Spazi e figure di Giuliano Giuliani
“Questi ora non sono tempi per lo stare dritti. Le mie sculture preferiscono la diagonale, l’inclinarsi e l’appoggio, fermarsi un attimo e guardare di lato […]. Comunque una scultura di per sé è appariscente; vorrei una scultura timida e umile”. Timide e umili: lo sono davvero le opere di Giuliano Giuliani, scavate nel travertino, uno dei grandi materiali della costruzione d’ogni secolo, della celebrazione, dell’ansia dell’eterno? Forse. Certa è invece la loro natura deviante da ogni via della plastica contemporanea: consapevole devianza, per la quale – a farla nascere – è stata necessaria una elaborazione del pensiero su di essa lunga e determinata. Né solo formale: perché Giuliani non è uno scultore casto: avendo scelto di non limitare il suo orizzonte a ragionari d’ordine meramente stilistico sul suo lavoro, ma di aprirlo, al contrario, a suggestioni, a ipotesi, a rischi eteronomi: relativi alla vita, all’esistenza, all’umano; e a quanto, per taluni, l’umano sovrasta: “Dio è di pietra, la pietra è Dio. Scavare la pietra, possederla, dominarla è cercare e trovare Dio. Il travertino è la pietra che Dio preferisce, pieno di vita, di pori, di anime”. E talvolta, in questo abbraccio al mondo che sente di volere, in questo ‘tutto’ che ne ingombra l’animo, sfiora la retorica, ancora una volta consapevolmente e senza spavento: “la scultura per vivere ha bisogno di amore”; o ancora: “bisogna invocare la poesia per dare anima alla pietra”.
La pietra, poi, è tutt’altro, per lui: tutt’altro che fuga verso una dimensione nobilitata dal concetto. È fatica e orgoglio, quotidiani; è scontro e, infine, immagine. Lavora da trent’anni (era appena adolescente) nella cava paterna (privilegio?; dannazione?), in una provincia di centro Italia carica di straordinarie memorie secolari, e, come tante, anche in grazie a questo suo antico e illustre patrimonio, tetragona all’oggi. Solo segno deviante, la percorre – dall’alto di un colle vicino – la memoria di amalassunte e angeli ribelli, liciniani. Per un tempo, lì, la scultura di Giuliani ha mimato le forme della natura: Martini, forse Viani i suoi primi maestri. Poi, dall’89, dal ’90, la maturità: trovata altrove, ma senza una cesura, uno strappo troppo o solo volontaristico (ripenso alle parole di Leoncillo, scritte quando s’apriva la sua stagione più alta, anche quelle semplici e dimesse: “dopo ne farò altre – di cose – meno naturali, quelle che mi premono di più: perché noi non siamo naturali”).
“Il primo pensiero formale di Giuliani è quello di stravolgere la materia privandola del suo ingombro. Ossessivo, paziente è il processo di smaterializzazione , di scavo, di svuotamento con cui egli trasforma il blocco compatto e duro in una lamina sottile dagli andamenti modulati”, ha scritto di recente Carlo Lorenzetti, riferendosi alla produzione ultima di Giuliani, e intuendone il tratto saliente. Perché se è vero che il travertino (la sua natura così peculiare e i suoi segreti fatti di improvvise cavità e voragini interne, come di luci, toni e trasparenze mutevoli e, per una loro parte, inattesi) costituisce l’incipit necessario e non scambiabile della sua opera, è altrettanto vero che solo nel passo dialettico ulteriore, nella sua negazione come materia, consiste la scelta formale determinante di Giuliani. Negazione della materia come ingombro, come peso, come demone autoreferenziale; materia, invece, che proprio nell’erosione cui è sottoposta dalla mano paziente e sapiente del suo artefice scopre la vocazione ad una propria forma.
Alcuni gesti essenziali che Giuliani compie sul blocco di calcare: l’assottigliamento, imposto sino a ridurre la pietra ad un foglio d’esiguo spessore, del quale s’accettano e si esaltano le lacune: qui sanate dal gesso, con gesto riparatore; là invece lasciate in vista, così che la luce – lenta, e come affiorante da un amnio – balugini appena attraverso di esse. E ancora: il flettere la lastra in andamenti sinuosi, quasi danzanti: sottraendoli alla stentorea perentorietà della figura geometrica (di cui Giuliani ha spavento: tanto che quasi escluso dalla sua plastica è l’angolo retto), e donando loro un ritmo, capace di dar slancio alla forma oltre i confini materiali dell’opera. Ciascuno di questi atti formativi è impegnato, ad esempio, nell’opera che Giuliani ha di recente eseguito per la raccolta di scultura ospitata dal Comune di Cagli nella Torre Martiniana della piccola cittadina marchigiana: un velo sottile di travertino che si stende nella cavità profonda del muro della Torre, sino ad una angusta finestra. Dalla quale procede lenta la luce, riverberata in ombre fluttuanti dalle pieghe del calcare; mentre un altro, più nascosto punto di luce genera, sotto il manto disteso del travertino, un luogo protetto, quasi un grembo di segreta nascenza, umido e riparato dallo sguardo, eppure tanto nitidamente percepito dalla mente.
L’opera di Cagli – straordinaria, come alcune delle più recenti e sinora inedite sculture da lui proposte a Ferrara – testimonia così anche della duplice tensione di Giuliani a creare, nella sua scultura, due ‘luoghi’ diversi, e che pur infine non si contraddicono l’un l’altro: l’uno espanso e inteso a catturare, nel ritmo che si dà, uno spazio ulteriore rispetto a quello concretamente occupato dalla corsa flessuosa del marmo; l’altro raccolto e in sé conchiuso, volto a generare uno spazio interno, quasi una dimora quieta e riparata dal clamore del mondo. E poiché tutte le ‘figure’ di Giuliani sono state, sin dai suoi passi giovanili, sempre denotate da una forte carica simbolica, anche a questa singolare duplicità possiamo riconoscere una analoga valenza: come se i due ‘luoghi’ messi in immagine dalla sua scultura stiano a segno d’una vocazione di Giuliani a commisurarsi con il mondo aperto e distante, e insieme a ripiegarsi su se stesso, e restare avvinto alle sue radici.