioniero nelle proprie frontiere (seppur, tante volte, nobilmente atteggiato) ; dopo i primi lustri d’un secolo nuovo ove le speranze di una età più grande e giusta percossero anche l’Italia, e spinsero i suoi artisti maggiori a cercare un confronto con l’Europa, e a dare un apporto importante ai primi linguaggi dell’avanguardia internazionale ; dopo, infine, i lunghi decenni nei quali una cultura artistica a prevalente carattere autarchico si specchiò in una struttura sociale e politica d’analoga vocazione – un’arte dunque che, dopo tutto ciò, s’apre, prima timidamente, poi con sempre maggiore autorevolezza, al dialogo con quanto avviene oltre frontiera, in Europa prima di tutto, e ben presto oltreoceano.
Un dialogo principiato non appena la guerra, che aveva profondamente fiaccato tutte le strutture e le infrastrutture del paese, stremandone l’economia e dilacerandone il tessuto sociale, ma non aveva spento l’anelito degli artisti a volgere lo sguardo oltre le Alpi, ebbe fine, in ultimo e finalmente anche al nord del paese. Era la primavera del 1945 ; e in un’Italia che vedeva l’industria ridotta a meno d’un terzo della sua capacità produttiva rispetto all’immediato anteguerra, l’agricoltura a meno dei due terzi, il costo della vita aumentato di oltre venti volte, l’inflazione incontrollabile, si configurò, subito, una volontà comune dei nostri artisti, da un capo all’altro della penisola, a riannodare le fila d’un movimento moderno consapevole, prima di tutto, della necessità di confrontarsi con l ‘Europa.
Da Roma e da Milano, da Venezia e da Torino vennero allora le personalità che, riunitesi nei gruppi del “Fronte Nuovo delle Arti” prima, degli “Otto pittori italiani” poi, o ancora nelle coinè più sbilanciate verso l’avanguardia di “Forma”, di “Origine”, dello “Spazialismo”, ovvero lavorando in modo più appartato, contribuirono a creare le basi per quella definitiva maturazione della pittura e della scultura italiane che avrebbe dato, nel corso degli anni Cinquanta, esiti di compiuto e straordinario valore.
Di una siffatta, feconda crescita, l ‘Europa (fatte salve alcune notevoli eccezioni, prima fra tutte quella del critico francese Michel Tapié, che esponeva già nel ’51 Capogrossi a Parigi, e poi nel prosieguo del decennio presentava molti altri nostri artisti accanto a Wols, Pollock, Hartung, Dubuffet, Fautrier …) per allora non s’accorse. E a lungo – in qualche misura possiamo dire ancor oggi – l’arte italiana di quel folgorante decennio fu internazionalmente stimata in misura inadeguata. Così, fu solo a muovere dal decennio seguente, con l’affermarsi delle poetiche concettuali prima, dell’”arte povera” poi, nate in Italia e poi largamente diffusesi ovunque nel mondo (momento storico indagato oggi in mostra dalla sua seconda sezione), che l’arte italiana si è imposta, nella consapevolezza della più avvertita critica sia europea che statunitense, come una delle realtà trainanti nel panorama della ricerca internazionale (non senza, peraltro, che la condizione lungamente subalterna della nostra economia, e ovviamente anche del sistema dei musei come del mercato d’arte votati al contemporaneo, non abbia negativamente pesato sul riconoscimento del valore di quelle esperienze).
È discesa prima di tutto da questa consapevolezza, di una imperfetta cognizione e valutazione della pittura italiana che dalla guerra conduce agli anni Sessanta, la scelta di presentare, ad incipit della mostra sull’arte italiana attuale (che giunge a comprendere, nella sua terza sezione, alcuni aspetti della ricerca attuale) una breve rassegna di opere di quel tempo : opere tutte di proprietà della Banca d’Italia, che va da anni incrementando le sue collezioni d’arte contemporanea. Rassegna che, anch’essa, è lontana dal pretendere un’esaustività di sguardo sulle diramate vicende della pittura del dopoguerra e del decennio che seguì (basterà pensare alle assenze di Fontana e di Burri, le opere dei quali non sono purtroppo ancora presenti nelle collezioni della Banca d’Italia); ma che è pure sufficiente a rendere, per esempi d’alta qualità, la ricchezza d’un pensiero molteplicemente indirizzato.
Opere dalla collezione della Banca d’Italia
Pittura italiana dal dopoguerra agli anni Cinquanta
Giorgio Morandi inaugura la selezione oggi proposta. Lo fa con un dipinto di paesaggio, datato al ’42 : in un tempo drammatico in cui la guerra incombeva sulle colline sovrastanti Bologna in una lunga serie di episodi d’inaudita violenza e crudeltà. Morandi, solitario com’è sempre stato, a partire almeno da quel 1920 che ne segna l’accesso alla più alta maturità, inanella allora nella segregazione di Grizzana una lunga teoria di capolavori sul tema del paesaggio che paiono, quegli orrori dei quali pur sente la voce correre nel paese dell’Appennino emiliano, esorcizzare, e come voler fare lontani da sé.
Accanto a Morandi, Filippo de Pisis : l’altro grande isolato della pittura italiana fra le due guerre. Anche di lui, un quadro del ’42, una Natura morta colma d’aria e di vento, povera di cose, come era suo costume. De Pisis era stato, dalla metà degli anni Venti e fino allo scoppio della guerra, a Parigi, e la sua pittura vi era cresciuta a dismisura, liberandosi di certe giovanili complicità con la metafisica dechirichiana, e attingendo dai più alti esempi del post-impressionismo francese (da Bonnard, da Vuillard) quella levità e brevità di tocco con la quale imparò a impadronirsi dei minimi eventi della vita, della cui caducità e malinconia fu poi sempre cantore.
Ancora dentro gli anni Quaranta, ma al loro limite estremo, si pone poi l’opera qui esposta di Giulio Turcato : che, nato a Mantova nel 1912, fu poi nomade per la penisola tutta (Palermo, Milano, Venezia, Roma infine), fisicamente – per circostanze diverse e non felici – ma più ancora moralmente, per connaturata vocazione dell’animo a non restare ancorato a un’unica radice, ad una sola realtà, di vita e di lavoro. Alla fine del quinto decennio del secolo, così, Turcato interpreta come nessun altro le ansie centrifughe della parte migliore della nostra pittura : si dichiara, con i giovani di “Forma”, insieme “marxista e formalista” (il che sembra, allora, un ossimoro) ; con Lionello Venturi sarà di lì a poco, negli “Otto”, “astratto” e “concreto”. Ed è forse, in quel tempo difficile per gli artisti e gli intellettuali europei politicamente impegnati, l’unico fra i compagni di strada italiani a riuscire a sottrarsi al dilemma paralizzante fra il pallido ossequio al dettato del realismo zdanoviano e l’adesione, che appare allora a molti colpevole rinuncia a più pressanti battaglie ideologiche, al linguaggio astratto internazionale.
Passato il crinale del decennio, mano a mano vanno facendosi meno testuali i riflessi della battaglia politica sulle arti figurative. E s’apre il tempo di una straordinaria fioritura per la pittura italiana. È del ’52 il dipinto di Afro oggi qui esposto : quell’anno stesso il pittore friulano (da tempo trasferitosi anch’egli, come Turcato, a Roma) tiene la seconda sua personale a New York, con un riscontro notevole, e del tutto inconsueto per un artista italiano, di critica e di mercato. Molti suoi quadri, a partire da quel momento e per tutti gli anni Cinquanta, entreranno in prestigiose raccolte private e in musei statunitensi : così che può dirsi che proprio Afro, con la sua pittura che va allora volgendo dal neo-cubismo dell’immediato dopoguerra verso più libere sintassi compositive, sulle quali prende ad agire l’esempio altissimo di Arshile Gorky, sia il primo fra i nostri artisti ad aver avuto un reale credito oltreoceano.
La generosa disponibilità di Afro consente ad altri amici e colleghi italiani di tentare, con la sua mediazione, l’avventura a New York, che nel frattempo è divenuta la nuova capitale mondiale dell’arte, soppiantando Parigi. Fra i primi, Fausto Pirandello, pittore solitario e fin scontroso delle troppo facili e generiche solidarietà nate nel dopoguerra, tanto che non ha partecipato a nessuno dei gruppi che si sono più sopra menzionati. Figlio di Luigi, Pirandello è stato fra le due guerre uno dei maggiori interpreti della “Scuola Romana”, dando figura alle istanze più dolenti e visionarie di quell’enclave di cultura visiva. Ora, a metà del sesto decennio (la Trama di nudo qui esposta è del 1956), la sua pittura s’è volta verso quel connubio fra astratto e concreto che Venturi andava predicando come bilico da mantenere fra adesione alla lingua non figurativa internazionale e memoria della realtà : serbando in questa declinazione di forma, Pirandello, l’adesione da sempre sua ad una materia pittorica tormentata e drammatica.
Assieme ad Afro, nei confronti del quale iniziò presto ad esercitare una fondamentale opera di orientamento culturale, giungeva a New York, sulla metà degli anni Cinquanta, Toti Scialoja. Scialoja è transitato, prima, attraverso un accaldato espressionismo, debitore soprattutto nei confronti di Soutine ; poi attraverso ricerche neo-cubiste, sollecitate dai suoi numerosi soggiorni a Parigi. Ora, l’incontro, negli studi della Tenth Street, con i maggiori protagonisti dell’action painting (da Kline a de Kooning) lo conferma nella direzione che già in Italia andava prendendo la sua acuminata riflessione estetica : e lo spinge a una pittura di gesto, violenta e quasi cieca, nella quale l’artista confessa il suo “intero”, fatto in pari misura, nelle sue parole, di “viscere” e di “pensiero”.
Le grandi, drammatiche “impronte” di Scialoja oggi esposte, Tre sabbie, sono del 1959 : anno che spetta egualmente a due ultimi dipinti che la rassegna odierna propone : il primo di Mario Mafai, l’altro di Emilio Vedova. Mafai – anch’egli, come Pirandello, proveniente dalla “Scuola Romana”, di cui è stato assieme a Scipione il principale protagonista – ha vissuto il periodo postbellico dilacerato fra l’impegno politico e la vocazione ad una pittura libera da obblighi contenutistici, e su sé stessa unicamente fondata. In questi suoi anni estremi (morirà, ancora giovane, nel ’65) Mafai sceglie di rinunziare a quella vocazione figurativa che l’aveva sempre accompagnato e, scegliendo una forma fondata sulla libera concertazione del colore, rinuncia nel contempo a quelle solidarietà, critiche e mercantili, che l’avevano durevolmente accompagnato. Additato come poco meno che traditore dal fronte realista, Mafai finirà i suoi giorni in quasi disperato isolamento : e ancor oggi questa sua tarda pittura, di cui Rinascere è un segno prezioso, solo apparentemente vicina a certo astrattismo americano (si sono fatti per essa, forzando la verità, i nomi di Tobey e di Gorky), e in realtà così profondamente avvinta e consentanea alla vocazione coloristica di Mafai, ha ascolto assai limitato.
Al suo opposto, Emilio Vedova è uno degli artisti italiani del tempo più riconosciuti sul piano europeo. Il grande telero del ’59 che qui si espone, Immagine del tempo n.3, vede l’artista veneziano (che a quel tempo ha già alle spalle la militanza nel movimento milanese di “Corrente”, nel “Fronte Nuovo delle Arti” e nel gruppo degli “Otto”) a un primo culmine della sua maturità, espressa in una pittura violenta di gesto, scabra di materia, aspra nelle conflagrazioni dei suoi pochi colori, battuta di luci aggressive, inconcilianti ed estreme. Con Vedova, che proprio all’aprirsi del nuovo decennio, con i primi Plurimi, abbandonerà la superficie per investire con la sua pittura “in rivolta” l’ambiente della vita, si chiude la breve ma significativa selezione della pittura italiana degli anni Cinquanta oggi proposta. Altre e diverse avventure premono ormai sulla vicenda delle arti italiana.
Schede delle opere storiche
Toti Scialoja
Tre sabbie, 1959
tecnica mista su canapa, cm 57×143
Scialoja, di ritorno dal primo soggiorno a New York, nel ’56, ha sperimentato prima l’assoluta libertà del gesto portato con cieco automatismo sulla tela ; subito appresso, come spaventato dalla possibile gratuità di quel modo, ha trovato l’”impronta” : con la quale imprime colore sulla tela attraverso un medium di carta oleata imbevuta di materia cromatica, secondo una prassi che gli garantisce insieme slancio e controllo del proprio atto formativo. Quella esemplata da Tre sabbie è la seconda stagione delle “impronte”, nelle quali esse, in accordo con la maturazione del pensiero fenomenologico che in questo tempo Scialoja approfondisce, si serializzano, a indicare lo scorrere pausato del tempo in uno spazio : eventi, ora, quelle “impronte, appoggiati da un gesto rabdomantico sopra il flusso di un’esistenza.
Emilio Vedova
Immagine del tempo n.3, 1959
olio su tela, cm 275×105
Al ’59 Vedova è al culmine del proprio modo di pittura interamente coinvolta, scheggiata, urtata, violentemente asserita sulla superficie, dalla quale l’artista è prossimo ormai a staccarsi, per invadere l’ambiente con complesse articolazioni plastiche in legno, cartone, ferro : saranno, quelle forme, i Plurimi, corpi dilaniati e feriti, anch’essi coperti in affanno da una pittura incendiata. L’opzione per il secco, aspro dialogo fra il bianco e nero che governa anche questa tela è scelta agra, frequentemente rinnovata – lungo tutti i suoi anni – da Vedova, che scorge in questo suo modo la via privilegiata per asserire intero tutto il dramma che egli intende esprimere con la sua pittura, testimone sempre di un conflitto fra l’integrità morale dell’uomo giusto e le compromissioni di una società nemica.
Afro (Afro Basaldella)
Agosto in Friuli, 1952
olio su tela, cm
Al ’52 Afro è ad un suo transito cruciale, che lo porta dalla strutturazione neo-cubista dell’immagine, con la quale ha inseguito una scheggiata memoria della realtà, ad una figura più fluida, indeterminata, come in sospensione in una polla d’acqua, come in gestazione in un grembo umido. È il tempo in cui aderisce al gruppo degli “Otto”, con il quale si presenta alla XXVI Biennale, accompagnato da una presentazione in catalogo di Umbro Apollonio e soprattutto dal libro di Lionello Venturi ; a Venezia, come era avvenuto in primavera a New York in occasione della personale presso la Catherine Viviano Gallery (presso la quale Agosto in Friuli sarà esposto nel ’53), Afro ha un buon riscontro di critica : approvazione che lo accompagnerà per tutti i suoi altissimi anni Cinquanta.
Fausto Pirandello
Trama di nudo, 1956
olio su cartone, 102×71
Questo cartone (dall’immediato dopoguerra in avanti sarà appunto il cartone, in luogo della più tradizionale tela, il supporto sempre scelto da Pirandello, che vi individuava un medium più atto ad accogliere la lenta, cento volte stesa e distolta, stratificazione della materia pittorica) fu presentato dal pittore alla XXVIII Biennale di Venezia, ove gli fu riservata una vastissima personale di diciotto opere che fu presentata in catalogo da Nello Ponente e che segnò uno dei momenti di maggiore consentaneità fra Pirandello e la critica. Ponente, che fiancheggiava già allora i linguaggi più avanzati, parla per Pirandello, apertamente, di “avanguardia” : un atteggiamento d’avanguardia che certo non può apparentarsi a quello dei più giovani e radicali fautori dell’astratto, ma che il critico giustamente individua a motore della pittura di Pirandello, della sua costante volontà di evitare ogni facile collusione con la moda, e della sua ricerca ostinata, solitaria, fin dolorosa di una propria lingua, sempre lontana da ogni consolante accademia.
Mario Mafai
Rinascere, 1959
olio su tela, cm 100×100
Alla Biennale del ’58 Mario Mafai fu invitato per l’ultima volta : in una vasta sala personale di 16 dipinti, introdotta da Lionello Venturi, egli presentava l’esito più recente della sua pittura, già in via di volgersi verso un partito non più referenziale : quelle opere, firmate da colui che era stato il primo maestro della “Scuola Romana” – dall’autore dei “Fiori”, delle “Demolizioni”, delle “Fantasie” – fecero scandalo. E invano Mafai, che dopo l’esperienza dei Mercati presentati a Venezia (già, ormai, ben lontani da una pallida mimesi del naturale) proseguì sulla via della propria personale astrazione, ripeteva : “non sono cambiato, sono invece diventato più io, più nudo, più scoperto”. L’anatema dei vecchi compagni cadde impietoso sulla sua nuova pittura ; mentre i partigiani dell’astratto, che avrebbero dovuto farglisi più vicini, seppero esprimere solo incomprensione o sbigottito silenzio. Non molto, da allora, è cambiato ; così che paradossalmente la pittura di Mafai del ‘59 e del ’60, come quella estrema delle “corde”, è tuttora da rivisitare e da intendere.
Filippo de Pisis
Natura morta, 1942
olio su tela, cm 49×60
Questa tela, dipinta probabilmente a Milano poco prima che, sul finire del ’42, un terribile bombardamento non ne minacciasse la casa e la vita (l’artista ricorderà una “persiana di 3 metri cadutami in testa”), è un esempio alto della pittura matura di de Pisis, fatta di fiati e di sussurri più che di eventi plastici, di parvenze più che di cose, di sensi e di sentimenti più che di ferme attitudini raziocinanti. Basta qui, a costruire il dipinto, un piano incerto di posa, aperto contro un cielo dilatato e vuoto, e un bicchiere, una conchiglia, una piuma, una lettera… ; e in mezzo a quei pochi oggetti, tratti insieme dalla vita e dalla memoria, disposti sul tavolo senza rigore prospettico, non sai se giacenti o lì per prendere il volo, implausibili eppur così veri e presenti, basta questo a dire quanto questa pittura, senza sussiego e senza altro ingombro se non quello di dirsi ed essere tale, possa iscriversi nella vicenda maggiore, e più appartata, dell’arte italiana del XX secolo.
Giulio Turcato
Composizione, 1949 c.
olio su tela, cm
È, questo degli anni Quaranta che declinano, un tempo cruciale per Turcato : che si trova a condividere insieme le solidarietà con i compagni più maturi del “Fronte Nuovo” e con i più giovani colleghi di “Forma”, mediando inoltre fra una vocazione sua che si va scoprendo fondamentalmente astratta e un ascolto residuo degli imperativi contenutisti che gli vengono dai compagni di partito, sempre più allineati – dopo le invettive di Togliatti contro le “cose mostruose” esposte alla rassegna d’arte attuale di Bologna del ’48 – ai dettami che pretendono dall’arte un impegno sociale e politico. In piccole tele come quella qui presentata Turcato mette come a punto quella grammatica astratta, fondata sul colore come nucleo emozionale irrelato all’esistente, che poi impiegherà nelle tele di dimensione maggiore, nelle quali – ancora nel ’50, quando esegue e invia alla Biennale il grande Comizio e due Miniere – la suggestione del titolo “di lotta” riesce a mascherare una formulazione d’immagine libera ormai da ogni vincolo naturalistico.
Zoran Music
Donne delle isole, 1955
olio su tela, cm 83×100
Music, nato nel 1909 in una Gorizia allora austro-ungarica, approda all’avvio degli anni Cinquanta a Parigi, dopo aver studiato e lavorato un po’ ovunque in Europa : a Vienna, a Zagabria, a Madrid, a Trieste, a Venezia. Proprio nella città lagunare, crogiolo nel secondo dopoguerra di esperienze di forte coesione fra gruppi di artisti uniti dal proposito del rinnovamento dell’arte dopo il ventennio fascista, Music inizia a stabilire quella che sarà una sua vocazione costantemente serbata anche negli anni a venire : tesa alla solitudine della ricerca, condotta lungo percorsi anche rischiosamente inattuali. Tenui, quasi sfatti colori, tonalmente accordati ; luci lente e malinconiche ; spazi deserti e silenti : pochi temi sempre ripercorsi, nei quali le “cose” di Music smarriscono certezza e si fanno pallide evidenze, come passate al filtro slontanante della memoria : questa sarà, nel tempo e sino ad oggi, la pittura di un artista come pochi altri tetragono all’ambiente d’avanguardia che lo circondava.
Giorgio Morandi
Paesaggio, 1942
olio su tela, cm 36×53
Fra i molti, straordinari paesi dipinti fra ’42 e ’43 (un tempo in cui – costretto com’è dalla guerra all’esilio a Grizzana, e dunque lontano dalla casa bolognese di via Fondazza e dagli oggetti sempre eguali con i quali costruiva le sue “nature morte” – il genere del paesaggio si fa non solo numericamente egemone nella produzione del pittore), questa tela d’altissima qualità testimonia bene della importante accelerazione che Morandi imprime alla sua pittura in questo giro di anni. Morandi ha avuto, nel ’39, in occasione della vastissima personale dedicatagli dalla terza edizione della Quadriennale romana, il primo importante riscontro di critica : sulla quale ha fatto in particolare notevole impressione la produzione recente delle grandi, ferme, quasi statuarie “Nature morte” del ’38. Ora, a poca distanza di tempo, Morandi sembra cercare tutt’altro : un colore più tormentato, luci più balenanti, una materia quasi erosa, un pennello che struscia materia sulla tela in corse affannose, una spazialità disordinata e a tratti quasi convulsa. E fu forse allora la guerra, la sua ansia, il suo dolore, a farsi presente – trasfigurata – in queste nuove, diverse sintassi di forma.
Una generazione
All’inizio degli anni Novanta, alcune mostre promosse dal nostro Ministero degli Affari Esteri, in Europa e oltreoceano, si incaricarono di tracciare in sintesi estrema una vicenda dell’arte italiana colta ad un suo svincolo fondamentale, quello degli anni Sessanta : quando, esperiti i passi necessari dell’aggiornamento post-bellico sui linguaggi internazionali, e compiutasi negli anni Cinquanta la prima gloriosa stagione di un’arte in grado d’orientarsi in via autonoma nell’ambito di opzioni formali già statuite, la ricerca artistica italiana prese a muoversi (in quello che nel frattempo s’andava configurando come un “sistema dell’arte” implicante, oltre e prima che l’elaborazione di valori unicamente formali, la necessità di un riconoscimento sul piano mondano di quei valori) con un piglio, una consapevolezza e una densità di contenuti e di prospettive tali da porla, per la prima volta nel secolo, sul filo delle ricerche più avanzate in un contesto internazionale ormai globalizzato.
Quelle mostre, allora, curate da Pier Giovanni Castagnoli, ebbero il coraggio di rompere – in una prospettiva che si voleva ormai storica su quei linguaggi d’ultima avanguardia, sbocciati appunto sui primi anni Sessanta – gli schematismi critici che erano pur stati transito necessario alla piena riconoscibilità di quei modi : con un apice nella definizione, operata da Germano Celant, del gruppo originario dell’”arte povera”. Nella convinzione lucida che, oltre le opportunità strategiche che ne avevano motivato la coesione, quel gruppo, da una parte, non ebbe a condividere sino in fondo una “poetica” comune ; mentre, d’altro canto, contestualmente ed in modo niente affatto epigonico, altre personalità s’erano di fatto affiancate, con identica forza propositiva, a quelle esperienze.
Poco ascoltate in Italia, quelle mostre davano dunque in realtà un’indicazione precisa su un possibile modo nuovo di ripensare a tanta parte della migliore ricerca italiana che ha avvio nel cuore degli anni Sessanta e Settanta. Ed è oggi a quella linea critica e interpretativa che questa seconda sezione della mostra d’arte italiana di Francoforte intende dar seguito. Mischiando, se possibile, ancor più le carte di una storiografia che, facendo altrimenti, rischierebbe di rimanere colpevolmente ingessata, prona ad accettare battesimi e nominalismi che (utili, addirittura irrinunciabili allora, lo si ripete, per imporre il riconoscimento sul piano internazionale di un vasto settore della ricerca nostra) sarebbero oggi di fatto incomprensivi della complessità delle relazioni e degli apporti dati a quella coinè artistica da più parti ; e, ancora, incomprensivi della molteplicità degli apporti che una intera generazione ha dato al crescere autonomo della nostra arte a muovere da quel tempo, e fino ai nostri giorni.
I nove artisti riuniti a Francoforte in questa sezione – che è un po’ il cuore, almeno dal punto di vista cronologico – della mostra odierna non presumono dunque d’attestare la propria univoca appartenenza ad una lingua coesa (per quanto numerosi fra essi, da Paolini a Zorio, da Mattiacci a Icaro, da Gastini a Parmiggiani, siano evidentemente riferibili ad un clima comune) ma invitano, tacitamente ma fermamente, chi guardi oggi alla loro opera a valutarne piuttosto la profonda diversità : dalla quale, in ultima analisi, discende la ricchezza, e il fascino più sottile, di un tempo della contemporaneità nostra.
Alla loro opera, si è detto, ma meglio sarebbe dire : alle loro opere. Ché certo la sintesi estrema di quel complesso panorama che oggi qui si propone è fondata, e potrà trarre giustificazione, prima ancora che dalle singole personalità, dal concreto delle opere selezionate : che (compatibilmente con la natura dei luoghi, eccezionali in tutti i sensi per l’arte contemporanea) dimostrano, si spera, di caso in caso un momento d’eccellenza nella ricerca di ciascun artista, ma certo non possono presumere di rappresentare neppure imperfettamente l’intero di una ricerca che è, per ciascuno, affondata in lunghi anni e decenni di lavoro. Lavoro di cui s’è inteso rendere una scheggia recente, seppur non in ogni caso recentissima.
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Ultima “figura” d’un artista di lungo tragitto (che è presente, con la sua opera recente, in questa sezione della mostra come a far da tramite fra essa e la sezione la precede, alla quale pure egli avrebbe avuto pieno titolo a partecipare) sono ad esempio gli Alberi di Achille Perilli : che, primo promotore, nell’immediato dopoguerra, del gruppo romano di “Forma”, prosegue tutt’oggi senza stanchezze il suo lavoro. Gli Alberi, rare ma non uniche esperienze scultoree di Perilli, sono per lui creature in conflitto, e come il luogo d’un assoluto organico lungamente inseguito dall’artista. Sopra quel luogo, pregno ancora del turgore e del disordine della natura, iscrivere la geometria, seguendo e contrastando di volta in volta le suggestioni offerte dalla forma scabra del tronco – i suoi nodi, le forre, le nervature, le gobbe, le marcescenze – vuol dire aderire e insieme combattere la casualità dell’esistenza, celarsi in essa e resisterle, acconsentirle e segnarla della propria, diversa natura. Vuol dire giungere a toccare, e a scrivere indelebilmente, l’evidenza di quella natura di incontro e scontro, di non pacificata convivenza di opposti, di unione e separazione, che appartiene per Perilli alle fibre più fonde della realtà, e che è stata per lui da sempre scaturigine prima della propria ricerca e della propria immagine.
Forse all’estremo opposto della scoperta conflittualità di Perilli si danno i due grandi disegni su tela di Claudio Parmiggiani : risalgono all’avvio del nono decennio, appartengono ad un modo allora molto frequentato dall’artista, con esiti d’altissima qualità, e paiono come sussurri, fiati lievissimi e appena udibili pronunciati nella notte. Ai suoi “disegni” Parmiggiani ha affidato molta parte di sé : restano evidenti su queste pagine pittoriche le sue radici romantiche e simboliste ; la sua scelta, sempre rinnovata, per quei territori di confine fra flagranza e illusione, fra ragione e trasgressione ; il suo cercar rifugio, quasi, di fronte all’ingombro e al rumore vano dell’esistenza, in una landa solitaria e remota dal calore della vita, ove basta un’ombra a innescare un sogno, un lume fievole ad accendere una speranza, a suggerire una meta. Per contro, in questi fogli e tele nere, appena vibrati da un esile filamento – quasi un brivido, che passerà – di luce serotina, s’allontana l’ipotesi di un Parmiggiani erede di inflessioni metafisiche o, peggio, surrealiste. Nessuna ironia, nessun grido, nessun oltraggio, nessun racconto, in essi : solo l’incombere di una tristezza senza misura, di uno spazio colmo soltanto di un’eco flebile e lontana, di una solitudine senza riscatto.
“Nulla si comunica né si apprende che già non sia sotto i nostri occhi”, ha scritto Giulio Paolini : e assieme a questa, ha reso molte altre volte, per tutti i lunghi anni della sua parabola, testimonianza del rigore mentale, del nitore di pensiero che egli vuol tenere ‘accanto’ alla sua opera. Dal Disegno geometrico del ’60 (figura elementare e quasi assiomatica, primissima in Europa nel qualificarsi come immagine giustificata prima di tutto dal suo essere testimone di un’azione che controlla sé stessa e il proprio insorgere in una strenua, continuamente rinnovata verifica del proprio linguaggio), e fino ad oggi, Paolini ha incardinato la propria opera a premesse d’ordine concettuale muovendola, passo dopo passo, in simbiosi stretta con un processo ideativo che non ha mai rinunciato ad avere per prima compagna la tetragona implacabilità della ragione. Da lungo tempo, però, o forse da sempre, dietro il velo bianco d’un casto nitore mentale, Paolini ha lasciato che altri sensi “contaminassero” il suo lavoro : così che, di volta in volta, le sue immagini hanno parlato (come fanno anche, qui, Flamingo e Tout se tient) dell’ambiguità e della fatale doppiezza del vedere, e d’una vita delle cose sospesa immancabilmente fra plausibilità del reale e baudelairiana “menzogna”, o ancora fra flagranza e inganno, fra apparizione e memoria…
Un altro bianco, rispetto a quello di Paolini, è quello di Paolo Icaro. È il bianco del gesso : una materia povera, che non può sperare l’immortalità (altra è certo, come ha insegnato Fontana, la questione dell’eternità). Una materia che sporca le mani. In essa Icaro affonda gesti, è stato detto, “di francescana semplicità” ; condotti con “agostiniana caparbia” (e stavolta, a parlare, è lui stesso). Gesti quasi ciechi, o forse rabdomantici : che non hanno l’algida guida del pensiero, né le certezze d’un approdo avvistato in anticipo sul farsi concreto dell’opera. Ancora : gesti senza orgoglio ; piccoli gesti raccolti e cauti, che più nulla sanno del gesto americano che squassava una superficie, figgendovi l’ansia prometeica del formatore. Partono dal suo corpo, di cui ripetono la misura : quella della mano, del fiato, dell’altezza del tronco. Fondano su quel poco il proprio diritto di esistere ; e di conoscere, per quella via, il mondo. Non altro che umana, allora, è la sua scultura : senza essere umanistica, senza condividere l’alterigia di chi voglia porsi a canone dell’esistente. Il pensiero che ordina, a monte, la serie dei piccoli gesti di Icaro, vive annidato, nascosto nella materia bianca : così che la sua scultura sembra una scultura in attesa. Di una rivelazione, laica : come quella del raggio di luna che è sceso sulle ampolle di gesso dei Lunatici, qui esposti, donando loro la prima via alla forma che avrebbero avuto.
Di segni, tracciati leggeri sulla carta, sulla tela, era fatta la pittura di Marco Gastini al transito fra anni Settanta e Ottanta : l’opera maggiore che oggi qui espone, In-ovale, è di quel tempo, che segna per lui il passaggio ultimo dalla rarefazione del suo primo avvio, profondamente segnato dall’egida dell’analisi e del concetto, a un maggiore involgimento con l’emozionalità della pittura : messa in opera, ora, non più soltanto tenendo in conto i suoi valori mentali, o spaziali (che la spingono sempre più di frequente oltre la superficie del supporto, a invadere la parete o l’ambiente), ma anche quella che Tommaso Trini definì allora la sua “preziosità materiale” : che insidia l’antico, algido rigore con il proprio ingombro d’esistenza. I colpi di carbone e d’azzurro sul bianco, la luce filante del piombo, la presenza nell’opera – frequente, ora – di carrube, di legni, di materiali comunque eccedenti la normale prassi della pittura (materiali dei quali Gastini sembra voler ascoltare la diversa energia) conducono da allora in avanti l’artista in una sorta di viaggio intrapreso dall’aria alla terra, dalla trasparenza alla gravità, dal rigore al rischio : un viaggio che è tuttora, e tanto fecondamente, in atto.
Scultore, e certo anch’egli fra i nostri maggiori, è Gilberto Zorio : ma Zorio non sa se definirsi tale. A una domanda recente rispondeva tra l’altro : “la scultura è una lingua ? Forse è una lingua. (…) Forse è un gesto cieco, sensuale, duro, forse è copia di sentimento, forse è sentimento, forse è scatto di futuro, forse è strappo dallo spazio, forse è respiro nello spazio, forse è spazio rapinato, forse è rivoluzione sibilante, forse è impasto di materiali parlanti (…) Forse io pratico la scultura”. In queste parole rotte (immagino, chissà, dettate, gridate al suo assistente mentre lui lavora) c’è tanta parte di lui. L’ossimoro : sensuale e duro, strappo o respiro di spazio (l’ossimoro, questa figura retorica che più d’ogni altra appartiene al suo lavoro, in bilico sempre fra offesa e sogno, fra rancore e splendore). Quell’idea di “materiale parlante” : perché Zorio sceglie (dopo lunghi riti compiuti, come uno sciamano, attorno ad essa) la materia del suo lavoro, ma poi lascia – pretende, anzi – che essa esprima autonomamente tutta la sua ambiguità, e vuole che gridi tutta l’incongruità del suo vivere, nell’opera, accanto a un’altra materia che con essa confligge (le due energie si toccano e, poiché Bachelard ha insegnato che ogni materia ha una sua anima, nasce da quell’incontro una nuova vita). Quel “forse”, infine, sempre ripetuto : specchio dell’ossessione, del dubbio, dell’ironia che segna tutto il lavoro e il pensiero di Zorio.
Scultore non ha mai dubitato d’essere Eliseo Mattiacci : che, muovendo anch’egli da quella coinè di cultura artistica che assai per tempo s’è unita alle istanze dell’”arte povera”, ha poi scavalcato, senza rinnegarli né disperderne i tesori, quei suoi passi iniziali, conquistando per sé una forma fondata sul disequilibrio, sull’avventura, sul rischio. L’immaginario di Mattiacci è così, da anni, indissolubilmente teso a catturare le scintille disseminate sulla terra di un’energia che egli avverte come “cosmica” : un’energia la cui scaturigine è da noi lontana nello spazio, ma che si riversa infine intatta nel nostro esistere quotidiano. Un’energia che regala a Mattiacci le molte “figure” della sua scultura, che nascono sotto le sue mani come eco di quell’universo che ci sovrasta. Microcosmo ha di recente intitolato un allestimento di sue opere alla Fattoria di Celle di Giuliano Gori, ove era anche una versione del Per Cornelia qui esposto : anch’essa un’eco di quel cosmo che è il luogo dei suoi sogni, delle scorribande della suo talento fantastico, tese sempre fra crampo logico e contrazione semantica della parola che scivola ambigua accanto alle cose, le tocca e le frastorna, sottraendo loro il più banale senso comune e restituendoglielo diverso, inatteso, per sempre altro rispetto a quello che tautologicamente le definirebbe, inchiodandole al suolo.
Sul disequilibrio, sulla precarietà logica, sul gioco d’una parola che corteggia la forma, quasi carezzandola d’ambiguità (qui, ad esempio, Guscio astrale, del ’97 : titolo che stringe assieme l’idea di una remota energia celeste a quella del grembo raccolto pronto ad accoglierne, quaggiù, l’impronta) si fonda analogamente la scultura di Carlo Lorenzetti. Che ha però, al contrario di Mattiacci, una prima maturità (dopo un avvio non immemore della grande esperienza dei Ferri di Burri) nell’alveo delle ricerche d’astrazione per dir così “classica” degli anni Sessanta. Di lì la sua scultura s’è andata sviluppando nel tempo verso meno severe sintassi di forma, fintanto che l’antica struttura formale essenziale al suo lavoro (quella dell’opposizione dinamizzante fra concavo e convesso, fra pieno e vuoto, fra ombra e luce) non s’è progressivamente volta a cercare la figura d’uno spazio segnato d’emozione, percosso dall’azzardo e dall’ipotesi fantastica piuttosto che non occupato tautologicamente dal peso e dall’ingombro dei materiali. Così che ora è davvero una “levità liciniana” (come ha felicemente scritto Flaminio Gualdoni) a condurre lo scultore : una leggerezza che stringe in uno i segni avventurati disseminati nello spazio e i sogni segreti e rarefatti che, nati dalle impennate improvvise del sentimento, restano per sempre interdetti alla ragione.
Lontano sempre da ogni declinazione sentimentale, e avendo per guida esclusiva l’egida di un pensiero tetragono a ogni ragione eteronoma rispetto a quella d’un fare pittura appoggiata soltanto ai suoi valori fondanti, è stato sempre Vincenzo Satta : il più rigoroso, forse, certo il più singolarmente isolato fra i pittori che, in Italia e in Europa, hanno scritto la vicenda maggiore di quella che è stata chiamata la “pittura analitica”. Rispetto alla quale, peraltro (ed è forse questa la ragione prima della sua appartatezza, cui non ha mai inteso sottrarsi) la pittura di Satta ha preso già dagli anni Settanta una distanza : nel modo, soprattutto, d’intendere la luce (dunque uno degli elementi fondamentali della grammatica pittorica) non come semplice ingrediente, come elemento di sintassi, come modo fra altri modi possibili della prassi artistica, ma invece come demone assoluto, come interezza di senso, come ultimo confine avvistato dalla sua volontà e dalla sua speranza. Di lì, senza mai confliggere con quelle premesse d’estremo rigore, Satta è andato recuperando all’interno del suo lavoro uno spazio all’autonomia significante del segno che, iscritto e quasi immerso nel manto lieve del colore, designa una spazialità che quel gesto breve e leggero percorre e misura : una spazialità vibrata ora fin sulla soglia di una castissima emozione.
Verso il tempo attuale
Qualunque rassegna che voglia proporre una registrazione della ricerca artistica in atto rischia lo strabismo critico che deriva, ovviamente, dalla vicinanza stessa dell’oggetto della propria indagine. Tanto più ciò avviene, oggi, in Italia : ove – a differenza di molte altre realtà nazionali europee, forse più univocamente indirizzate ai nuovi linguaggi e all’impiego dei nuovi materiali dell’arte – la ricerca della più giovane generazione persegue, con straordinaria libertà, una molteplicità di indirizzi stilistici e formali, consapevole da un canto del prestigio d’una tradizione che può essere ancora maestra vitale di forma, dall’altro della necessità di confrontarsi con quanto quella tradizione rifiuta e contesta, obbedendo ancora una volta al meccanismo che è stato tipico delle avanguardie del XX secolo. Un meccanismo, sia detto per inciso, che il mercato dell’arte ha saputo, almeno fino ad un certo limite cronologico, sapientemente sfruttare, accettando il nuovo nella misura in cui la sua ancora provvisoria sanzione di valore era propedeutica ad una storicizzazione delle esperienze pregresse.
Oggi, non è forse del tutto chiaro se ci si muova tuttora consapevolmente in quella logica ovvero, come propendo a credere, l’insorgere di sempre nuove (e sempre più affollate) frontiere del fare artistico sia di fatto sfuggito alle mani sapienti delle grandi concentrazioni di potere d’approvazione e di attribuzione di valore (nel frattempo spostatesi sensibilmente dal vecchio binomio critica-mercato a quello costituito dal museo, e dunque dalla figura del “curator”, che opera in accordo con un novero assai ristretto di grandi gallerie e mercanti internazionali) : le quali dunque si trovano anch’esse in difficoltà nel delineare quel panorama organico – fatto di ben dosati ingressi di new members e di strategiche ‘conferme’ : di valori cioè che trovano definitiva sanzione nel fatto stesso d’essere ‘scavalcati’, e con ciò posti nella categoria ambita di oggetti artistici consacrati – a cui il vecchio sistema dell’arte ci aveva abituato.
Se un ruolo, per quanto oggettivamente assai meno incisivo rispetto ad un recente passato, può dunque spettare ad critica interessata a mantenere una sua autonomia, è quello di esercitare, sulle più recenti espressioni artistiche, uno sguardo che sondi il valore formale di ogni singola esperienza, prescindendo quanto più sia possibile dal suo valore mondano, e tenendo in conto, oggi più che ieri, il proprio obbligo a non adeguarsi passivamente alle mode correnti, o peggio a partecipare in modo subalterno alle strategie di un sistema dell’arte che di fatto, della critica e della sua funzione, ha dimostrato di saper fare a meno. Che questo debba implicare, come doloroso corollario, una meno coinvolta sua partecipazione al momento germinativo dell’esperienza artistica, che in ogni fase d’avvio ha sempre avuto il sostegno e la complicità di una critica che si nominava ‘militante’, è possibile : certo è che mi pare esaurito il tempo in cui un esercizio critico militante e gli obblighi verso un giudizio consapevole dei valori storici e formali dell’opera potevano darsi uniti.
È con queste premesse che si è scelto di rappresentare la giovane ricerca italiana, in questa sezione della mostra odierna, attraverso un novero di artisti dalle diversissime radici e vocazioni, usi ad esprimersi in altrettanto diversi linguaggi, che vanno dai più tradizionali (della pittura, della scultura), dei quali questa pagina rende conto, ai più innovativi (della fotografia, del video, dell’installazione), dei quali discute in catalogo Brigitte Lamberz, portando nella sua testimonianza il tesoro per noi prezioso di un approccio critico più distaccato, e davvero europeo, alla nostra vicenda.
Milanese, alle spalle una lunga educazione nell’ambito dei territori di svincolo dalla tradizione della “pittura-pittura” (alta, nella capitale lombarda, di esiti splendenti d’immagine lungo tutti gli anni Settanta e Ottanta, e oggi spalto dialettico per molte nuove ricerche), Roberto Casiraghi muove dal vuoto per recuperare, in filigrana, tracce d’un vedere possibile, eventuale. Dal bianco, che più che colore di fondo è per lui luogo – grembo, quasi : protetto e ovattato – di ogni nascita, muove il suo rattratto immaginario, concentrato in radi segni, incerti essi stessi della loro natura : segni d’un disagio a costruire certezze, testimoni d’un animo che sceglie giorno dopo giorno l’ansia di comunicare invece che lo scoperto nitore del messaggio. Consapevole insieme di Klee e di Wols, Casiraghi cerca, come un primo Novelli, nella rarefazione dello spazio i morfemi di una grammatica visiva che, invece che i progetti della ragione, sondi le ipotesi e le avventure del sogno.
Analogamente, ed anzi ancor più radicalmente, fondata sulla scelta indeclinata del monocromo è la pittura di Sonia Costantini. Peraltro, la sua immagine è poi diversissima : colma di certezze, e di quasi sfrontata presunzione di bellezza ; tetragona all’esistente, ai suoi turbamenti, alle sue memorie. È tramata, la sua superficie, da una appena percettibile architettura geometrizzante : ma questo ‘disegno’, come un allarme posto sul limite estremo della percettibilità ottica, profonda infine a tal punto nel manto unito del colore da non essere altro che un avviso dell’artificiosità tutta mentale della costruzione pittorica : un ultimo spalto opposto alla fruizione dell’opera come pura, sensibilistica invasione di bellezza. Mentre la luce, vero e aspro demone della Costantini, s’incarica, senz’altro appoggio, di erigere e sostenere questi vasti spazi invasi dal silenzio, percuotendoli d’eterno.
A lungo Silvio Lacasella ha avvertito il fascino del paesaggio : di un luogo di natura, traversato dalle memorie della pittura. Così, cieli notturni e turbati, venti cozzanti in gorghi e voragini, luci strusciate d’albe e tramonti e luci bianchissime sulle cime innevate s’univano, in lui, a figure scese “da Friedrich, da Hokusai”, secondo quanto ha scritto una volta. In quelle sue cose, trovavano immagine perfetta, allora, una sua fonda vocazione romantica, temperata da una urgenza a dire con poco, quasi con asprezza e certo sinteticamente, il clamore e il tremore del mondo. Da lì, la sua pittura s’è andata progressivamente liberando sia dal vincolo della rappresentazione, sia dall’egida dei suoi lontani modelli : affondando vieppiù le ragioni del suo esistere nel segno, che scrive in affanno la superficie, quasi portandovi il disagio di un animo ; e nella stesura, data e cento volte distolta, di un colore insieme dolcissimo e impuro, forse malato ; mentre la luce, quella bruciata di un baleno o quella flebile di una candela, buca in lenti fili la pasta pittorica, come cercando quiete.
Giunta solo da pochi anni ad una sua densa maturità, la scultura di Ernesto Porcari può oggi dirsi una delle esperienze più originali della nostra ultima scultura. Essa è sbocciata sotto l’ala del magistero alto di Guido Strazza, da cui ha mutuato la centralità del segno nell’elaborazione dell’immagine, e di Carlo Lorenzetti, che le ha trasmesso la vocazione ad allungarsi leggera, disequilibrata nello spazio. Oggi essa, senza rinunziare ai suoi iniziali tesori, altri ne ha scovati, che ormai stringe fermamente in mano : prima fra tutte una straordinaria capacità fantastica nel dar luogo alle sue figure periclitanti, incerte di sé, trepide e ansiose : come tese verso una logica che puntualmente sfugge, verso una stabilità irraggiungibile. Le accompagna, nella loro corsa sventata attraverso un mondo che non le riconosce, un’ironia lieve ma sottilmente pungente. Patrimonio, l’ironia, di altre e diversissime esperienze dell’arte nostra, essa in Porcari si dà congiunta alla grande dimensione : in un matrimonio singolarissimo, al limite dell’assurdo o dell’incongruo, e anche per questo mirabilmente fecondo.
Altre radici ha Gregorio Botta : che fin nei materiali che da sempre ha adottato – ferro e cera, piombo e vetro, acqua e fuoco – apertamente dichiara le scaturigini prime della sua ricerca, da contarsi nel clima poverista degli anni Settanta. Parimenti – e forse più in profondo – agiscono su di lui suggestioni concettuali, riconoscibili nella forte pregnanza, che è sempre al cuore della sua opera, del lucido progetto mentale che la accompagna, e in quell’aria tersa e netta in cui la sua immagine prende luogo, da cui è sempre avvinta e come protetta. A tanto si va unendo, ora, una meditazione più pungente sul tempo possibile della fruizione dell’opera : tempo che è vieppiù, per Botta, una lunga, necessaria parentesi che l’opera impone al flusso ininterrotto e rumoroso dell’esistente. Nei confronti del quale l’artista ricerca per sé una sorta di radicale contrapposizione, un’estraneità donde possa germinare, appartata e silenziosa, l’immagine. Che – ed è questo un dato cruciale per intendere l’opera di Botta – non si contenta di ‘nominare’ concettualmente per la sua opera il disagio a vivere nel mondo, ma ricerca costantemente un corrispondente visivo idoneo a rappresentare quella intenzione.