Osvaldo Licini. Opere 1913-1929
Osvaldo Licini, da Bruto a Parigi (*)
“La sua pittura ‘verista’, se ancora in Italia ci fosse un minimo di interesse per l’arte, potrebbe dar da pensare a molti che vanno per la maggiore”. È Giuseppe Marchiori che scrive, proprio nel momento in cui Osvaldo Licini inizia pubblicamente, al Milione di Milano, la sua avventura astratta, nel 1935: scrive, sul giornale che ospitava i suoi commenti critici, del pittore di cui poi, attraverso lunghi anni di assidua fedeltà, accompagnerà acutamente il tragitto creativo, sino alla morte precoce, e sino alla stesura del primo, fondamentale catalogo dell’opera. E già in quella lontana occasione, quando era facile scambiare Licini per un giovane giunto proprio allora alla maturità, il critico intuisce e attesta – fors’anche, allora, contro l’opinione dello stesso Licini – l’importanza del suo lavoro trascorso.
In realtà, “in soffitta” – come scrisse più tardi – quella prima e già lunga tesa di lavoro (che pur con alcune pause s’estende dal 1913 al 1929) non ci finirà mai: nel senso che Licini, nell’atto di abbracciare con lo slancio del neofita e con l’ardore di un carattere sempre infuocato “l’arte dei colori e delle forme liberamente concepite”, della geometria che saprà “diventare sentimento, poesia”, in una parola dell’astrattismo, muoverà i suoi primi passi proprio dalla sua ‘vecchia’ pittura. “Volle prima di tutto crescere sulla propria opera”, ha scritto poi Maurizio Fagiolo: riconoscendo una realtà che Marchiori stesso aveva a suo tempo intuito, e che oggi vanno confermando le indagini stratigrafiche, condotte con l’ausilio della tecnica della riflettografia ad infrarossi, in grado di dimostrare ultimativamente quanto già s’era in parte supposto, vale a dire la costante e peculiare pratica liciniana di riutilizzare antichi supporti, e dipinti già perfettamente compiuti, modificandoli anche sostanzialmente (i primi risultati di queste indagini, recentemente allargate a tutta la produzione di Licini, sono esposti in questo stesso volume nelle schede delle singole opere, a cura di Mattia Patti). Dando così, dunque, a quel giro di frase di Fagiolo (“crescere sulla propria opera”) la felicità d’una intuizione non solo metaforica, ma nel profondo tramata nel corpo stesso, materiale, della pittura.
In soffitta, o quasi, quel denso lavoro iniziale è così finito piuttosto nella percezione di una critica che lo ha quasi sempre subordinato alle due epoche ulteriori della pittura liciniana: quella astratta degli anni Trenta, e quella della colma maturità, in cui Licini proclamerà “in faccia a Dio e agli uomini l’avvento di una mai veduta, perenne, strepitosa, frenetica, scintillante nostra dolcissima ‘irrealtà'”, e in cui verranno gli angeli ribelli, i personaggi, le lune (e fra esse l’Amalassunta, “la Luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”) a solcare lenti, silenziosi e interroganti i cieli azzurri o gialli contro i quali essi intrecciano le loro danze. Comprensibilmente, d’altronde, è venuta quella gerarchia critica: ché tanto a lungo è stata negletta e sottovalutata la figura intera di Licini (fin nel ristretto panorama italiano: quand’egli ha per certo, invece, vasta dimensione europea) da spingere i non troppi suoi esegeti a concentrare gli sforzi, a far barricata attorno a quelli che restano i suoi anni più straordinari.
Che ora il tempo sia maturo per una piena reintegrazione anche del primo Licini è merito degli studi che hanno, in particolare negli ultimi due decenni, restituito il giusto spessore agli anni Venti italiani: sfuggiti ormai a quella parzialissima nozione che a lungo (tanto a lungo che ancora adesso ne rimangono scorie soprattutto nella percezione che di quegli anni si ha fuori d’Italia, e segnatamente in Francia) li ha voluti chiudere nel binomio ritorno all’ordine – arte di Stato (fascista, dunque). Fu in realtà quello un decennio ricchissimo in Italia, mosso, al suo avvio, all’insegna d’una riemersione dell’istanza classica che ha ben poco a che vedere con i successivi, banali “ritorni” (nonostante che con essi sia stata molto spesso confusa), e che, trainata dalla nuova pittura di de Chirico e dalla speculazione di Savinio e poi di Bontempelli, fu capace di saldare l’ansia di riscoprire le proprie secolari radici ad un’idea, mai rinnegata, di modernità (“Classicismo – scriveva Savinio in Fini dell’Arte, uno dei testi teorici fondamentali e realmente caratterizzanti la temperie di “Valori Plastici” – che, beninteso, non è ritorno a forme antecedenti, prestabile e consacrate da un’epoca trascorsa: ma è raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica – la quale non esclude affatto le novità di espressione, anzi le include, anzi le esige”). A fianco di quella linea egemone dell’arte italiana, vennero maturando in quel decennio alcune grandi personalità, isolate (in quanto lontane da schieramenti e poetiche condivise), che avrebbero in seguito potuto confermare, incrementandole, le intuizioni d’allora: Morandi, de Pisis, fintanto che, proprio al limite estremo di quel tempo, Scipione consegnò al palcoscenico internazionale della Biennale veneziana il suo Cardinal Decano (del quadro, da riconoscersi come uno dei maggiori dipinti europei di quel tempo, non molti si avvidero, allora; ma certamente fra essi era Licini, che alla Biennale rivide sì, e meditò proficuamente, Kupka e Kandinsky, che gli sarebbero state sponde preziose alla nascente vocazione astratta, ma intese anche la voce così alta e breve, davvero maledetta, di Scipione: che ‘raccomanderà’ poco dopo a Marchiori con parole appassionate: “uno dei pochissimi che abbia qualcosa nel ventre! Lei farà bene a scrivere di Scipione”). Licini, che ad essi era legato per studi comuni, o per solidarietà, ovvero, nel caso di Scipione, soltanto per una fonda affinità di sentire, ribelle sempre alle convenzioni, è idealmente con loro: sin dall’inizio.
È il 1914 l’anno dell’esordio: alla “mostra di due giorni” (21 e 22 marzo) all’Hotel Baglioni di Bologna, dove Licini ha condiviso con Morandi gli anni d’alunnato all’Accademia, dal 1909. Espone, fra altre cose (“piccoli paesaggi, marcatamente disegnati, con intenti metafisici”, nel ricordo che Severo Pozzati, uno degli espositori del Baglioni, trasmise a Ragghianti, che lo riportò in Bologna cruciale 1914; “faccio del paesaggio arabesco”, aveva d’altronde scritto Licini stesso, poco innanzi, a Balilla Pratella: e l’una e l’altra testimonianza rendono plausibile che uno dei dipinti esposti sia da identificare con il Paesaggio con figura femminile e arcobaleno rinvenuto al retro di un’Archipittura di metà anni Trenta, e forse salvatosi dal macero cui Licini sottopose parte della sua antica produzione proprio in grazie al suo verso), l’Autoritratto e il Ritratto di Vespignani: i due soli dipinti documentati che ci rimangano dell’avvio di Licini pittore; di quel triennio, in particolare – 1913-1915 – che egli battezzò, scrivendone a Scheiwiller nel ’29, “Primitivismo fantastico”.
“Invasati da un cinismo brutalissimo”, opera d’un “futurista convinto, vecchio e disinteressato” volevano essere quei primi quadri (il primo dei quali andò in dono a Morandi), un po’ come erano gli scritti di quegli anni: quei Racconti di Bruto che Licini compose nell’estate del ’13 e che inviò a Pratella sperandone una pubblicazione su “Lacerba” (“non ci si potrà sottrarre a un interrogativo: come mai F. T Marinetti non accolse in “Lacerba” i Racconti di Bruto?”, si è chiesto poi Gino Baratta: perché si dovette accorgere, Marinetti, “che il giovane autore di racconti stava già al di là del futurismo, giocava, cioè, sulla retorica futurista con pericoloso ed abile disincanto”. Era insomma, in questo, un ‘futurista di secondo grado’, come l’avrebbe chiamato Cesare Garboli: che simulava la sua intera devozione al verbo iconoclasta, recitandolo). Opere prime, davvero, quelle due esposte a Bologna: nelle quali l’intento fieramente aggressivo, il grido e il sovratono che scendono da quegli occhi incendiati e quasi ferini dell’autoritratto, o egualmente dallo sguardo ebbro e dalla bocca sguaiata di Vespignani, consonanti entrambi con la temperie latamente futurista donde prendevano le mosse, sono assai più evidenti, più compiutamente espressi di quanto non siano confessate a chiare lettere le componenti formali dei piccoli dipinti. Che scendono, forse, da Derain, accostabile allora, come per primo suggerì Ragghianti, traverso le “riviste ‘Rassegna contemporanea’ ed ‘Emporium’ del 1913”, senza bisogno d’ipotizzare una conoscenza più diretta, tramite la madre e la sorella stabilmente residenti a Parigi: il Derain gotico e bizantino che va da La cena ai molti Autoritratti del ’13, ma che certo, dietro lo sguardo e le labbra sdegnose d’ognuno di quegli autoritratti, dietro quei suoi tratti fisionomici aspri, alteri e come scavati nella pietra, cela ben altri tragitti, svolti con piena consapevolezza dentro alcune delle vie maggiori dell’arte del secolo.
Nel corso dello stesso 1914 Licini è, coscritto, a Ferrara (dove dunque non può aver incontrato – come è stato da qualcuno sostenuto – De Chirico e Savinio, che vi giungeranno solo l’anno appresso); poi si stabilisce a Firenze, dove è ospite della famiglia dello zio Lucio e dove ha il primo studio. Non altro, del tempo fiorentino, è stato individuato come ipotetico fattore determinante alla sua crescita, pittorica o culturale, se non Soffici (e dunque, nuovamente, un’indicazione ‘futurista’, seppur ormai molto edulcorata e prudente). Quel clima comunque lo spinge a partire volontario per la guerra. Gravemente ferito ad una gamba, rientra a Firenze, fino alla primavera del ’17, quando, convalescente, parte per la prima volta per Parigi. I regesti liciniani si devono contentare, per questi anni e per quelli che seguiranno nel decennio, di segnalare alcuni suoi incontri (primo fra tutti quello con Modigliani, intensissimo e che lascerà più tardi un segno profondo sulla sua pittura), e pochissime opere. Che saranno indicate come “Episodi di Guerra (quasi tutti distrutti)” nelle risposte date a Scheiwiller. “Il maggior lavoro compiuto in questo periodo non sembra praticamente trascritto – ha scritto Zeno Birolli – come se egli fosse solo dedito a scegliere e a decidere sui significati della cultura e ad assimilare il filone autre dell’arte e della letteratura francesi, che entra nei suoi interessi – sono nomi che compaiono nelle sue lettere – da Villon a Baudelaire Rimbaud Mallarmé Apollinaire”.
Ma altro sono, poi, i dipinti superstiti relativi a questo tempo: pochi (si contano sulle dita di una mano, poco più), e misteriosi. Marchiori li assegnerà tutti al 1917, tranne i due Arcangeli posti al limite del decennio, di facies molto diversa e di datazione più complessa, a voler tenere in conto almeno i sicuri rifacimenti ulteriori (per i quali, vedi in questo volume le singole schede). Ragghianti, dichiarandone una presunta affinità con il Morandi delle Bagnanti (1914: ma più plausibilmente allora la desunzione può essere stata operata direttamente da Soffici), scriveva d’uno di questi dipinti – le Ballerine – che “aderiscono al monocromato o alla dicromia, hanno analoghe stilizzazioni arboree affusolate, e segnano le strutture interne con ombre portate”. Il che non toglie l’interrogativo non tanto sul modello che poté ispirare Licini in quest’occasione (certo egli fu suggestionato da Parade, cui assistette a Parigi nel maggio del ’17; e gli sembrò di coniugare, con le due versioni dei Soldati italiani, con i Due pattinatori, istanze meccaniciste ancora di vaga aurea futurista con l’assoluta attualità del binomio Cocteau-Picasso), quanto sullo strappo – che è forte, e difficilmente spiegabile – rispetto ai suoi orientamenti del ’13. Bruto, col suo portato di maledettismo, di “blasfemia terragna, irritata, come un urlo che conosce il rantolo e l’insulto” (Gualdoni), è davvero lontano; lontana è questa pittura di ora, lieve e arguta, divertita di sé e quasi ironica, a suo modo à la page, dalle prove bolognesi, così strettamente, inscindibilmente legate all’esistenza in tumulto di Licini: fin nel carico di materia che le ingombrava, di cui quasi, come di un fardello, si sarebbero volute liberare, e non seppero.
“Licini non ha ancora uno stile, un procedimento di padronanza ideale e fabrile dell’immagine”, scrive ancora Gualdoni, riferendosi al 1917. Né lo possiede, quel suo stile, al 1920, dopo un lungo periodo trascorso di nuovo a Firenze, singolarmente improduttivo. Marchiori ascrive a quell’anno il solo Ritratto di Ave: diviso in due metà, come a indicare emblematicamente una direzione ancora titubante del pittore, incerta fra memorie di belle epoque e citazione raffaellesca. Di qui in avanti, s’apre il terzo, fecondo periodo della formazione: il vero laboratorio liciniano. “1920-1929. Realismo?”: così ne dirà a Scheiwiller. Dubitando, dunque; ma forse dubitando più a causa della preoccupazione di coniugare il ‘vecchio’ tragitto con il nuovo che già gli preme dentro, che nel definire congruamente il decennio che sta per conchiudersi. Sempre a Scheiwiller risponderà anche di non riconoscere nel suo passato “nessuna opera importante da segnalare. Solo studi”; opinione che poi muterà, più d’una volta attestando fiducia in quei “200 buoni quadri che ho dipinti dal vero”.
Comincia a dipingerli a Parigi – dove s’è stabilito probabilmente nel ’20 – quei quadri. Fra i primi, i numerosi ritratti catalogati da Marchiori fra ’21 e ’23 attestano la compresenza di due divergenti suggestioni: l’una da ricondurre a Tozzi, che di Licini fu compagno affidabile e generoso lungo tutti gli anni parigini, ed oltre (quando, rientrato che fu Licini in Italia, Tozzi seguitò a difenderne l’opera nel suo ruolo, sempre più autorevole e fattivo, di promotore di mostre e aggregazioni più o meno ‘novecentesche’); l’altra da far risalire al fascino esercitato sull’italiano dalla più recente maturità di Matisse. Così, dipinti quali Mia moglie di Tozzi, del 1920, sembrano aver suggestionato per certo il Licini di Donna col turbante (1922); e il modo quasi sironiano di tornire il volume delle braccia nella Donna con mughetti, sempre del ’22, è forse giunto a manifestarsi in Licini ancora grazie alla mediazione di Tozzi. Mentre il Ritratto della sorella, e più ancora la Donna alla finestra, entrambi ascritti al ’21, sono scoperti omaggi all’iconografia e al pennello veloce, scivolato, del Matisse coevo (“Tutta l’opera di Matisse esprime molto bene l’uomo Matisse”, scriverà d’altronde più tardi, memore di quegli anni, Licini a Marchiori; “Cioè: entusiasmo, gioia di vivere, sensualità, lirismo, senso pagano dell’esistenza. Matisse è uno dei pochi che hanno saputo scoprire il volto della misteriosa bellezza, che per noi pittori è tutto quello che conta”).
È ancora Matisse che lo conduce alla sintesi delle Marine coeve? Quadri, anch’essi, che trattengono interrogativi. Dipinti a Saint Tropez, ovvero nelle Marche, davanti alle spiagge dell’Adriatico, alle quali sovente tornava dal soggiorno parigino, già prima di fissarvi stabilmente la dimora? E quel colpeggiare celere, a un angolo della piccola tela, di un pennello improvvisamente più intriso di materia cromatica, che designa ora un cespo di verzura, ora uno sperone di roccia – quasi una quinta, in un caso e nell’altro – e si dispone a contrasto con il liquido consistere, lo scivolar via del lungo e lento filo del mare, del cielo deserto, sarà da dir in ogni caso un intervento posteriore, dato sulla tela più antica a far risaltare maggiormente il vuoto che inquadra, e le poche direttrici in cui già ora si riassume il paesaggio liciniano? Parimenti, dibattuta dagli studi è l’influenza eventuale su queste pitture del segno nervoso, filante di Dufy: difficile in realtà da negare, tenendo in conto il prestigio d’allora del petit maître, oltre all’indicazione esplicita di Tozzi (“Matisse + Dufy + Friesz”).
Per certo, invece, può dirsi che il più vero paesaggio del ‘realismo’ liciniano venga qualche tempo appresso: tra ’23 e ’24, probabilmente, in lieve anticipo sui nudi modiglianeschi di metà decennio, e sulle prime nature morte bilicanti. Al ’23 Marchiori data (schedandoli ai nn. 50 e 55) il Cancello con alberi e un piccolo Paesaggio, quest’ultimo in singolare e certo involontaria convergenza con Morandi 1914, in cui le luci corrusche e saettanti scrivono come segni ustori le forme degli arbusti, delle case: retaggio probabile, ancora, del Derain più notturno e disagiato (ad un Derain più struttivo e solare, memore ancora di Cézanne, ripensano invece i due piccoli Paesaggi – Marchiori nn. 68 e 69 – oggi in mostra, dopo un’unica, probabile occasione espositiva a Parigi, negli anni Venti). Diversamente orientati sono, probabilmente dello stesso 1923, altri paesaggi (Marchiori nn. 46, 48 o 49), dove lo spazio è congestionato, in subbuglio, e gremito di linee e tagli prospettici che finiscono per contraddirsi l’un l’altro, mentre un poco d’ordine scende appena dall’orpello, ancora cézanniano, dell’albero-quinta che margina un lato della composizione. Questo modo del paesaggio prosegue, a singhiozzo, sino al ’28, quando un dipinto celebre come Il trogolo (uno degli otto di cui Licini inviò la riproduzione a Scheiwiller – datandolo in quell’occasione al 1928; ma vedi qui stesso la scheda del dipinto – che la pubblicò nel suo Art Italien Moderne, 1930) finisce per denunciare tutti i debiti che questo affannato comporre per crolli e vertigini dati in un magma di colore a tratti clamante ha nei confronti di Soutine.
Ancora diverso sarà il modo, infine, che è da dir maggiore del paesaggio liciniano d’anni Venti, e che principia nell’anno mirabile, il 1926, nel corso del quale Licini tocca la sua prima, alta maturità, con l’individuazione definitiva di quella spazialità, ovviamente antiprospettica, che trasmigrerà intera sia nel tempo astratto che in quello ultimo. Uno spazio, nasce ora, innervato da poche linee che s’incrociano sulla diagonale, atto a contenere non più che squilibri, improvvisi scivolamenti, minuti racconti senza costrutto, e piccoli luoghi di resistenza alterni a precipizi e voragini. Così sono Servigliano o il Paesaggio “Ruota”, tutti appunto assegnati al ’26; ma ancora il Paesaggio del ’28 (Marchiori n. 130). Quell’anno stesso, peraltro, altre intenzioni appariranno: e sarà la tentazione quasi strapaesana (singolare, visto tutto quel che Licini pensava e scriveva di Strapaese) del Paesaggio marchigiano già in collezione Della Ragione, o il grande cielo, condotto a piccoli tocchi separati, come ripensando il Cézanne ultimo, sopra il Paesaggio con la figuretta rossa a destra, precedentemente impostato (dal Marchiori schedato al 1925-1929, n. 131).
Le intuizioni spaziali pienamente esplicate sul paesaggio passano presto alle figure, e alle nature morte. Abbiamo lasciato Licini, al ’23, all’omaggio renoiriano del Ritratto della madre, e lo ritroviamo, dopo le incendiate prove da addebitarsi interamente a una suggestione dell’amatissimo Modigliani (c’è solo da stupirsi, in proposito, ch’essa agisca così tardi: 1925), che culminano nel Nudo della Pinacoteca di Ascoli Piceno, e quelle che in modo parimenti evidente rammentano Soutine (nominiamo le diverse versioni del Pastorello, la Nanny ottusa e stremata data al ’27, Marchiori n. 117, senza dimenticare taluni paesaggi), con alcuni diversissimi capolavori: fra essi la Testa di ragazzo (assegnata da Marchiori al ’23, ma spostata convincentemente da Mattia Patti dal ’25 in avanti) e la piccola Testa (Marchiori n. 89), anch’essa del ’25 e infatti ancora pregna di un senso di modiglianesca irriducibilità, e infine, tutta immaginata nel ’26, la triade strepitosa costituita dai tre Ritratti di Nanny. Dell’ultimo, o del più maturo (Marchiori n. 108), la lettura perfetta di Gualdoni, che vale rileggere estesamente, istituisce il necessario parallelo con il paesaggio, e indica come sia comune ai due generi l’idea di spazio che Licini ha a questa data elaborato, e cui resterà fedele anche molto più avanti nel tempo: “La montante verticale del braccio sinistro e la falcata spaziale del destro marcano, nell’evidente priorità attribuita da Licini in quest’opera al costrutto, una sorta di identificazione metamorfica tra corpo e paesaggio, con quel corpo che s’erge come un monte dall’orizzontale: e il volto, quel volto, è raggrumato ai pochi segni ai limiti dell’irreferenza, come marchi, come sigle d’una araldica del corpo. Ebbene, quando da lì a pochi anni Licini muoverà dall’idea di spazio/corpo e di sintassi fisiologica dei suoi paesaggi altri […], certo farà di quest’opera, per lunghi decenni appesa alle pareti di Monte Vidon Corrado come un’antica lettera d’amore, un punto d’abbrivio clamoroso: fino all’esito del Personaggio e la luna, quasi un omaggio testuale all’opera più antica”.
Analogamente nella natura morta, pur meno assiduamente frequentata, Licini scopre talora nel disequilibrio spaziale una chiave formale atta a dare immagine alla “poesia” che inseguiva. Così a principiare almeno dalla Natura morta con arancia o l’altra con il limone (Marchiori nn. 98 e 107, 1926), e fino alla Natura morta schedata al n. 128 (nella quale ultima, databile al ’28, sembra di sentire un’eco del diversissimo modo che ebbe de Pisis, anch’egli “italien de Paris”, nel condurre il genere: e in particolare di quella Bottiglia tragica, appena precedente, dove gli oggetti confusamente s’adunano sul piano di posa, e salgono poi a destra, a sinistra, a fare quel ‘tutto pieno’ che pur appartenne – in perfetta coincidenza cronologica con la desolata solitudine delle metafisiche Nature morte marine – al marchesino pittore). È vero altresì, comunque, che proprio nella natura morta Licini sembra tentare contemporaneamente più ipotesi formali, che vanno dal parco segnare della Natura morta con bottiglie (1927) al materismo di altri dipinti (ad esempio i due esemplari esposti a Torino, 1968-’69, registrati in catalogo ai nn. 28 e 37, rispettivamente 1926 e 1928). Sempre assai lontani, questi e altri dipinti liciniani della seconda metà d’anni Venti, quando le sue nature morte “diventano la metafora di un mondo instabile, provvisorio, franante” (Pontiggia), da quella ossessione del comporre sulla quale Morandi fonda l’intera sua ricerca.
(*) Nella stesura di questo testo si sono tenuti particolarmente presenti i seguenti saggi su Licini:
G. Marchiori, I cieli segreti di Osvaldo Licini, Alfieri, Milano, 1968 (primo tentativo di catalogazione dell’opera, cui si è fatto nel testo ampio e frequente riferimento, conservandone anche – ove non esplicitamente discussa – la datazione proposta per le singole opere); Errante, erotico, eretico, a cura di Gino Baratta, Francesco Bartoli e Zeno Birolli (con, in specie, i saggi di Birolli, Storia e temporalità circolare; Baratta, Il paradossismo di Bruto; Bartoli, Figure dell’incastro e metafore dell’aria nel linguaggio di Licini; e, dello stesso Licini, la scelta preziosa dai Racconti di Bruto, dagli scritti e dalle lettere); F. Gualdoni, Percorso di Licini, in Licini, catalogo della mostra a cura di Flaminio Gualdoni, Luigi Cavadini, Enrica Torelli Landini, Pinacoteca Casa Rusca, Locarno, 1992-1993. Fidia Edizioni d’Arte, Locarno, 1992 (il momento a tutt’oggi più alto ed acuto dell’esegesi critica su Licini).
Inoltre, fra quanto esplicitamente o implicitamente citato nel testo: G. Marchiori, La mostra del pittore Licini alla Galleria del Milione, “Corriere Padano”, Ferrara, 29 maggio 1935; U. Apollonio, Osvaldo Licini, XXIX Biennale internazionale d’arte di Venezia, catalogo della mostra, Alfieri, Venezia, 1958; Z. Birolli, [Alcune opere di Licini...], in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, a cura di Z. Birolli e Aldo Passoni, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, 1968; C.L. Ragghianti, Bologna cruciale 1914, “Critica d’Arte”, XVI, ott.-nov. 1969; G. Baratta, La metamorfosi magica di Bruto, in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1980; F. Gualdoni, Osvaldo Licini. La condizione scalza, catalogo della mostra, Lorenzelli Arte, Milano, 1982; Mario Tozzi, catalogo della mostra, a cura di Marilena Pasquali, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1986; E. Pontiggia, I cieli della fantasia. Opere su carta 1926-1958, catalogo della mostra, Galleria d’Arte Moderna, Milano, 1986; M. Fagiolo dell’Arco, “Qualcosa nel ventre”. Licini prima dell’astrattismo, in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, Martano, Torino, 1987; F. Pirani, Licini e l’Europa. La nascita dell’iconografia angelica, in Licini, catalogo della mostra, Galleria della Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 1988; S. Agosti, Per una semiologia della rappresentazione in Licini, ibidem; E. Pontiggia, Osvaldo Licini e il “novecento”, in Licini. Gli anni Venti, catalogo della mostra, a cura di Elena Pontiggia e Enrica Torelli Landini, Centro Studi “Osvaldo Licini”, Monte Vidon Corrado, 1992; E. Torelli Landini, Osvaldo Licini: percorso bio-bibliografico, in Licini, catalogo della mostra, Locarno, 1992, cit.; E. Pontiggia, Le nature morte di Osvaldo Licini, in “Quaderni Liciniani 2”, Centro Studi “Osvaldo Licini”, Monte Vidon Corrado, 1995; L. Giudici, Momenti dell’analisi critica sul primo Licini. Dagli esordi al periodo astratto, ibidem (in appendice al saggio, una completa bibliografia sino al 1994); G. Magnoni, Licini, secondo noi…, in Osvaldo Licini, catalogo della mostra, a cura di Bruno e Matteo Lorenzelli, Lorenzelli Arte, Milano, 2001-2002. Skira, Milano, 2001; D. Raspanti, Osvaldo Licini: dagli esordi al 1929, tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 2002-2003.