I Basaldella: gli anni del dopoguerra
Il 1944 Afro è a Venezia, ove è probabile che veda sovente Dino, che insegna adesso presso il liceo artistico ed è assai coinvolto nella Resistenza; assieme, i due fratelli espongono tra l’altro in una mostra ad Udine, in maggio). Mirko è invece a Roma, dove è sorpreso da Marcello Venturoli (quello stesso maggio) in uno studio lindo e ordinato che stupisce il suo visitatore. Venturoli ne esce frastornato al punto da offrire una testimonianza sulle attuali movenze dello scultore assai confusa, e dalla quale si evince appena un suo sospetto dichiarato contro la funzione della “luce” (e l’atmosfera?) in scultura (un sospetto dunque nei confronti di una tradizione post-impressionista che si riconosceva allora interpretata parimenti da Rodin e da Rosso, e sulla quale egli non contava per un rinnovamento ‘oltre Martini’ che riteneva, anch’egli come molti altri, necessario per la vicenda plastica italiana); e una nuova attenzione di Mirko per la spazialità non naturalistica entro la quale dar figura al proprio lavoro.
È che non sembra essere, questo, il tempo giusto per il lavoro lungo della scultura, come Mirko scrive quei giorni stessi a Udine, alla famiglia di Dino: “anche la questione pratica non è cosa facile da superare […] non ho avuto il tempo materiale per riprendere il mio lavoro né lo spirito adatto”. Così, Dino e Mirko, analogamente, vivono un momento di rare opere, accompagnato però da una mai sospesa attività grafica, e certo da una concentrata elaborazione di pensieri e propositi nuovi. Carte, appunto – disegni a matita e probabilmente monotipi ad olio: una tecnica che i tre fratelli elaborano adesso, e che si trasmettono certo l’un l’altro: seppur, in ciascuno, con esiti formali diversissimi – espone Dino ad Udine nel maggio ’44; in esse, o in altre affini di quel giro di mesi, è evidente la tensione verso un’essenzialità del segno povero, a tratti aspro. Dimentico dell’ambiente, e talvolta in sorprendente sintonia con la plastica picassiana (un Nudo femminile, ad esempio, databile a quell’anno), esso designa figure senza orgoglio, spesso ripiegate su sé stesse come a difesa. Fra esse, un Ragazzo che dorme, che passerà quei giorni stessi dalla carta al bronzo: una delle poche sculture recenti che Dino può esporre ad Udine. Una figuretta timida e raccolta, chiusa in sé, macerata quasi dall’aria che la assilla: con poche sintonie in Italia, se non si riconosca in essa una tangenza non so quanto probabile con il sentire portato a Milano e a “Corrente” da Sassu, che vi mutua le esperienze condotte accanto a Fontana, a Tullio Mazzotti e al giovane Agenore Fabbri ad Albisola.
Più edotto di quel clima poteva essere Mirko: del quale, ascritta a quell’anno stesso (ed esposta probabilmente a Roma nel ’45), è una testa in mosaico policromo, Furore, che ricorda certo, almeno, il Ritratto muliebre di Fontana nello stesso materiale e d’analoghe dimensioni, di fine anni Trenta, ma come passato al vaglio della drammatica visionarietà che esplode in Fontana, sull’avvio del successivo decennio, nelle Teste di Medusa in ceramica, ghignanti sul primissimo piano della fruizione, dove esse incombono, la bocca spalancata nel grido, con la stessa violenza che sarà nella scultura di Mirko.
Anche Afro incrementa, questi mesi e anni che spende a Venezia (rientrerà a Roma nel ’45), la sua voce, confermando la nuova tensione espressiva che aveva già contrassegnato l’invio fatto, a fine del ’42, a Bergamo, ove il suo Seggiolone, a mezzo fra Van Gogh e Guttuso, aveva ottenuto non per caso un premio; e poi quello, appena meno enfatico, alla IV Quadriennale di Roma, dove le tre nature morte esposte, distanziatesi dalle suggestioni di Morandi e di Mafai che avevano governato tanta parte dell’opera sua nel biennio precedente, avevano il preciso sentore di un cubismo assunto prendendo a misura soprattutto Picasso e – come allora s’usava largamente a Roma, Milano, Venezia – alzando quella lingua a bandiera di una nuova indignazione morale. Nel segno della continuità con queste premesse da dir dunque ‘cubo-espressioniste’, Afro dipinge durante il ’44, tentando episodicamente anche sondaggi che in seguito trascurerà (verso poli distanti, e così peregrini per lui, come Modigliani o Boccioni); ma difficilmente si potrà consentire con Marchiori, che indicherà in questo giro di tempo un orientamento definitivo della propria vocazione. In realtà adesso, ed ancora almeno per un biennio, Afro muove i propri passi interamente entro quelli che sono i sentieri maggiormente battuti, in Italia, del rinnovamento della pittura gli ultimi anni di guerra e poi nell’immediato dopoguerra. Con tangenze forti sia con i suoi più prossimi compagni veneziani (Pizzinato e Santomaso, in particolare), sia con Guttuso, sia – soprattutto – con Birolli.
Intanto la tavolozza s’è incupita: governata ora sovente dai verdi e gli azzurri profondi nei ritratti, dai neri e dalle terre scure nelle nature morte – stesi, gli uni e gli altri, in una pasta cromatica fattasi alta e spessa. E tale essa rimarrà, con rare eccezioni, fino al 1947, quando si compie in Afro un radicale rinnovamento, che sarà portato a compimento l’anno seguente, presto accompagnato e ulteriormente sottolineato dal progressivo abbandono dell’olio e dall’adozione d’un medium più leggero: una tecnica mista che varierà negli anni, ma che conserverà nel tempo il suo carattere di trasparenza e di permeabilità alla luce. Forse l’ultima opera licenziata nel ‘vecchio’ registro è la Natura morta con carte da gioco (datata 1947, e segnata nel catalogo generale dell’opera al n. 167, essa è anche l’unica di quell’anno che risulti esposta nello stesso ’47: ed è dunque anche per questo è probabilmente da porre all’avvio dell’anno). Certamente successive sono comunque le tre piccole tele con il ritratto della moglie (Ritratto di Maria I, II e III, nn. 159-161), chiare e luminose tanto quant’era severo, quasi aggrondato, il registro cromatico immediatamente antecedente. Lo scoperto (e del tutto inatteso) omaggio a Guidi che Afro vi fa, assieme al singolarissimo – e anch’esso non più perseguito – approssimarsi ad un colore campito e scevro di dettati chiaroscurali, disposto entro forme di evidenza geometrica, ad un modo dunque neo-concreto (che, assai diffuso a Milano, non lo era altrettanto a Roma, dove Afro poteva avvistarlo quasi unicamente in Turcato) nella Natura morta con tenaglie (cat. n. 162), indicano che il momento di transito è avviato, e l’ampio spettro della ricerca è aperto su molteplici soluzioni. Nel ’48, Il pianeta della fortuna (cat., n. 181), il maggiore non solo per dimensioni dei dipinti di quell’anno, attesta infine che l’approdo è toccato, su una riva che coniuga la memoria attiva del primo cubismo con una non usuale riattivazione dell’idea dechirichiana del manichino metafisico.
Forse ancor più decisivo è il biennio ’47-’48 per Mirko, che accede in questo arco di tempo e negli ultimi mesi del decennio, oltre che alla sua definitiva maturità, anche ad una delle sue stagioni più limpide; ovvero, come a voler rispondere a una tradizione critica che avrebbe sovente guardato con un grano di sospetto i suoi molteplici e sempre nuovi orientamenti, ad uno dei suoi momenti più coesi. Avviene ora, dopo che erano state da alcuno già contate tre stagioni (Ercole Maselli, 1942) nell’evolversi dei suoi modi, un decisivo passaggio verso un’essenzializzazione della forma che finisce per nascondere la figura, e sembra abrogarne ogni velleità di racconto. Non mai da lui del tutto elusa, la figura fa adesso la sua comparsa come in margine ad una idea centrale di matassa, di incrocio, di nodo inestricabile che il segno realizza nello spazio: sovente, adesso, sulla verticale, ove pare s’arrampichi un’“impalcatura ossea, specie di scheletro d’una figura articolata nello spazio, come una gabbia metallica che chiude una massa d’aria fra il perimetro filiforme delle sue pareti sfondate” (Martinelli, 1956). Da sempre nominato come “neo-cubista”, in realtà il modo che Mirko declina in questi anni ha pochissimo a che vedere non solo, ovviamente, con il picassismo desunto da Guernica, o con la maniera desunta dalla vasta proposizione di opere più recenti che di Picasso fece la prima Biennale veneziana del dopoguerra, ma anche, ed anzi ancor meno (come vide già Enrico Crispolti), con la maniera più prossima ad una rivisitazione del cubismo storico (e assieme di certe inflessioni fauve) che sedusse tanta parte dell’arte italiana (più la pittura, per la verità, che non la scultura) nella seconda metà degli anni Quaranta, anche sulla scorta della conoscenza, mediata in particolare da Venturi, della nuova scuola francese dei Jeunes Peintres de Tradiction Française. Un transito, questo, che Mirko forse aveva brevemente percorso qualche tempo avanti, come sembrano indicare alcune carte acquarellate del ’44; ma da cui in seguito egli prese le distanze, per avvicinarsi ad un linguaggio più personale ed esclusivo.
In esso sembrano confluire indicazioni diverse, che vanno dalla fin ovvia presa d’atto delle più recenti soluzioni di Cagli ad altre memorie del tutto desuete per quegli anni, soprattutto italiani. Agisce su Mirko, ora – in particolare dal 1946 (quando si data la singolare Fantasia solare) al 1949 (anno cui spettano tra l’altro La sete e La fame), e attraverso tutto quel tempo in lui stilisticamente compatto, come si verifica in un gruppo d’opere di analoga intenzione che comprende i bronzi di Motivo musicale, di Insetto e fiore, di Dafne e Apollo, di Ettore, fra gli altri, oltre ad un nucleo importante di tempere su carta – una suggestione che imperfettamente nomineremmo di ‘surrealismo astratto’. Un ‘surrealismo astratto’ assai diverso da quello che Mirò consegnerà a Gorky (e donde, come si vedrà, prenderà le mosse Afro, qualche anno dopo, in America), e molto più dichiaratamente europeo: che certamente comprende Max Ernst (anche nella sua meno riconosciuta, allora, dimensione di scultore; Ernst, d’altra parte, “dal quale gli arriva anche il frottage”, come ha puntualmente annotato di recente Lea Mattarella), ma anche, probabilmente, Picabia e Duchamp (suggestioni, queste, che varranno anche per Afro, appena dopo); e, fra gli scultori, Lipchitz e Laurens (all’Amphion di Laurens, d’altronde, – proprio del 1937 – già Valentino Martinelli nel ’56 riconduceva il primo pensiero dell’Orfeo di Mirko del ’47). Incontri tutti che Mirko poté fare nel viaggio parigino (compiuto al seguito di Cagli, e assieme ad Afro) nel luglio del 1937, quando a colpirlo dovettero essere, più che Guernica o La Montserrat di González all’Esposizione Universale, le grandi rassegne “Les maîtres de l’art indépendant 1895-1937” al Petit Palais e “Origines et développement de l’art international indépendant” al Jeau de Paume: due straordinarie carrellate d’arte la cui importanza, per chi ebbe la ventura di visitarle (e non furono pochi i nostri artisti a farlo, stante anche la concomitanza con il grande evento dell’Esposizione Universale), non deve essere sottovalutata: pur se Mirko, a quella che era divenuta nel frattempo una preziosa miniera della memoria, scelse di tornare solo molti anni dopo. Sono comunque, questi, pensieri e ricordi che conducono lo scultore friulano, proprio a cavallo fra gli anni Quaranta e i Cinquanta, ad uno dei suoi più alti capolavori: i tre cancelli bronzei per il Mausoleo delle Fosse Ardeatine di Roma. In essi, come si riconosce sia nell’iter della progettazione grafica che nella redazione finale, il segno, inizialmente concepito come disteso arabesco, come puro incastro sul piano di motivi tratti da quel commercio con i miti e le figure di antiche civiltà con cui Mirko aveva da sempre dimestichezza, diviene presto segno d’ansia e traccia di dolore, impronta cieca di un furore che finisce per essere la chiave emotiva dominante della scultura, e per donarle la sua forza poetica.
Su un registro diverso si pone, nello stesso 1950, l’accentuazione patetica, o decisamente espressionista, cui attinge Dino in una delle rarissime sue opere scultoree conservate di un tempo, che va dalla metà degli anni Quaranta alla metà del successivo decennio, che fu certamente “di crisi e di difficoltà d’orientamento” (Crispolti): le Donne che gridano, un gesso di ragguardevoli dimensioni del 1950, esposto ad Udine l’anno seguente (non certo l’unico ad essere allora in quella chiave stilistica concepito ed eseguito, ma il solo ad essere giunto fino a noi). Fu quello un tempo lungo di quasi assoluto silenzio, complice anche la concentrazione e l’isolamento cui lo spinse il nuovo incarico d’insegnamento ottenuto a Gorizia, che valse a Dino la possibilità di prescindere (salvo che in alcune opere su legno, non particolarmente felici, che titolò Composizione, collocabili attorno al 1952, e che palesano una suggestione di Braque o di Gris) dal tirocinio neo-cubista – allora quasi d’obbligo per chiunque tentasse la via della modernità. Di fatto, ritroveremo Dino, nella seconda metà degli anni Cinquanta, intento a confrontarsi con pensieri tutti diversi e, sia nel Prometeo concepito in bassorilievo che nel Ragazzo con colombe, entrambi ascrivibili al 1956, pronto ad accedere a quel registro ‘barbarico’ che segnerà la sua tarda, e più alta, stagione.
Afro ha invece, al transito fra il quinto e sesto decennio, già avviato la sua conversione. Essa ha preso un deciso avvio nel corso del 1948, quando il suo neocubismo depone progressivamente il riferimento alla realtà fenomenica, e prende a comporre sulla superficie figure costruite dalla giustapposizione di elementi di geometria piana che, sovente, s’aggregano sulla verticale, sibilline e interroganti. S’è già visto come tappa fondamentale di questo modo sia da ravvisarsi ne Il pianeta della fortuna, che è forse il primo dipinto a portare così evidenti le stigmate delle novità che Afro sta ora acquisendo: fra le quali, a pari titolo decisive, s’enumereranno almeno la ricerca d’una figuratività ‘altra’ (per adesso, di non minore evidenza rispetto a quella tradizionale); la regressione del fondo da realtà atmosferica a schema cromatico, per solito composto da bande unite di colore totalmente accordati, e libero da giochi chiaroscurali e dunque naturalistici; e, frequentemente perseguita, una iconicità dell’immagine che ne agevola il perdurante rapporto – complici anche i titoli imposti alle opere (San Cristoforo, San Martino, Crocifissione, L’abbraccio …) – ad un’idea di ‘figura’. Il bilico, dunque, fra realtà e sogno, fra aderenza e eclisse del visibile che Venturi porrà a cemento del futuro ‘Gruppo degli Otto’ (ma che lo stesso Venturi ha teorizzato ben prima del 1952, data d’esordio del gruppo, scrivendo a più riprese di quell’“astratto-concreto” che ne costituirà il valore coesivo) è da Afro – come da altri suoi compagni di strada, d’altronde: primo fra tutti Corpora – già al ’48, al ’49, interamente e consapevolmente assunto. A questa sua immagine, che dunque ha per prima traghettato Afro verso la sua definiva maturità, il pittore resterà a lungo fedele: sino, almeno, al 1952, e comunque ben oltre il suo rientro in Italia dal lungo soggiorno a New York, e in generale dai suoi viaggi per il continente nuovo, che l’avevano occupato dall’aprile al novembre del 1950.
A quei mesi (durante i quali dirà a Dore Ashton nel ’55 di non aver dipinto) occorre però far risalire la conoscenza, e la seduzione su di lui operata, di un credo che – nei ricordi di Gabriella Drudi, che con Toti Scialoja gli fu compagna di ogni giorno al suo rientro dagli Usa – Afro definirà di “surrealismo astratto”: “Afro, persona così restia, segreta a se stessa, andava perorando la causa di un surrealismo astratto per una Roma di intellettuali di parte, impegnati, voglio dire, più nelle liti ideologiche che nelle analisi di linguaggio”, ricorderà appunto Gabriella Drudi. Ne discendeva una determinazione a dipingere molto ulteriore, e sostanzialmente diversa, dal modo neocubista: che dunque ci si potrebbe attendere Afro abbia abbandonato. Cosa che egli in realtà non fece, coniugando le nuove tensioni con le sue ‘vecchie’. Ne sortì una ‘doppia via’, che durò alcuni anni, in cui s’alternarono dipinti devoti all’impalcatura cubista ad altri smossi vieppiù dal vagare di un segno talora struttivo, talora interrogante; in un bilico che si concreta nel ’51, ad esempio, in Paesaggio per Ramon del Valle Inclan, da una parte, e dall’altra in Cronaca nera o in Caccia subacquea (ma anche nel Senza titolo, cat. n. 211, in cui un segno rabdomantico si fa, come era avvenuto in Hartung, unico protagonista della composizione); e nel ’52 – anno densissimo di lavoro – sempre ad esempio, in Falso bordone o nei numerosi dipinti intitolati Città, fino a Ricercarii, tutti dipinti ancora interamente calati in una strutturazione dello spazio neo-cubista, e d’altro canto in Agosto in Friuli, o La sopraffazione, fra gli altri, nei quali a Lam e a Matta sembra stringersi una nuova emozione.
Oltre alla primazia che va sempre più esercitando il segno sulla scomposizione cubista dell’immagine, emerge infatti nel corso del ’52 uno scarto ulteriore nella pittura: che, fra i dipinti di maggior impegno, si manifesta già in Ricordo d’infanzia del Museo di La Chaux-de-Fonds, in Per non dimenticare di collezione americana, nel Libro giallo del Museum of Modern Art di New York. In essi, e in altri di quello stesso magico anno, è come se un gran vento scompaginasse le sagge e prudenti sintassi costruttive di poco antecedenti. “Una gran ventata in un mucchio di foglie d’autunno” (Brandi) si posa adesso sulla superficie di Afro; ed è un vento che porta alla luce i segni, e i sogni, nascosti di Arshile Gorky; che libera la corsa automatica del polso; che spinge il pittore a cercare un più incerto ed oscuro destino di forma. Non si contenta più, Afro, di aprire a ventaglio figure già note; ora la sua mano rincorre più casuali incidenti di forma, minimi e inattesi racconti senza costrutto, avvitamenti e serpentine di un pensiero che non si sorveglia ma si guarda crescere, stupefatto quasi di se stesso. Si apre, lo spazio, in profondità sconosciute; era pianamente offerto, e si fa ora incerto e fluttuante, sospeso fra il vicino e il lontano, fra qui e un altrove sinora soltanto immaginato. Da pacificato che era, come didascalicamente esposto, si fa luogo di stupore e di conflitti, di cadute e di nuovi affioramenti alla superficie.
“Scardinati”, ha scritto ancora Brandi, “gli aggregati stretti e quasi a coltello” che costruivano saldamente i suoi dipinti del ’48, del ’49, del ’50 – ma, come s’è visto, anche episodicamente di quelli del biennio seguente – Afro s’avvia a dar figura a quel ‘vero di memoria’ che sarà durevolmente suo: in cui ogni flagranza di vita è come celata, ottusa, nel respiro lungo della nuova spazialità del dipinto. Nel contempo, una non doma memoria figurale resiste nel reclinarsi, distendersi o impennarsi delle sue forme (che finiscono sovente “per abbattersi tutte in un groppo, per gravitare in un punto che è il centro profondo del quadro”, ha scritto Calvesi). Un colore infinitamente velato le avviluppa, annidato nel manto della pittura. Traspare, come abbacinato da veli leggeri; affiora allo sguardo da indeterminate profondità. Per sottilissime inframissioni di esili corpi cromatici, la figura sale lenta dal fondo, affiora per un attimo, frana di nuovo nella profondità non misurabile del dipinto.
Si susseguono, ora, i capolavori: tra i molti altri, nel ’53, Ricordo d’infanzia e Cronaca nera III; nel ’54 Doppia figura; nel ’55 – certo un apice di questo modo – Figura I, Figura II, Incontro, El Sereno, ancora una versione del Ragazzo col tacchino (cat. n. 348). E ogni volta è quel colore suadente, trafitto ma non ferito dalla luce, che perde i suoi confini nei timbri gemelli che lo affiancano; un colore mormorante “che sospende la superficie in una liquida atmosfericità”: così Gabriella Drudi individuava con straordinario acume la peculiarità dello spazio di Afro a questo tempo.
Uno spazio che conosce la superficie e vi si fonda, ne avverte la tentazione, ma poi la allontana da sé – per adesso: altro avverrà di qui a poco – e sceglie al suo posto uno spessore davvero quasi “atmosferico” ove dare immagine alla sua figura. Due volte, fra ’53 e ’54, Afro scrisse, quasi controvoglia, della sua nuova pittura: ad Umbro Apollonio prima, ad Andrew Ritchie poi. A entrambi parlò della “memoria”, individuando in essa il luogo cruciale della propria ispirazione. Memoria che è per lui non un malinconico riandare del sentimento a un’esperienza trascorsa, ma l’istante in cui la realtà conquista la sua ultima interezza di senso, e in cui la conoscenza, allontanando gli orpelli d’una casuale esperienza, si fa ultimativamente vera. “Le mie immagini pittoriche […] sono ancora un corrispondente poetico della realtà, di cui la memoria conserva la parte più essenziale, rifiutando tutto che sia pratica ed esperienza”, scrive ad Apollonio. E a Ritchie, avendo elaborato il proprio pensiero ancor più chiaramente: “sento che la sostanza del mio colore, lo sviluppo delle mie linee creano uno spazio che non è altro che lo spessore della memoria. Le forme si aprono e si determinano come impronte, dimensioni provenienti da molto lontano”.
“All’opposto, anche le più recenti opere di Mirko presuppongono la figura umana”, scriveva Argan nel ’54, introducendo in catalogo il vasto gruppo di sue opere (nove sculture, cinque pitture) che ospitava la XXVII Biennale di Venezia; anche se riconduceva subito appresso, lo studioso, quella nozione di “figura” in un alveo diverso da quello di una mimesi puramente fenomenica: “non come specifica sembianza, ma come valore”, culmine – quel resistere d’una ‘figura’’ al cuore dell’immagine – “di una sua approfondita esperienza classica”. È come se Argan, guardando agire Mirko in questo tempo per lui cruciale, denso di successi e riconoscimenti internazionali, in cui tutte le sue molteplici fonti d’ispirazione vengono a confluire in un solo alveo, che gli appare forse gonfiarsi di troppe tensioni centrifughe, è come dunque se lo studioso cercasse per lo scultore una via privilegiata, un motivo formale unificante. Che trova infine nell’idea di un “disegno […] momento metafisico della tecnica, e cioè tecnica mentale o dialettica [che] come tale comprende tutti gli atti ed i fatti della scultura, e deve portarsi non sull’oggetto, ch’è già idea e in certo senso disegno, ma sulla materia”. Non altrimenti che così, mettendo in sordina le varianti formali di un ‘disegno’ che conduce dunque il suo autore a scelte tanto separate quali sono quelle che s’esprimono – ad esempio, e solo per restare a talune delle opere presentate nel ’54 a Venezia – a Stele, Voci, o Elemento architettonico, da un canto, e d’altra parte a Chimera o a Il leone di Damasco, Argan individua il collante della ricerca di Mirko. “Entro quella materia, nel suo levitare o fendersi o scavarsi, l’artista segue pur sempre un filo di ragione, des raisons que la Raion ne connait pas; ma proprio perciò, filtrando attraverso la poetica surrealista, ne rovescia i termini, e si carica di ragioni morali che il Surrealismo, per certo, ne connait pas”.
È una ‘difesa’, questa, del molteplice indirizzarsi della ricerca plastica di Mirko negli anni Cinquanta che trova occasione e giustificazione nei dubbi da alcuni avanzati a proposito della stupefacente mobilità stilistica dello scultore nei mesi immediatamente precedenti, e che si ripeteranno anche in occasione della sua uscita veneziana. Di Emilio Villa, ad esempio, che ne scrive dubitosamente su “Arti Visive”, al margine d’una personale tenuta da Mirko alla Schneider di Roma nel gennaio 1954; o, quell’anno stesso, di Mario Negri su “Domus”: “Come possono convivere, scrive Negri, influenze che provengono, ad un tempo, da culture diverse, dalla Cina e dal Messico, da Brancusi e persino da certe forme rovesciate di Gaudì? […] si vorrebbe da lui maggiore unitarietà, un ritmo meno ansioso, più continuo e stabile”. Una difesa, però, che non può che apparire forzata: come altre di quel tempo, ciascuna tesa a rintracciare in Mirko una difficilmente verificabile coesione di linguaggio. In verità, forse è proprio nell’opposta presa d’atto di un animo che si sottrae al ‘rigore’, o al rigorismo, che pretende di vincolare vieppiù, in questi anni, ogni slancio indagatore che si potrà trovare una corretta dimora al “ritmo ansioso” che certamente è da riconoscere in Mirko. Che si cala rabdomanticamente nella materia e vi accumula segni esoterici, scoprendo adesso definitivamente l’irriducibilità della propria lingua ad un progetto purista di forma; ma che proprio per sfuggire a quel purismo, e nel dar ascolto all’opposto alla voce molteplice di quella che egli stesso nominerà la “vita del mondo circostante”, va incontro al rischio della dispersione di sé in rivoli apparentemente incomunicanti.
In una rara e preziosa testimonianza sul significato del suo lavoro, Mirko sembra, l’anno seguente, dare conferma della complessa molteplicità della propria ispirazione: dicendo delle “radici umane profonde” che ha inteso lasciar in esso riconoscibili, quando quel lavoro “trasmette idee, evoca sentimenti, racconta la vita delle cose e degli uomini”. A questa vocazione profondamente umanistica, egli aggiunse una fedeltà costante al surrealismo storico soprattutto francese, e – segnatamente a partire dal 1952, anno di un viaggio determinante in Siria e in Giordania, di cui tra l’altro scrisse emozionato a Dino – una più libera e consapevole indagine dello sconfinato patrimonio d’immagini di un Oriente di cui aveva sino ad allora subito l’attrazione quasi senza conoscerlo. È da quel tempo che con maggior frequenza i suoi legni si caricano di un talora tripudiante, accesissimo colore; e i suoi bronzi portano come stigmate l’impronta di sogni e simboli remoti: segni tutti di come il contatto con quel mondo lontano abbia intensificato la sua propensione a dar volto al mitico, al favoloso e all’onirico che Cagli gli aveva per primo suggerito, e che l’incontro con il surrealismo aveva, poco dopo, confermato. Vi fu chi scorse, al limite di questa stagione, in questa poggiatura dell’animo prima che della forma di Mirko, una “crisi archeologica” che aveva tolto “efficacia [alla] presenza di Mirko” nel panorama in fermento della scultura italiana. Certamente quel nuovo invaghimento ne spostò in avanti le prospettive, sottraendolo per qualche tempo all’attualità del dibattito; ma riconsegnandoci oggi il cuore dei suoi anni Cinquanta, e il prosieguo del decennio, come un’esperienza rara, e non scambiabile con altre, allora certamente più attuali ed organiche al dibattito plastico contemporaneo.
Al pari dei fratelli, Afro non ha scritto spesso sulla sua poetica; pure, dopo i brevi testi del ’53 e del ’54 che si sono nominati, un suo scritto, risalente alla fine del ’57, steso per Venturi che lo pubblicò nel ’58 in Pittori italiani d’oggi è – a rileggerlo oggi – prezioso a intendere la ragione del nuovo orientamento che egli s’apprestava a dare alla sua pittura. “Da tempo provavo un certo disagio di fronte al mio lavoro: ero estraneo al quadro che realizzavo come se non rispondesse a uno svolgimento, ad una necessità interiore che diveniva più urgente e precisa. La mia pittura è sempre stata soggettiva, ho sempre cercato uno spazio fatto di memoria e ritrovato per sentimento e intuizione; ma certi simboli rappresentativi che mi erano sembrati dar ordine, in un certo senso stabilire il nesso con la realtà, sono divenuti recentemente privi di interessi, schermi fra me e il quadro, ostacoli a nuove scoperte. Certi elementi figurativi, anche filtrati al massimo o ridotti ad abbreviazioni ideografiche, di cui prima avevo sempre creduto di aver bisogno, ora mi apparivano detriti malinconici, familiari come cifre, ma non veri. Sentivo il mio lavoro lontano da me perché non mi bastava rappresentare una realtà di fantasia, di sogno o di memoria […], ma volevo che quella realtà si identificasse con la pittura e la pittura divenisse la realtà stessa del sentimento, non la sua rappresentazione […]. Della memoria resta l’indistinzione, un’onda lenta che trascina con sé tutto il sapore di una stagione, ma non più le sue conformazioni, nemmeno più l’ombra dell’ombra ma solo l’infinito ‘negativo’ di quelle forme ricordate, piuttosto che il limitato sebbene indefinito ‘positivo’”.
La “memoria” muta ora dunque il suo ruolo: non sarà più, come è stata al cuore degli anni Cinquanta, il modo in cui la realtà (esterna od interna, indifferentemente) conquista la sua interezza di senso; in cui la conoscenza, transitando in essa e scalzando così la casualità flagrante dell’esperienza, si fa fonte di verità. Retrocede, adesso, a un sentimento più imperfetto d’assenza, o di lontananza, che seguiterà talora ad avvolgere l’immagine (“un’onda lenta che trascina con sé tutto il sapore di una stagione”); svaniscono i “simboli rappresentativi” (desunti da una lettura europea di Gorky) che la punteggiavano; di contro, affiora la tirannia della superficie, ove tutto si verifica e si comprova, ove tutto si carica di verità: ora che sente l’urgenza di una “materia [che] nasca dai suoi stessi strati di calcolo e di abbandono”. Che è frase, nel ricco argomentare che Afro fa nel testo consegnato a Venturi, nella quale è facile ravvisare la suggestione dei discorsi quotidianamente scambiati con Toti Scialoja. Scialoja che, assieme alla compagna Gabriela Drudi, è per certo vicino come nessun altro ad Afro nel momento in cui egli scambia una maturità interamente posseduta con i nuovi progetti.
Il bianco, il nero, il grigio dominano adesso sul colore variato degli anni precedenti. Bianchi che si affogano di ombre, di nebbie, di veli; e s’ingolfano in pigre oscurità, in caligini notturne. Neri che crepitano luce, e si sotterrano nel chiarore che tutto intorno li assedia. Così sarà – in questa sua prima stagione, che scorre dal ’58 almeno fino a tutto il ’60 – il bianco e nero di Afro. Colore fra altri colori, il nero: perché il verde di Trifoglio (1958), ad esempio, o il rosso acceso del Senza titolo dello stesso ’58 (cat., n. 424), o di Via della Croce (1959), dicono lo stesso: la ricerca d’un timbro che squilli fra gli altri – o “di un colore che s’accenda ‘fuori misura’”, secondo quanto aveva detto lui stesso.
Per adesso, s’avverte raramente un’intera rinunzia alla definizione dei trapassi tonali che assicurano alla tela la sua perdurante, e lentamente digradante, profondità. Se davvero appartiene al ’58, il Nero piccolo (cat., n. 406) è – ma non per caso in una dimensione quasi di bozzetto – il primissimo avviso della temperatura diversa cui salirà la pittura solo a muovere dal ’61, e sulla quale si registreranno molte opere datate fra ’62 e ’63. Nel Nero piccolo, le forme scure – ovoidali, imperfettamente circolari, come l’una all’altra annodate in una danza misteriosa – designano ormai non altro che la superficie, scrivendosi su quel bianco calcinato che non è più fondo capiente, ma parete che respinge verso il primo piano. Sulla stessa linea si disporrà Passaggio obbligato del ’59; poi, più gestualmente sommosso, il Tempo coperto del ’60. Infine, al culmine di questa stagione, i due capolavori de Le fosse (Sutri), del ’62, e de Il castello della Galleria Nazionale di Roma (1963).
In ognuna di queste tele, affiancate da molte altre, e da un intenso lavoro su carta, Afro attinge una dimensione nuova, che bruscamente ne allontana l’immagine di sapiente “pittore di grazia” così incongruamente, allora, talvolta attribuitagli. Certo, poté pesare sul ‘nuovo’ Afro che nasceva al transito dei due decenni, l’incontro romano – quei giorni stessi – con Willem de Kooning (che, al contrario di quanto spesso si asserisce, egli conobbe solo allora), e la visione diretta dei Roman paintings, dei Black and white. Rome, dipinti proprio nello studio di cui Afro gli aveva offerto l’uso, tra fine ’59 e primi mesi del ‘60. Né va considerata, questa sponda del lavoro di Afro, come esclusivo approdo della sua pittura di quel tempo: ché anzi essa si diede in presenza di altro lavoro, diversamente orientato verso quella persistenza dell’antico canone formale che sarebbe d’altronde tornato a farsi egemone sulla metà del decennio. Ma occorre ricordare che la ‘svolta’ di Afro ebbe origine ben prima dell’incontro con de Kooning: ed è annidata già nelle sue parole, di tanto presaghe, consegnate nel 1957 a Venturi.