Assadour ad Assisi
Se gli avessero detto di scegliere fra “Cercle et Carré” e “Art Concret”, Assadour avrebbe certamente titubato, e tirato le cose in lungo fino a che non fosse nata “Abstraction-Création” a mettere d’accordo le due anime astratte (ma non solo quelle) della Parigi fra fine anni Venti e primi del Trenta; e si sarebbe volentieri nascosto fra le fila della sterminata falange dei quattrocento artisti (ex cubisti, ex concreti, ex surrealisti …) che vi aderirono. Annidato lì in mezzo, sarebbe stato al riparo da troppe attenzioni, sicuro di poter fare quel che gli pareva, persino un po’ di “astratto con ricordi”, come piaceva a Licini (e a Melotti) o, per stare a sue più prossime fonti e scaturigini, come andava facendo Picabia, che voltava proprio allora il verbo astratto in sorprendente discorso figurale. E hai voglia a dire che la storia non si fa con i se. Pensando ad Assadour, a questo soteriologico, afrodisiaco induttore fuori generazione che sarebbe piaciuto a Emilio Villa (piacque infatti a Libero De Libero, che scrisse, villianamente, di sue “visioni tra il pieno e il vuoto d’una solitudine”), non si può immaginarlo altro che circonfuso di “se”: di ipotesi, di interrogativi. Semmai destinati a non aver risposta.
L’ha spiegato molto bene, anni fa, Enzo Bilardello: che fra le fonti infinite che servirebbe rammentare per lui, distese dal deserto al Mediterraneo alla sua Parigi, dagli egizi ai romani agli arabi fino ai due “contuberni Klee e Kandinsky”, la tentazione è di buttare all’aria le carte, rimescolarle tutte e infine, in ottica critica, “alzare bandiera bianca”.
O forse si può fare l’inverso: dire di quel che – mi pare – si sia lasciato indietro, Assadour-le-Métèque, libano-afgano-francese, nel corso degli anni, e in particolare in quest’ultimo decennio, il cui fitto lavoro Giuseppe Appella raccoglie oggi ad Assisi – acquarelli e tempere in serie prestigiosa, e le prodigiose acquaforti-acquatinte. Prima fra tutte – fra quanto Assadour ha lasciato alle spalle – sta certamente quella vocazione che è pur stata sua, e che molta esegesi su di lui ha confermato, a ordinare le sue visioni all’interno d’una gabbia prospettica che scende da Leon Battista Alberti, da Piero della Francesca, da Luca Pacioli. Sull’adozione della quale, per certo, hanno inciso gli anni della formazione italiana, spesi fruttuosamente all’Accademia Vannucci di Perugia. Ma che oggi è interamente elusa, in favore di uno spazio tutto di superficie, che sulla prima pelle del dipinto rigetta e affastella tutti gli elementi della ‘storia’.
È lì che si danno convegno, gli ‘oggetti’ di Assadour: semiassi e rotelline, lune, lettere e numeri, ingranaggi, machineries, sfere e semisfere, cinghie rotanti, cupole rovesciate, nastri trasportatori (debitori del futurismo, di dada, o di Chaplin?; o forse un po’ di tutto questo insieme?), e adesso persino quei personaggi coloratissimi (che, ripensando le poupées di suoi anni lontani, sono fatti di quell’arcobaleno di colori che stupiva un Melotti ammirato e voglioso) visti talvolta attraverso – sembra – l’oblò di una lavatrice in modalità centrifugante. Lì, sul piano. Specchiati sulla superficie dove, senz’ordine e disciplina, senza nemmeno un grano residuo di gerarchia, convivono: dandosi semmai l’un l’altro qualche spintarella per entrare nel cuore dell’immagine.
De Chirico, s’è detto sovente: ma certo l’Assadour di oggi è troppo carico, rigoglioso, felice per avvicinarlo alla malinconia, all’attesa carica d’ansia e alla sospensione della metafisica. Piuttosto, è un retaggio dada-surrealista quello che gli consente il gioco, l’azzardo permanente e sistematico, quello sfiorare il caos senza cadervi, quel toccare per un attimo l’iperbole e allontanarsi stringendo in mano una sua verità. Mentre rimane cruciale, nella sua imagerie, il repertorio del concretismo anni Trenta, repertorio di segni e colori che si volevano non desunti da un’astrazione operata sul reale, ma autonomamente germinati dalla pratica pittorica: e, più di tutti, è allora il Kandinsky tardo e ultimo a sedurre, ancora, Assadour.