Achille Perilli, 1968-1998: de insana geometria

La geometria negata di Achille Perilli

 

Falsificazione, mistificazione, ambiguità : attorno a questi termini e concetti Perilli costruiva, a metà degli anni Settanta, l’architettura complessa di un suo testo teorico, che intitolava Machinerie, ma chère machine e al quale delegava il compito di giustificare l’ormai lunga – a quella data – sua militanza nel mondo della geometria. Machinerie – ricordava Perilli  in apertura del testo – è l’atto della costruzione delle macchine : qualcosa che sembra implicare dunque, prima di tutto, una coerenza e programmaticità di atti formativi. Ma, dal dadaista che era e che continua ad essere, occorreva attendersi altro : che, in particolare, se di ingranaggi  si fosse trattato,  essi sarebbero stati simili,  più che a quelli usciti da una catena industriale, a quelli della macchina per macinare il cioccolato di Duchamp, a quelli della Machine tournez vite di Picabia, o a un Merzbau di Schwitters ; o persino alle macchine folli e impietose di Chaplin in Tempi moderni. “Chez moi l’imagination c’est tout”, concludeva infatti, a sorpresa ma non troppo, quel suo scritto Perilli, consentendo con il proto-surrealismo di Raymond Roussel.

Passa qualche anno, e quanto s’era configurato nella Machinerie  (e ancora prima, imperfettamente, nel Manifesto della Folle Immagine nello Spazio Immaginario, del 1971) trova una compiuta elaborazione nella Teoria dell’irrazionale geometrico (1982) : ove si ripercorre in sintesi la vicenda, esperita dalla moderna tradizione astratta, che conduce, attraverso un percorso che va “dalla conquista della verità razionalista fino al decadere di questa e al suo dissolversi formale”, all’approdo ultimo a quella che Perilli nomina la  “non forma geometrica”. Malevic, El Lissitskij e Vantongerloo sono le tappe cruciali di quel percorso che conduce dall’assioma al dubbio, “dalla percezione alla memoria”, dal rigore e dalla tautologica evidenza di rapporti matematici al “lento dissolversi della certezza geometrica”. Ed è, dice Perilli, proprio “quello slittamento di forze, quella caduta di certezze (…) il mio problema”.

Nel 1982, dunque, con la Teoria dell’irrazionale geometrico, Perilli ha definitivamente compiuto quel cammino concettuale che affianca da tempo, o da sempre, la sua ricerca pittorica, e più in generale il suo essere artista (a tal proposito, va ricordato almeno fra parentesi come più volte Perilli  sia nominato “un artista che non disdegna di dipingere” : così ad esempio concludeva un suo scritto recente e importante Bernhard Holeczek , ribadendo come i confini dell’azione estetica di Perilli, “pictor doctus”,  abbiano costantemente travalicato l’orto conchiuso della pittura. Considerazione, questa, che ha certo una sua verità, e che pur non sento di poter condividere sino in fondo. Nel senso che in Perilli la densità del pensiero, così come la capacità di invadere territori limitrofi della creatività, prende ogni volta le mosse, e quasi sgorga, proprio dalla pratica della pittura : né si darebbero, l’una e l’altra, identiche in sua assenza, o lontano da essa).

E questa stagione lunga – lunga, oggi, nel suo complesso quanto nessun’altra era stata ; e dunque da dire, se non altro per questo, di  rilievo primario nel corpo intero della sua opera – che chiameremo della geometria negata, e che la mostra di oggi, per la prima volta con tale larghezza, rappresenta, mi pare che confermi questo assunto : affondando le sue radici, e dunque le più fonde motivazioni d’essa, indietro – e molto indietro – nel tempo e nell’opera di Perilli. In un tempo in cui il denso suo ragionare su problemi ed orientamenti di forma verteva su termini assai diversi da quelli poi elaborati nei tre manifesti che variamente implicano il tema della geometria.

S’è sempre sostenuto, e con ovvia ragione, che l’innesco primo di questo tempo, manifestatosi con ultima evidenza nel corso del 1967, è da riconoscere nell’alveo largo e problematico dei “fumetti”, in particolare in quella struttura spazializzante che contiene, spartisce, cadenza l’epifania del “racconto”. Struttura che è ad evidenza (in tutti quei dipinti, e segnatamente nei primi di quel ciclo, quelli nei quali larghe bande di colore unito vincolavano, in alto e in basso, la teoria delle strips, mentre altre porzioni cromatiche, anch’esse rigorosamente monocrome, scandivano i tempi della narrazione) di importanza assoluta nell’economia dell’immagine, e che costituisce in essi come un basso continuo, sul quale prende a scriversi – quasi automatica, e  impreventivabile – la teoria affannata dei segni.

In ciascuna di quelle opere (I grandi riflessi, ad esempio, ove il racconto è ancora assai rarefatto ; o Gli amori di Cleopatra, ove sembrano invece moltiplicarsi i sogni : entrambi del ’61) la geometria ha un compito di rilievo : incaricandosi di portare ordine e nitore nel territorio altro dell’ironia e dell’affabulazione fantastica. E’ dunque ancora, quella annidata nei “fumetti”, una geometria contenta di interpretare, nell’economia dell’immagine, il suo ruolo per così dire istituzionale, o canonico ; e sembra non preavvertire i turbamenti e le voglie di devianza che la segneranno di qui a poco.

Altrimenti era accaduto, invece, molto tempo avanti. Segnatamente in quel breve giro d’anni, fra ’48 e ’50 soprattutto, nei quali alle prime aperture sull’Europa operate da Perilli assieme ai compagni di “Forma” subentrano altri, più consapevoli e decisivi orientamenti, diretti a sondare le ipotesi già formulate dal costruttivismo sovietico, dal concretismo e in particolare dalla produzione di Kandinskij nel tempo di Neuilly.  Nel vasto lavoro su carta di quel tempo, peraltro molto diversamente indirizzato (in una prima fase sovente incline al monocromo – ad esempio nella tempera Uscita a sinistra dello spazio, 1949  – poi sempre più recuperando la pienezza di un colore clamante – segnatamente in molte carte Senza titolo del ’50, anno nel corso del quale attesta, in uno scritto su Kandinskij, le qualità di “fantasia, sensualità, lirismo, musica” del suo colore), elemento unitario e già fortemente individuale della ricerca di Perilli è proprio la persistenza con cui la geometria si fa la vera protagonista dell’immagine.

Una geometria ancora esercitata sul piano, secondo un dettato magnelliano ; coniugata con l’organico, sulla scia di Arp ;  scritta da un gesto oscuro e violento non dimentico di Hartung ; o infine dislocata sulla pagina, e illusivamente oltre i suoi confini, “secondo un motivo di crescita e articolazione proliferante che può ricordare gli sviluppi plastici di una forma architettonica di Gabo o di Pevsner” (Cristallini) : una geometria, dunque, non pacificata, non normativa,  disomogenea ; e il cui unico segno unificante è appunto questa irriducibilità sua all’assioma, alla dimostrazione incontrovertibile, ad una rilassata clarté intellettuale. Una geometria che è, all’opposto, ansia, contraddizione, scontro, tensione irrisolta e irresolubile: fin da allora.

Questa pittura, ampiamente esercitata sulla carta (luogo da sempre intensamente frequentato della ricerca di Perilli : e allora privilegiato, anche per banalissime ragioni di maggiore disponibilità del materiale povero rispetto alla tela), si è manifestata, al culmine di quella prima, intensa stagione, il 1950, anche in alcuni dipinti notevoli, e per altro tempestivamente esposti : è il caso ad esempio di Due forze in contrasto nello spazio, mostrato nel ’51 nell’ambito della più completa rassegna postbellica d’arte astratta sino ad allora organizzata nel nostro paese, “Arte astratta e concreta in Italia”, promossa dall’Art Club alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel febbraio del ’51.  Ma il successivo orientarsi di Perilli verso altri pensieri di forma, culminati nel ’57 nella sua alta, felice e particolarissima declinazione di un informel segnico prossimo all’enclave  internazionale dell’art autre di Tapié, ha come messo in sordina quel suo precocissimo individuare, già allo scadere degli anni Quaranta, la via che egli avrebbe più tardi proseguito con tanta concentrazione.

E che s’apre dunque infine tra ’67 e ’68, appena dopo il quadro superbo de Il ratto d’Europa, che se nelle partizioni ordinatamente geometrizzanti della parte superiore richiama gli spazi paratattici dei “fumetti”, nella macchina celibe che frana in basso – quasi un enorme  e fragile aquilone colpito da una folata troppo forte di vento – rinvia quasi testualmente a un gruppo di tempere su carta del ’49.  Una particolare condizione morbosa, La pelle del computer, fino al quasi minaccioso, e certo programmatico Ordinatio, dispositio, eurythmia, symmetria, decor, caos, assieme ad altri dipinti d’analogo imposto e quasi tutti di grande dimensione, segnano il biennio d’ingresso di Perilli nel dominio della “non forma geometrica”. La “figura” vi è sempre imperiosa, e quasi incombente : colonna o trabeazione,  “metope e triglifi”, come esplicitamente dice il titolo d’un dipinto di allora, elementi di un’architettura gigante e mal nata, pesante e distorta, sul punto sempre di franare verso un suo baratro ineluttabile, o – trasformatasi in smisurata astronave – d’intraprendere un viaggio avventuroso fra le stelle.  Nell’immagine sognata, poche paradigmatiche figure della geometria piana – un cerchio, un rettangolo, un’ellisse – sono lasciate cadere qua e là : solitari testimoni di una normalità del vedere ovunque, altrove, smarrita.

Al ’69 si dà un passo ulteriore : denso di significato e di conseguenze, tanto che di lì in avanti l’”insana geometria” di Perilli si nutrirà d’una forte coesione interna sino, almeno, alla fine degli anni Settanta. Il figurare è ancora complesso, ma va smarrendo ogni preciso riferimento ad un qualsiasi esistente : come pressato dagli “smottamenti che la memoria produce sui dati della percezione visiva”. Di pari passo, sul fondo che s’è fatto di ghiaccio, e che ha ormai  abbandonato ogni vibrazione atmosferica come ogni indulgenza tonale, gli aggregati stereometrici risuonano d’assurdo : vivono la loro astratta, corrucciata esistenza in un diapason di tensione emotiva a cui conduce il dissidio insanabile fra il nitore casto del segno, l’algida purezza della luce e l’assoluta arbitrarietà della costruzione geometrica. Certissima e implausibile, ecco allora che in questa geometria negata, fatta di “incroci sbilenchi, triangoli supplementari, diagonali rientrate, ipotenuse ipertese, in un contorto ma non sconnesso schieramento di poliedri precari” (Drudi) va a cristallizzarsi, fragile come un diamante, tetragona come l’acciaio, la nuova immagine di Perilli. Per tanto tempo, da allora in avanti, sarà lei la sola compagna della sua pittura.

Fintanto che , quasi in coincidenza con l’aprirsi del nuovo decennio, uno scarto profondo interviene : non a disperdere l’ossessione di quella pittura, ma sì a cambiarne la natura, e la qualità dell’apparire. D’improvviso, le figure si rastremano e s’assottigliano ; smagrite, prendono avvio da un margine della pagina pittorica, e di lì precipitano leggere e imprudenti nello spazio vuoto, di nuovo risonante d’emozione : talvolta, quello spazio, soprattutto in talune carte ad acquarello degli anni a venire, invaso da un rinascente bisogno di vibrazione luminosa, fino a segnalare il nuovo avvento di un’aria smossa, respirabile, profonda. Le ascisse e le ordinate che avevano in prevalenza strutturato l’immagine in ispecie  sulla metà degli anni Settanta (in Logicus solus, ad esempio, o in Ere aire air erre, entrambi del ’74) si fanno ora da parte, cedendo il posto all’imprevedibile snodarsi di un nastro di colore variato del quale – ma quasi a fatica, adesso – s’intravede l’intima natura, ancora una volta geometrica.

La nuova inflessione di lingua muove dagli acquarelli, che hanno ora gran peso nel lavoro di Perilli, e soprattutto nelle carte così condotte prende luogo. Ma non è senza eco sulle grandi tele a tecnica mista, ove è frequentemente ripresa l’idea del nastro che solca veloce e sgusciante la pagina pittorica : anche se la stereometria, insieme esattissima ed impossibile, dei corpi conserva sempre sulla tela una plasticità maggiore : sovente, peraltro, ora delineata su fondi che, rifiutando ormai la stesura indifferenziata del colore, segnalano anch’essi, attraverso minime variazioni e all’unisono con i capricci della geometria, la renitenza all’accettazione di un’unica, incontrovertibile verità.

L’evidenza di quella natura di incontro e scontro, di non pacificata convivenza di opposti, di unione e separazione, che appartiene per Perilli alle fibre più fonde della realtà e che è stata per lui da sempre scaturigine prima della propria ricerca e della propria immagine, ma che a lungo è rimasta annidata e quasi nascosta sotto la coltre di un’apparente pacificazione sancita dall’assoluto geometrico, deflagra infine nell’opera più recente dell’artista : innescata forse ancora una volta dal lavoro quotidiano sulla carta (nel quale Perilli ha trovato, o ritrovato dopo molto tempo, le ragioni autonome e oscure della materia), essa è pienamente espressa nella scultura degli Alberi, e si riverbera infine  sulla pittura.

Gli Alberi sono, per Perilli, il luogo di un assoluto organico nel quale il tempo e lo spazio della realtà trovano, congiuntamente, un’immagine ultima, definitiva. Su quel luogo, iscrivere la geometria, seguendo e contrastando, di volta in volta, le suggestioni offerte dalla natura del tronco – i nodi, le forre, le nervature, le gobbe, le marcescenze – vuol dire aderire e combattere la casualità dell’esistente, celarsi in esso e resistergli, acconsentirgli e segnarlo della propria, diversa natura. Vuol dire giungere a toccare, a scrivere indelebilmente, “quella comunicazione complessa che dall’origine è il problema fondamentale del mio lavoro”. Negli Alberi (spazi antichi e ultimi, perfetti e ambigui ; luoghi insieme della mente e del corpo) Perilli stringe in pugno, definitivamente e con perfetta evidenza, il senso della propria adesione e inconciliabilità rispetto al mondo.