Guido Strazza, fra pensiero e memoria
“I segni sono tracce di gesti ma, prima ancora, sono segni di intenzioni […] Apparentemente definitivi e definitori, i segni sono lì, apparizioni di nuove realtà, a riproporci con molta precisione l’ambiguità di ogni loro possibile significato”. Guido Strazza scriveva queste note a partire dal 1974 (Appunti di lavoro, che qualche anno dopo verranno consegnati a Vanni Scheiwiller per la pubblicazione ne Il gesto e il segno): anno in cui egli confermava il suo impegno alla Calcografia Nazionale avviandovi una ricerca triennale sul segnare che si configurò come momento cruciale della propria prassi, e teoresi, artistica.
E, a ben vedere, tanta parte dell’immagine che Strazza ha cercato prima e dopo quel crinale degli anni Settanta, che ha significato per lui il momento di massima autocoscienza del suo fare, risiede nella nozione di segno elaborata durante i giorni spesi in Calcografia, confrontandosi in modo mai stato così intenso e frequente con l’incisione. Che da allora ha acquistato, nell’ambito del suo lavoro, non una primazia sulla pittura, ma certo un suo pieno, e autonomamente fondato, diritto di cittadinanza. Il lavoro svolto all’inizio e poi al cuore dell’ottavo decennio è dunque, per Strazza, un vero spartiacque: quand’anche, come si deve, si riconosca al suo lungo itinerario ideativo una molteplicità di direzioni intraprese, di strade intraviste e percorse semmai per un sol tratto, che sono confluite nelle esperienze degli anni Settanta, o che dopo di essi si sono sviluppate. E una convergenza di tanto diramato pensiero getta infine una sorta di guanto di sfida all’idea – che fu, per un frangente della nostra cultura, egemone e quasi tirannica – di un’identità monoliticamente perseguita.
Dagli anni della sua prima e già colma maturità – gli anni trascorsi a Milano allo scadere del sesto decennio, quando pone mano alle Metamorfosi – Strazza sa ad esempio che il segno sarà irrelato all’esistente (“così i segni, anche se possono essere usati per raccontare una storia, prima ancora raccontano la loro storia”). Parallelamente, nasce la consapevolezza che sarà “la miccia della memoria” ad accendere quel segno, riportandolo, con un crampo asintattico, dal passato all’oggi: “sin dal primo segno, sulla carta [esso] non può essere che trama di memoria”. Fin che l’insieme dei segni costituirà “un gigantesco groviglio di dati e documenti, un archivio universale della memoria”.
Sa anche, però, che quella memoria non potrà rilassarsi in ristagni del sentimento, e compiacersi in rimpianti, o malinconie. O, comunque, identificarsi con l’impronta di un sé che si ponga al centro dell’immagine, e la cui confessione giustifichi il suo apparire. Strazza parla, è vero, del segno come esito di un primus movens che nomina come “gesto” (“Al gesto segue un segno …”); ma dal suo orizzonte resta sempre lontano il gesto prometeico, che confessa e si confessa, quale era stato poco innanzi nei pittori d’azione. Vive – fin dal suo avvio alla maturità, ancora a Milano – una dimensione sicuramente successiva rispetto alla sconfinata speranza degli espressionisti astratti americani. E condivide piuttosto, forse senza saperlo, la meravigliosa certezza di Rothko, quand’egli negò che quanto faceva avesse attinenza con una cultura basata sulla estrinsecazione di sé: a chi mai può interessare la semplice confessione dei miei istinti, disse allora Rothko; e Strazza sottoscrive quel dubbio, quel pudore.
Molti anni fa, concludevo un mio testo sul suo lavoro scrivendo di “un lento scrutinio visivo della realtà che gli ritorna sulla tela, sulla carta, fatta più spessa dalla memoria, più complessa dal dubbio, più incerta e sfumata dal ricordo melanconico che ne accompagna il paziente, infinitamente graduato configurarsi in immagine”. Strazza annotò queste frasi, correggendone in parte l’intenzione: “leggo in queste parole come un afflato esistenziale che sento poco vicino a quelle che sono le mie intenzioni sul lavoro. Il dubbio lo sento piuttosto come un segno dell’oscillazione della realtà che, per questo, è sempre anche ricordo, malinconia …”. Anche in ciò, l’io che forgia e che si ripiega sulla tela o sulla carta, rimane un passo indietro rispetto al suo lavoro. Risale lentamente, per contro, la realtà: da indagare non ovviamente tentandone una mimesi, una ripetizione indifferente, ma svelandone i gangli nascosti, gli intrighi più fondi, un suo nucleo annidato e irrinunciabile. E che si svelerà infine attraverso una “coincidenza” (parola fondamentale del suo vocabolario) che l’opera scopre fra l’indagine nuova che la mano e l’intelletto si apprestano assieme a compiere (attraverso l’individuazione di un segno) e ciò che lo sguardo riconosce nel mondo come già dato.
È questa la misura entro la quale può dirsi che Strazza sia rimasto avvinto alla realtà, o meglio a quanto della realtà rimane – depurato da ogni sovraccarico d’emotività – nella memoria d’essa (e comunque lontano da scorie troppo invischiate con il sentimento). Cercatore, o ricercatore, di verità (Ricercare, appunto, chiamò un suo ciclo di lavoro esplicato soprattutto nell’incisione fra ’72 e ‘73): oltre l’apparire, oltre la grazia.
Ad un certo punto – proprio allo scadere degli anni Settanta, che abbiamo detto e che ripetiamo davvero cruciali per intendere lo spirito che anima la sua ricerca – questa tensione intellettuale pare sospendersi: in quello che è per certo il rivolgimento più rilevante nel percorso di Strazza. Lo spazio, allora, di cui egli aveva indagato l’infinitezza, diviene lo spazio che concretamente circonda le cose dell’esistenza. E la luce, che aveva intravisto come avviso d’assolutezza, scende nel mondo, a bagnare quelle cose: e sarà di volta in volta trepida, attimale, legata ai ritmi del giorno, del luogo e della stagione. Mentre il tempo, da eterno che s’era pensato, torna a misurare gli eventi e le tracce che l’uomo vi ha lasciato.
Sono i Segni di Roma che scrivono per primi, all’improvviso, una nuova storia, giusto all’avvio del nono decennio. Poco, all’apparenza, è cambiato rispetto alle tensioni che hanno segnato gli anni immediatamente precedenti: quanto meno, non il rigore e il perfetto governo di una tecnica ardua in cui Strazza è divenuto maestro; e non una delle rinunce che s’è imposto perché il suo lavoro fosse altro che una confessione di sé. Ma adesso, vasarianamente, la regola procede oltre sé stessa: ammette un’eccezione che pur ingloba. Sono marmi, pietre, colonne – spezzate, atterrate – quei segni; diverranno Cosmati ed Archi. Le une e gli altri segnati dal tempo che su di essi è passato, e del quale i nuovi segni, adesso, è come se cercassero e, al termine d’un lungo inventario, dicessero il nome. La memoria torna a cingerli d’assedio, come era avvenuto, in anni lontani, ai Balzi Rossi. Ma allora il segno s’inscriveva nell’alveo d’una cultura dominante – quella francese dell’art autre – come voce consonante con molte altre analogamente indirizzate. Adesso – poiché la sua splendida ‘nuova’ stagione prosegue tutt’oggi – il segno di Strazza può dirsi erede solo di se stesso: di quella purezza cercata e trovata in solitudine negli anni Settanta, contaminata dal sogno più recente, di toccare con mano il senso riposto del passato.
Strazza, fra pensiero e memoria
“I segni sono tracce di gesti ma, prima ancora, sono segni di intenzioni […] Apparentemente definitivi e definitori, i segni sono lì, apparizioni di nuove realtà, a riproporci con molta precisione l’ambiguità di ogni loro possibile significato”. Guido Strazza scriveva queste note a partire dal 1974 (Appunti di lavoro, che qualche anno dopo verranno consegnati a Vanni Scheiwiller per la pubblicazione ne Il gesto e il segno): anno in cui egli confermava il suo impegno alla Calcografia Nazionale avviandovi una ricerca triennale sul segnare che si configurò come momento cruciale della propria prassi, e teoresi, artistica.
E, a ben vedere, tanta parte dell’immagine che Strazza ha cercato prima e dopo quel crinale degli anni Settanta, che ha significato per lui il momento di massima autocoscienza del suo fare, risiede nella nozione di segno elaborata durante i giorni spesi in Calcografia, confrontandosi in modo mai stato così intenso e frequente con l’incisione. Che da allora ha acquistato, nell’ambito del suo lavoro, non una primazia sulla pittura, ma certo un suo pieno, e autonomamente fondato, diritto di cittadinanza. Il lavoro svolto all’inizio e poi al cuore dell’ottavo decennio è dunque, per Strazza, un vero spartiacque: quand’anche, come si deve, si riconosca al suo lungo itinerario ideativo una molteplicità di direzioni intraprese, di strade intraviste e percorse semmai per un sol tratto, che sono confluite nelle esperienze degli anni Settanta, o che dopo di essi si sono sviluppate. E una convergenza di tanto diramato pensiero getta infine una sorta di guanto di sfida all’idea – che fu, per un frangente della nostra cultura, egemone e quasi tirannica – di un’identità monoliticamente perseguita.
Dagli anni della sua prima e già colma maturità – gli anni trascorsi a Milano allo scadere del sesto decennio, quando pone mano alle Metamorfosi – Strazza sa ad esempio che il segno sarà irrelato all’esistente (“così i segni, anche se possono essere usati per raccontare una storia, prima ancora raccontano la loro storia”). Parallelamente, nasce la consapevolezza che sarà “la miccia della memoria” ad accendere quel segno, riportandolo, con un crampo asintattico, dal passato all’oggi: “sin dal primo segno, sulla carta [esso] non può essere che trama di memoria”. Fin che l’insieme dei segni costituirà “un gigantesco groviglio di dati e documenti, un archivio universale della memoria”.
Sa anche, però, che quella memoria non potrà rilassarsi in ristagni del sentimento, e compiacersi in rimpianti, o malinconie. O, comunque, identificarsi con l’impronta di un sé che si ponga al centro dell’immagine, e la cui confessione giustifichi il suo apparire. Strazza parla, è vero, del segno come esito di un primus movens che nomina come “gesto” (“Al gesto segue un segno …”); ma dal suo orizzonte resta sempre lontano il gesto prometeico, che confessa e si confessa, quale era stato poco innanzi nei pittori d’azione. Vive – fin dal suo avvio alla maturità, ancora a Milano – una dimensione sicuramente successiva rispetto alla sconfinata speranza degli espressionisti astratti americani. E condivide piuttosto, forse senza saperlo, la meravigliosa certezza di Rothko, quand’egli negò che quanto faceva avesse attinenza con una cultura basata sulla estrinsecazione di sé: a chi mai può interessare la semplice confessione dei miei istinti, disse allora Rothko; e Strazza sottoscrive quel dubbio, quel pudore.
Molti anni fa, concludevo un mio testo sul suo lavoro scrivendo di “un lento scrutinio visivo della realtà che gli ritorna sulla tela, sulla carta, fatta più spessa dalla memoria, più complessa dal dubbio, più incerta e sfumata dal ricordo melanconico che ne accompagna il paziente, infinitamente graduato configurarsi in immagine”. Strazza annotò queste frasi, correggendone in parte l’intenzione: “leggo in queste parole come un afflato esistenziale che sento poco vicino a quelle che sono le mie intenzioni sul lavoro. Il dubbio lo sento piuttosto come un segno dell’oscillazione della realtà che, per questo, è sempre anche ricordo, malinconia …”. Anche in ciò, l’io che forgia e che si ripiega sulla tela o sulla carta, rimane un passo indietro rispetto al suo lavoro. Risale lentamente, per contro, la realtà: da indagare non ovviamente tentandone una mimesi, una ripetizione indifferente, ma svelandone i gangli nascosti, gli intrighi più fondi, un suo nucleo annidato e irrinunciabile. E che si svelerà infine attraverso una “coincidenza” (parola fondamentale del suo vocabolario) che l’opera scopre fra l’indagine nuova che la mano e l’intelletto si apprestano assieme a compiere (attraverso l’individuazione di un segno) e ciò che lo sguardo riconosce nel mondo come già dato.
È questa la misura entro la quale può dirsi che Strazza sia rimasto avvinto alla realtà, o meglio a quanto della realtà rimane – depurato da ogni sovraccarico d’emotività – nella memoria d’essa (e comunque lontano da scorie troppo invischiate con il sentimento). Cercatore, o ricercatore, di verità (Ricercare, appunto, chiamò un suo ciclo di lavoro esplicato soprattutto nell’incisione fra ’72 e ‘73): oltre l’apparire, oltre la grazia.
Ad un certo punto – proprio allo scadere degli anni Settanta, che abbiamo detto e che ripetiamo davvero cruciali per intendere lo spirito che anima la sua ricerca – questa tensione intellettuale pare sospendersi: in quello che è per certo il rivolgimento più rilevante nel percorso di Strazza. Lo spazio, allora, di cui egli aveva indagato l’infinitezza, diviene lo spazio che concretamente circonda le cose dell’esistenza. E la luce, che aveva intravisto come avviso d’assolutezza, scende nel mondo, a bagnare quelle cose: e sarà di volta in volta trepida, attimale, legata ai ritmi del giorno, del luogo e della stagione. Mentre il tempo, da eterno che s’era pensato, torna a misurare gli eventi e le tracce che l’uomo vi ha lasciato.
Sono i Segni di Roma che scrivono per primi, all’improvviso, una nuova storia, giusto all’avvio del nono decennio. Poco, all’apparenza, è cambiato rispetto alle tensioni che hanno segnato gli anni immediatamente precedenti: quanto meno, non il rigore e il perfetto governo di una tecnica ardua in cui Strazza è divenuto maestro; e non una delle rinunce che s’è imposto perché il suo lavoro fosse altro che una confessione di sé. Ma adesso, vasarianamente, la regola procede oltre sé stessa: ammette un’eccezione che pur ingloba. Sono marmi, pietre, colonne – spezzate, atterrate – quei segni; diverranno Cosmati ed Archi. Le une e gli altri segnati dal tempo che su di essi è passato, e del quale i nuovi segni, adesso, è come se cercassero e, al termine d’un lungo inventario, dicessero il nome. La memoria torna a cingerli d’assedio, come era avvenuto, in anni lontani, ai Balzi Rossi. Ma allora il segno s’inscriveva nell’alveo d’una cultura dominante – quella francese dell’art autre – come voce consonante con molte altre analogamente indirizzate. Adesso – poiché la sua splendida ‘nuova’ stagione prosegue tutt’oggi – il segno di Strazza può dirsi erede solo di se stesso: di quella purezza cercata e trovata in solitudine negli anni Settanta, contaminata dal sogno più recente, di toccare con mano il senso riposto del passato.