Antonio Corpora: gli anni cruciali

Antonio Corpora: gli anni cruciali (1946 ‑1952)

 

La pittura di Antonio Corpora ha attraversato una gran parte del nostro secolo. Per almeno tre decenni, da quando sbocciò (e per la prima volta fu vista, in una mostra fiorentina dei 1930) a tutti gli anni Cinquanta, essa s’è schierata sul fronte più avanzato della modernità: con naturalezza, e come senza fatica. Senza che mai il suo star lì, su quello spalto rischioso e difficile, si ripiegasse sulla sua natura istintivamente felice, fiaccandone lo slancio gioioso con il peso di un progetto troppo fiscalmente perseguito.

No: non è stato mai, Corpora, un chierico dell’avanguardia. Ha, prima, affondato in essa le sue radici, prendendone nutrimento; poi tanto le ha restituito: senza pretenderne in cambio garanzie, statuti o salvacondotti. Ha, così, molto sperimentato, e molto ha scelto di dimenticare: sempre scegliendo l’oggi, e quasi voltando le spalle a un rassicurante passato. Al punto che può dirsi, quasi, che egli abbia sperperato (e questa è una sua colpa: che condivide con quanti ‑ ed io stesso, in anni recenti ‑ ne hanno seguito il lavoro spesso accontentandosi di sottolinearne gli esiti ultimi) la memoria storica di sé, e di quel tempo lungo che lo vide al centro della rinascita dell’arte italiana nel nostro cruciale dopoguerra: dei suo reingresso, a pieno titolo e con un peso ancora oggi ampiamente sottovalutato, nel dibattito europeo.

“Egli, africano, è tra noi forse il più europeo”, scriveva di Corpora, nel ’47, Renato Guttuso. Alla cui onesta testimonianza di allora possiamo aggiungere, oggi, questa piena consapevolezza: che in quel giro d’anni la qualità della sua pittura sia stata non d’un sol punto inferiore rispetto a quella espressa da quei cespiti di cultura internazionale (i jeunes peintres de tradition francaise, e in generale il clima francese d’immediato dopoguerra) cui Corpora si riferiva, avendo individuato in essa, lucidamente, l’unico linguaggio in grado di costituirsi a comune paradigma europeo, e dunque l’unico capace di traghettare la nostra cultura d’immagine oltre le secche autarchiche lasciatale in eredità dal trascorso regime. La vicenda del neo-cubismo in Italia è, come si sa, assai complessa. Né varrà qui ripercorrerla in una sintesi estrema, se non per quel tanto che serva ad avvertire del ruolo decisivo che Corpora giocò nei due suoi momenti cruciali: al suo primissimo insorgere, e – subito appresso ‑ al suo diramarsi in due filoni principali, l’uno di forte implicazione contenutista, l’altro più dichiaratamente sbilanciato su valori autonomi di forma.

Mentre, dunque, nel concreto della pittura suggestioni mediatamente e variamente desunte da una rimeditazione sui più vari testi del cubismo (da quelli remoti dei cubismo analitico alle più prossime declinazioni sia picassiane che braquiane degli anni Trenta) s’erano diffusamente date in Italia già negli anni di guerra (nell’ambito della seconda fase di “Corrente”, soprattutto), sul piano teorico i primi avvisi d’un nuovo dibattito orientato in tal senso si registrano nel corso del ’46: forse sollecitati in prima istanza da un contributo di Raymond Cogniat, apparso sulla rivista milanese “Argine Numero” nel dicembre dei ’45. In quel testo, prendendo le mosse da una mostra collettiva tenutasi nella primavera di quell’anno in una galleria parigina (la René Drouin, con la presenza ‑ fra gli altri ‑ di Fougeron, Gischia, Le Moal, Pignon, Singier, Tal Coat), il critico delinea la possibilità che dal ceppo del cubismo storico stia ora per germinare in Francia non una pallida ripresa di stanchi stilemi formali ma una nuova, vigorosa vicenda d’arte giovanile (della quale, oltre agli espositori della mostra parigina, egli vede protagonisti Bazaine, Estève e Lapicque).

   “Et voilà que (…) s’affirme de plus en plus leur volonté de construire un monde plastique plus soumis à leur vision qu’à la realité”, scrive  Cogniat in quel suo intervento. Ed in ciò sta il tentativo, dapprima, di conciliazione dei due termini (realtà, dunque, e forma pura), assumendo però subito appresso decisamente l’uno come contraltare dell’altro. Corpora partecipa immediatamente a questo dibattito, attorno al quale subito e lucidamente avverte che si giocheranno i destini immediati dei rinnovamento delle arti in Italia.

Nel dicembre del’46, espone a fianco di Fazzini, Guttuso, Monachesi e Turcato alla galleria del Secolo a Roma (poco dopo la stessa mostra andrà a Milano, alla galleria S. Spirito): in catalogo appare un Manifesto del neo‑cubismo che ‑ ripreso tempestivamente da “La Fiera Letteraria”, e da quelle colonne reso disponibile ad una più larga riflessione, che ulteriormente si amplia proprio in occasione dell’uscita milanese del gruppo ‑ si propone di fatto come un primo e assai precoce momento di elaborazione di quell’ordine di problemi che di qui a pochissimo si porranno come centrali nel dibattito artistico italiano. Il Manifesto è firmato collegialmente da tutti “gli Espositori”, ma sostanzialmente due posizioni vi si confrontano: ancora contigue, e come in attesa di armarsi l’una contro l’altra. “Personalità di formazione chiaramente diversa”, si definiscono i cinque: mutuando dal manifesto della “Nuova Secessione Artistica Italiana”, firmato pochi mesi prima a Venezia, il senso di una aggregazione provvisoria di ricerche di differente radice e natura, resa necessaria dai tempi segnati da “un caotico rifiorire di interessi e di polemiche”. “Ognuno di loro ha alternativamente ceduto alle astrazioni formali e insoddisfatto è ritornato ad affrontare l’oggetto, l’uomo e il dramma dell’uomo nello sforzo di esprimerlo”. D’altra parte, si scrive, “il piano che accomuna questi artisti  (…) è l’esigenza di esprimere la realtà attraverso il rinnovamento del linguaggio. Tale rinnovamento significa per questi artisti il legarsi a quel filone che potremmo definire classico della tradizione figurativa moderna che parte da Cézanne, e si sviluppa nel fauvismo e soprattutto nel cubismo”.

Ai due momenti citati dei Manifesto sovrintendono rispettivamente, con ogni evidenza, le intelligenze diverse di Guttuso (cui si deve certamente il riferimento all’”uomo”, al suo “dramma”, e infine alla “realtà” che ha da essere in ogni caso meta finale dell’immagine) e di Corpora, cui va invece riferito l’accento posto sulle radici storiche, cézanniane da una parte, fauviste dall’altra, del moderno neo-cubismo. Che, allora, le due posizioni non sembrassero inconciliabili, basterebbe a dimostrarlo l’adesione che probabilmente lo stesso Guttuso sollecita, e che Corpora prontamente concede, al gruppo del “Fronte Nuovo delle Arti”, che terrà nel giugno dello stesso ’47 la sua prima mostra alla galleria della Spiga di Milano (presenti, oltre ai primi firmatari e oltre a Franchina e Leoncillo, proprio Corpora ‑ introdotto in catalogo dallo stesso Guttuso ‑, Turcato e Fazzini: cioè, praticamente al completo, il gruppo dei “neo‑cubisti” romani).

Ma che lo stesso Guttuso attraversi in questi mesi (e fin sulle soglie dei ’48, quando alla mostra del “Fronte” alla Biennale di Venezia presenterà un’opera come Il merlo, che è per lui un apice di dichiarata adesione al linguaggio d’un cubismo fortemente formalizzato), un momento di dubbioso (e peraltro felicissimo) stallo nel processo che lo condurrà dalla devozione a Guernica all’opzione neorealista, sta a dimostrarlo, fra i molti suoi interventi pubblici di allora, anche una importante relazione stesa sul suo più recente indirizzo da un critico a lui assai vicino come Antonello Trombadori, che attesta proprio in quei giorni (dicembre ’46, su “Numero Pittura”) come Guttuso abbia “chiarito a se stesso che un pittore contemporaneo italiano (…) non può non inserire nel suo linguaggio l’esperienza cubista, e ancor più significativamente ‑ com’egli “durante il suo primo viaggio a Parigi abbia fatto tesoro della lezione di purezza e di rigore  (…) che caratterizza la più recente scuola francese”.

Ora, a quelle determinazioni, a quei dubbi almeno, chi altro poteva averlo spinto se non Corpora? Corpora che avrebbe di qui a poco delineato, in un lungo e fondamentale saggio apparso sulle colonne de “La Fiera Letteraria” e intitolato Caratteri essenziali della pittura moderna, una vicenda plausibile dell’approccio al moderno delle nuove generazioni di Francia e d’Italia, concludendo così: “questi giovani sono legati alle due scoperte fondamentali della pittura moderna: trasposizione del colore e del volume nello spazio. Tanto nei fauves che nei cubisti, queste scoperte rappresentano il punto di arrivo. Mentre i giovani se li propongono oggi come punto di partenza. Il processo potrebbe essere inverso da quello impiegato dagli artisti che dall’impressionismo (…) arrivarono alla pittura astratta. Si può dire che oggi partendo da un’astrazione si ritorni alla riconquista dei simboli”.

Caratteri essenziali della pittura moderna vede la luce nell’ottobre del ’47: ma già prima, con interventi scalati fra l’ottobre del ’46 e il maggio del ’47, tutti dedicati alla nuova scuola di Parigi, Corpora aveva testimoniato su “La Fiera Letteraria” della vitalità di quella situazione artistica, spostando di fatto l’attenzione dei colleghi italiani da Picasso (e dunque, per l’ottica di quegli anni, da Guernica), o da analoghe desunzioni storicizzanti, all’attualità del movimento cubista francese. E questa natura sostanzialmente diversa del contributo da lui offerto alla causa comune del rinnovamento del linguaggio nazionale veniva allora senza infingimenti riconosciuta non solo dai compagni di strada ‑ il caso di Guttuso è in tal senso esemplare, ma non unico ‑ ma dello stesso Marchiori che, nella Introduzione alla mostra milanese del “Fronte Nuovo”, attesta come “Corpora, venuto da Tunisi e vissuto a Parigi, raccoglie l’esperienza di una civiltà figurativa della quale è partecipe in modo diretto e non per riflessione sui testi riprodotti”.

Se si pone mente al fatto che, ad esempio, Guttuso s’era potuto per anni giovare soltanto della mediazione d’una cartolina di Guernica, speditagli nel’38 da Cesare Brandi e da lui gelosamente conservata, per attingere ad una delle fonti dell’arte moderna; o se ancora si ragiona che, nel momento stesso dell’inaugurazione della mostra alla Spiga, Birolli e Morlotti sono ‑ per la prima volta nel dopoguerra ‑ a Parigi, intenti a confrontarsi con Picasso e con le ultime declinazioni postcubiste delle quali ampiamente sospettano, si potrà desumere con intera evidenza di quale diverso peso e consapevolezza potesse essere il contributo offerto da Corpora: che a Parigi aveva lungamente soggiornato e lavorato nel corso degli anni Trenta, in proficuo dialogo (secondo quanto attestano alcune preziose sue tempere datate tra ’35 e ’37) con i circoli di resistenza astratta di Cercle et Carré e di Abstraction Création.

   Nel tempo che immediatamente segue, e che vede la crisi e infine lo scioglimento del “Fronte Nuovo” (una crisi sulla quale incidono in pari misura l’eterogeneità degli artisti che vi aderivano e le pesanti intromissioni politiche, culminate nella tristemente nota Segnalazione di Togliatti pubblicata su “Rinascita” in occasione della mostra nazionale d’arte contemporanea promossa nell’ottobre del ’48 dall’Alleanza della Cultura di Bologna), Corpora mantiene una posizione come d’attesa, e di apparente, parziale disimpegno dalle querelles che agitano l’ambiente artistico italiano: querelles ormai prossime a sfociare nel più crudo e scialbo contraddittorio ideologico.

E’ che, da una parte, Corpora non può ovviamente condividere il ripiegamento testuale della realtà sulle ragioni autonome della pittura (il che gli nega d’ora in avanti ogni contiguità stilistica con molti degli antichi compagni: Guttuso, e per allora anche Turcato); dall’altra, però, gli è del pari sostanzialmente estraneo il radicalizzarsi delle posizioni rigidamente astratte che propugna, agguerrita e talvolta massimalista, la nuova generazione. Meglio: a lui che ha vissuto e praticato ‑ appunto sulla metà del decennio precedente, in rapporto anche con le analoghe tensioni ideative egemoni nella cerchia dei Milione ‑ esperienze di puro astrattismo, l’accesso a questo linguaggio non può risultare di per sé risolutivo di ogni problema e di ogni ansia che gli pone, giorno dopo giorno, la pittura. Questo, e una precisa distanza che egli prende dall’impegno politico di molti compagni di strada, lo sospingono verso una posizione di forte autonomia (non firma, ad esempio, la replica che Guttuso, Mafai, Turcato, Franchina, Leoncillo, fra gli altri, pubblicano all’intervento censorio di Togliatti sulla mostra di Bologna, cui, pure, Corpora ha partecipato): autonomia che è insieme di ricerca e di posizione ideologica.

Alcuni clamorosi ‑ e per l’epoca davvero rarissimi per l’arte nostra ‑ successi in campo internazionale (culminati nel Prix de Paris assegnatogli nel ’51, e nella personale alla Galerie de France introdotta da Christian Zervos, l’anno seguente) non lo distolgono però ‑ quand’egli avverte che i tempi sono maturi per un suo rinnovato impegno nell’agone italiano ‑ da un nuovo importante contributo alle battaglie per il rinnovamento della nostra cultura artistica.

E’ il 1952: e Morlotti (che già aveva confessato a Birolli, all’indomani dello scioglimento del “Fronte Nuovo”, la pungente sua necessità di pensare ad un nuovo gruppo, perché “se non facciamo qualcosa moriamo”) scrive ad Afro se non sia possibile sollecitare Corpora ad interpellare Venturi o Zervos per patrocinare il nuovo schieramento che si va delineando. Passano poche settimane e Corpora scrive a Birolli di aver “convinto Venturi a scrivere il testo per il nostro libro”: sarà, quel libro, gli Otto pittori italiani, e costituirà la testimonianza preziosa dell’appoggio del più internazionale dei nostri critici al nuovo gruppo, sorto dall’eredità del vecchio “Fronte”.

Il ruolo svolto da Corpora nella nascita e nella fortuna degli “Otto” è, un’altra volta, decisivo: non solo, strategicamente, perché alla sua presenza ‑ ancor più che a quella di Birolli, cui pure era molto legato ‑ si deve l’accettazione di Venturi (che di fatto garantirà, nella breve vita dei gruppo, l’importante eco anche europea che esso seppe suscitare, con una mostra itinerante in Germania nel ’53 e con la presenza a Kassel nel ’55; oltre al ruolo di primissimo piano che tutti i partecipanti ‑ pur esponendo in sale distinte e con differente numero di opere ‑ svolsero nella Biennale del ’52). Non solo per questo: ma anche perché proprio la sua opera (unitamente, forse, a quella di Afro; e in parte, ma ad un diverso livello qualitativo, a quella di Santomaso) andava a coincidere nel profondo con i pochi proponimenti teorici che, con grande sorvegliatezza, Venturi offriva come collante dei gruppo.

Quell’essere, e dichiarasi ‑ gli “Otto” ‑ né astrattisti né realisti; quel bilico che avrebbero dovuto serbare fra immagine desunta dalla realtà e sensuosa voluttà per la “materia preziosa” del colore e, infine, “quella coerenza di visione”, quella “coerenza formale” che è “essenziale per l’arte moderna” fintanto che non pretenda di soggiogare ogni istinto e ogni memoria da essa deviante ‑ tutto ciò, che è il terreno insieme ambiguo e fertile sul quale si cercava l’incontro di personalità ancora una volta diverse, era ‑ come le sale della XXVI Biennale confermarono appieno ‑ l’humus su cui cresceva, da anni ormai, la pittura di Corpora: figlia di quel “non‑figurativo” che i jeunes peintres per primi avevano predicato, e che Corpora e Venturi, in perfetta concordia, avrebbero nominato “astratto‑concreto”. La formula critica, con il suo tasso evidente d’ambigua disponibilità ad accreditare cose assai diverse, non avrebbe tardato a venire a noia; come poté venire a noia quella molta, successiva pittura italiana (e francese) implicata in essa come pallida e stanca desunzione da un modello presto divenuto di comodo. Diverso, e opposto, il caso della pittura di Corpora: che a quel bilico era arrivato per via personalissima, e che quell’instabile equilibrio fra vita e forma avrebbe, di lì in avanti, posto senza cedimenti a nutrimento di tutta la vita di pittore. Il gruppo d’opere splendido ‑ nove dipinti, molti dei quali oggi dispersi e conosciuti solo per riproduzione ‑ che Corpora presentò a Venezia nel ’52 sancirono allora la piena, assolata stagione d’un pittore fra i nostri maggiori del secolo: che tanto aveva saputo insegnare all’arte italiana in un momento di difficile sua transizione ad un linguaggio moderno.

 

Nota. In questo testo si è fatto riferimento alle seguenti voci bibliografiche: Raymond Cogniat, La vie artistique. Promesses d’avenir chez les jeunes peintres, “Argine Numero”, a. 1, n. 1, Milano, 1° dicembre 1945; Antonio Corpora, Arte francese d’oggi a Roma, “La Fiera Letteraria”, Roma, 17 ottobre 1946; id., Giovane pittura francese, “La Fiera Letteraria”, Roma, 24 ottobre 1946; Antonello Trombadori, Negli Studi. Renato Guttuso, “Numero Pittura”, a. III, n. 1, Milano, 15 dicembre 1946 ;  Un gruppo di pittori e scultori per la chiarezza, l’ordine e le leggi, in “La Fiera Letteraria”, Roma, 9 gennaio 1947 (ove si legge per esteso il cosiddetto Manifesto del neo‑cubismo firmato da Corpora, Fazzini, Guttuso, Monachesi, Turcato); A. Po. (Attilio Podestà), Milano: pittori romani alla S. Spirito, ”Emporium”, a. LIII, vol. CV, n. 629, Bergamo, maggio 1947; Antonio Corpora, A colloquio con Fougeron, “La Fiera Letteraria” Roma, 1 maggio 1947; Giuseppe Marchiori, Introduzione alla mostra, in Prima mostra del Fronte Nuovo delle Arti, Milano, galleria della Spiga, 1947 (ora in id., Il Fronte Nuovo delle Arti, Vercelli, 1978; ove anche trovi il cosiddetto Manifesto della “Nuova Secessione Artistica Italiana”); Renato Guttuso, Antonio Corpora, in Prima mostra …., cit., ibidem; Antonio Corpora, Caratteri essenziali della pittura moderna, “La Fiera Letteraria”, Roma, 23 ottobre 1947; Lionello Venturi, Otto pittori italiani, Roma, 1952; Enrico Crispolti, Catalogo ragionato generale dei dipinti di Renato Guttuso, vol. 1, Milano, 1983; L. Somaini, Otto pittori italiani. 1952‑1954, Roma‑Milano, 1986; Luciano Caramel, Arte in Italia. 1945‑1960, Milano, 1994.