Roberto Almagno
Chiusa in sé così a lungo, in un tempo d’incubazione – solitario – protratto per larga parte degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta, la scultura di Roberto Almagno è uscita infine colma giusto all’avvio del successivo decennio. Inusuale anche in questo suo aver scelto di lasciar segreto il suo laboratorio, con il lento, fecondo scrutinio delle prime ipotesi formali (che, come Almagno non ha mai inteso nascondere, muovevano da Fazzini e da quella sua antica, straordinaria scultura che è il Ragazzo con i gabbiani), essa dichiarò fin da allora la propria alterità rispetto alla lingua (meglio : all’affannato crocevia di lingue) che era destinata a segnare la ricerca giovanile degli anni Novanta. Un’estraneità non ammantata, senza alterige : eppure attestata con fermezza, giorno dopo giorno, da un lavoro che gli scendeva dalle mani diverso, irrevocabilmente lontano dal fare corrente di una generazione che era, anagraficamente, la sua, ma che muoveva i propri passi su strade così lontane.
Sembrò allora inattuale, il lavoro di Almagno : stupì per quella sua singolare inclinazione a un fare coinvolto e fabrile, per quel consapevole rammemorare stilemi cruciali di una remota avanguardia, per quella tensione sua a una forma tetragona ad ogni inframissione di casualità. Oggi, a distanza d’un decennio, scopriamo che su quel sentiero, che parve ed era solitario, molte esperienze hanno preso a convergere : così che alla scultura di Almagno spetta, senza che essa l’abbia richiesto, anche un diritto di priorità su una linea della più recente ricerca scultorea italiana.
Nel frattempo, la sua scultura è cresciuta, pur senza contraddire le sue fondamentali premesse. E se allora poteva capitare di contare fra i suoi padri “tanto il Giacometti surrealista quanto quello filiforme dell’altissima maturità, e poi Noguchi, Calder, Melotti forse, e il David Smith al passaggio fra i Quaranta e i Cinquanta”, oggi quei riferimenti restano in Almagno non più che come lontane memorie, quasi elementi di codice insufficienti ormai a motivare questa sua prima compiuta maturità.
C’è stato un momento, dunque, occorso probabilmente a metà del decennio che ora si chiude, in cui la folta memoria di atti pregressi, congruenti a quanto andava cercando, non bastò più a contenere la nuova pienezza della forma che sbocciava. E fu probabilmente con Ceneri, opera datata al 1995, che s’avviò quel percorso altrimenti colmo : uno spazio misurato e raccolto, nel quale l’alzarsi lieve, come dubitosamente tentante, trepido ed emozionato degli stami scavalcava d’un subito la seduzione diversa delle singole memorie che ne motivavano la figura (quelle del bosco, luogo ove da sempre affonda una radice dell’immaginario di Almagno, come quelle dell’asse paradigmatico formale che lo scultore s’era dato), e uscivano in un’immagine interamente rifondata. E lo stesso esplicito riferimento, fin nel titolo, oltre che alla capacità germinativa del bianco tappeto di cenere su cui si scrivono leggere le ombre, al perimetro di spazio che di fatto racchiude e dà ricetto all’evento plastico, implica la consapevolezza che, appunto, soprattutto a definire una nuova spazialità era intesa quell’opera.
Una spazialità che, allusa, era sempre stata al cuore della forma di Almagno ; ma che allora, e da allora in avanti, s’è data come momento determinante nella sua formulazione d’immagine. Poco dopo Ceneri, venne infatti un’altra opera cruciale, Abissi, e subito appresso ad essa Vertigine, nelle quali il legno lungamente, aspramente lavorato dalla raspa e dal fuoco smarrisce quasi la sua consistenza, il suo prestigio, il suo peso di materia, e si fa balenante traiettoria luminosa : spoglio, rapinoso segno tracciato nello spazio, ove quel tragitto d’energia lascia l’impronta della sua eco emozionata.
Sino all’opera ultima che presenta oggi a Ferrara : quel Flutto che dispiega lenta e dolcissima la sua corsa avventurata, smemorata, interrogante. E in quella sua struttura lieve e periclitante, in quel suo lungo distendersi accarezzando il suolo e subito appresso nel suo improvviso impennarsi, in quel suo andare per il mondo come ponendo interrogativi, per tentativi sinuosi e quasi danzanti, per ritmi ed evidenze instabili, sta il cuore della spazialità di Almagno. Una spazialità che è dunque per lui luogo non di dimostrazioni e tautologie, di assiomi e certezze, ma all’opposto il luogo del dubbio, dell’ipotesi, dell’azzardo e dell’incanto.