Scialoja, l’ultimo quadro

Nel marzo del 1997 moriva Willem de Kooning, forse il più grande fra i grandi protagonisti dell’action painting newyorkese: colui, in ogni caso, che Toti Scialoja – complice, anche in questo, Gabriella Drudi, compagna di una vita – aveva amato di più. Scialoja, che sarebbe scomparso quasi esattamente un anno dopo, sentì – da Roma, e dalla sua età, anch’essa ormai tarda – quella morte come una ferita dolorosa. La avvertì accompagnata da un groppo denso di profonda malinconia: sentimento nel quale, almeno intellettualmente, Scialoja non credeva, e che pur tuttavia, da quel momento, prese ad aleggiargli intorno. Non so se fu allora, anche, che cominciò a ripetere più spesso d’una sua morte non lontana (“a ottantaquattro anni”, diceva che sarebbe venuta, sbagliando di poco); certamente, fu da quei mesi che cominciò a pensare con nuovo coraggio al vecchio progetto di Gabriella di mettere le basi, mentre c’era e poteva prefigurarne il cammino, alla Fondazione che poi è venuta, che porta il suo nome e che deve difendere il suo lavoro.

 

Quel giorno di marzo del 1997, intanto, chiese ad Adrian Tranquilli, da anni suo carissimo assistente, di preparargli una tela di cui indicò esplicitamente le dimensioni: un quadrato, avrebbe dovuto essere, di 205 centimetri di lato. La dipinse, la datò, e vi iscrisse il titolo: per W.d.K., Non la vidi, allora; né credo che altri l’abbiano vista, a studio – eccetto Adrian, e Gabriella naturalmente, che era sempre chiamata ad approvare, o censurare, le sue tele. Fu ritrovata, avvoltolata in magazzino, solo dopo la sua morte.

 

205 x 205, dunque: una misura per lui affatto inusuale. Un quadrato, grande, ma non grandissimo. La misura di un uomo, che allarghi il suo gesto. Toti aveva a mente, e spesso le sussurrava come cosa intimamente sua, le parole meravigliose di de Kooning: “quando allargo le mie braccia e mi domando dove sono le mie dita, ecco, ho misurato lo spazio che serve a un pittore”. Difficile pensare che in questo quadro a lui dedicato Scialoja non abbia voluto rispondere all’amico scomparso che, anche lui, si riconosceva interamente – adesso, o forse da sempre – in quella sua misura davvero umanistica, in quella sorta di albore di classicismo che ancora non sa di sapienti sistemazioni archeologiche, ma che è tutto e solamente racchiuso nell’ansia di fondare insieme l’uomo e la sua compagna pittura.

 

Scialoja ha dipinto ancora, dopo questo quadro: altre tele, come usava, ben maggiori per dimensioni, straordinarie se si considera se non altro l’età sua, non stanca sino alla fine: con il talento e la voglia di aggredire ancora uno spazio che fuggiva, “da sinistra a destra” – così diceva che si dovessero leggere i suoi dipinti – oltre i confini governati da un unico sguardo. Eppure forse è giusto considerare questo il suo “ultimo quadro”: come se ad esso Toti avesse voluto affidare una sua estrema parola. Per il tanto che racchiude del suo modo maggiore, prima e dopo l’”impronta” venuta nell’estate del ’57: quel gesto forte, subitaneo, eppur già come di sé pensoso; quella luce raccolta in un baleno, nel filamento bianco che si apre la via fra timbri più scuri; quell’idea, così profondamente connaturata alla sua pittura (un’idea che forse risale sino a Mafai, alle ‘Fantasie’ e alla lettura critica acuminata che di quei dipinti Scialoja aveva saputo dare) di danza e di ritmo di cui aveva da intridersi la sua pittura.

 

Qui, da sinistra e dall’alto, si procede dalla forra del nero, sgorbiata appena dalle larve del verde, verso i primi segni del bianco, del grigio: che dalla verticale prendono a flettersi, a inseguirsi sulla pagina pittorica. Per farsi, al centro, gremiti: fino al lungo attraversamento del bianco, un colpo di scudiscio che traversa tutta l’altezza del dipinto, scompartendolo a metà; alla sua destra, i segni reclinano, giù sino al riposo e al silenzio d’un altro verde. A guardare, accanto a questo, alcuni altri dipinti (per lo più ricoverati allo scadere del precedente decennio) si percepisce come drastica sia stata la riforma del concetto di spazio che designa per W.d.K.: lì una spazialità allargata sull’orizzontale, e potenzialmente infinita; ove alita come un fiato leggero l’ombra della materia cromatica, sposata al fondo da un dialogo tutto racchiuso nel tono.

 

In per W.d.K, al contrario, uno spazio compresso – luogo, avrebbe detto Scialoja in altri anni, di drammatica coesistenza fra “viscere e pensiero” – aggregato attorno al gesto che lo squarcia senza annullarlo. Uno spazio, infine, dove – come avrebbe voluto de Kooning, che aveva fondato il suo lavoro sulla costante tensione “a demoralizzare i dogmi stilistici correnti e […] anche i dogmi dell’arte astratta” (Gabriella Drudi) – torna sotterraneamente a farsi presente un’ansia che tocca Scialoja in tutti i grandi passaggi della sua pittura: l’ansia per la “figura”, per qualcosa che, rotte tutte le grammatiche e dimenticate tutte le tautologie dei dogmi dell’avanguardia, torni misteriosamente a far parlare l’umano.