Ferrazzi, pittore in rivolta
“Vorrei arrivare ad essere un pittore, un pittore poeta tragico, degno di questo tempo drammatico ed eroico”: chiudeva così, Ferruccio Ferrazzi, un profilo autobiografico consegnato al “Meridiano di Roma” e pubblicato nel marzo del ’43, nei giorni stessi in cui s’inaugurava alla Galleria di Roma la personale – di dimensioni inusitate: 143 opere – che presentava in ogni risvolto il suo lavoro a partire dal 1908. Ferrazzi era ad un culmine della sua vicenda creativa, e di una fama pur mai ricercata: Accademico d’Italia dal ’33, ad esempio, s’era stupito lui per primo d’una votazione che aveva quell’anno privilegiato lui – “l’unico non iscritto al partito” – a fronte delle candidature, assai più plausibili per quella carica ufficiale, di Soffici e di Sironi. Ciò nonostante, qualcosa continuava a roderne l’animo; ricordava forse le parole del padre (pittore anch’egli, ma costretto dall’umile origine e dalla necessità ad un lavoro poco più che artigianale): “però io sognavo qualche cosa di più dalla tua arte”. O, soltanto, si riaffacciava allora quell’ansia per il fare che gli farà appuntare tanto tempo dopo – era il 1970, ed egli sfiorava ormai gli ottant’anni – “come è breve la vita. Dolore di non riprincipiare dal punto dove finisce”.
Ebbe, sempre, uno sgomento: quello di riconoscersi “detestabile individuo che troppo spesso segue la piacevolezza degli occhi” – paura confessata alle pagine d’una sorta di autobiografia spirituale, tuttora inedita, nel 1923: quando gli era appena uscito dalle mani sapienti d’antiche perfezioni (l’amatissimo Pollaiolo prima d’ogni altro; e poi Hodler, Schiele …) il nudo edenico, perfetto e suadente, dell’Adolescente, che piacque non per caso ad un Oppo invincibilmente purista più d’ogni altro quadro esposto alla terza Quadriennale torinese, nella primavera del ’23.
E all’opposto ebbe, Ferrazzi, una volontà pertinace: quella d’iscrivere la propria opera al cuore dei suoi anni; di farla, soprattutto, moderna. Nella sua ricerca “viene così a spostarsi il concetto del volume di Cézanne”, scriverà in un paragrafo dell’autobiografia intitolato Della visione prismatica. A “spostarsi”, e non ad elidersi. Ché il “complesso di brividi di una realtà nuova non ancora sondata” che il suo tempo ricerca e insegue, e prima di tutto lo spazio più complesso della mera apparenza che quella realtà rinserra, Ferrazzi capisce che sono talenti “intravisti [soltanto] nelle forme astratte di questi ultimi tempi”. È così lì, nella tradizione cézanniana, e non altrove (giovane tradizione, d’altronde, ed eversiva principalmente per un italiano, che pur a Parigi s’era recato, appresso al padre, già nel 1914: quando vi dominava incontrastato il linguaggio cubista, consapevole erede di Cézanne), intuisce allora che unicamente possa riconoscersi la via verso la rappresentazione di quelle “cose più complesse” che chiama – qui sì, italianamente – “il Prismatismo della nostra epoca”, ma che in realtà dichiarano il bisogno di una visione simultanea e moltiplicata sul reale: secondo un modo di visione di radice certo ben più cézanniana che futurista.
“Il Prismatismo della nostra epoca” è il più tardo battesimo dato da Ferrazzi, nel 1924, ad istanze che gli si erano fatte presenti già assai prima: prima della guerra, comunque, e mentre cominciava a guardare – ma mai senza un grano di sospetto – al movimento futurista (parteciperà infine soltanto alla “Grande Esposizione Futurista” di Palazzo Cova a Milano nel ’19, che vide adesioni allargate e un generale recupero di volontà figurali). “S’apre la tela in cavità luminose – tutto scintilla nei corpi lucidi nei piani a luci radenti”, scrive. Ed è, oltre ogni tautologica verisimiglianza, un mondo “a sé” che prende forma: traversato da notturne “ombre spaziali” e da balenanti traiettorie di luci: fasciami d’energia che misteriosamente, e presto ansiosamente, solcano una spazialità non pianamente esperibile, e ribattono sul primo pano, veementi, “potenze dinamico-luminose” che Ferrazzi dice tintorettesche, e “visioni di prospettiva interiore”, affollate di una “ridda umana di corpi colore attraversati da raggi di sole”. Pienamente espresse in Festa notturna, appena prima che la visione diventi “prismatica” nell’Autoritratto come Lazzaro o nell’Idolo del prisma (opere tutte qui esposte), queste tensioni ad una visionarietà eccitata e franta prendono passo subito all’uscita del periodo aurorale, “segantiniano”, del pittore: e già squassano la normalità ottica di opere come la Prima diavoleria, del ’16, o – dello stesso anno, ma già risalente al periodo di Montreux – La pianura di Koppigen. Ovvero ancora – anch’esse esposte oggi – di tele come Place de la Paix di giorno e Place de la Paix di notte, primissime opere dipinte in Svizzera, nel maggio del ’16, quand’era ospite del suo mecenate Walter Minnich. Presso il quale già questa coppia di paesaggi attesta che Ferrazzi conobbe e proficuamente sperimentò la prima stagione dell’espressionismo tedesco, come più volte in seguito ricorderà: ma sviluppando modi e pensieri già prima intuiti – frutto d’una fonda inclinazione visionaria dell’animo – e qui appoggiati a una materia cromatica ancor più densa e carica, da dir quasi vangoghiana.
Ancora del ’16 è un dipinto, il Ritratto di Gino Luchini, invescato in una pasta di colore grave, ottusa: è un avviso ulteriore della poggiatura espressivamente carica, fin sulla soglia del collasso visivo, del Ferrazzi di questo tempo; che giunge qui a sfiorare una mai più riattinta icasticità, quasi caricaturale, dell’immagine. Gli anni ulteriori sono densi di ricerche molteplicemente indirizzate e non sempre di facile decifrazione (“un momento di passaggio”, li dirà in seguito Ferrazzi): talora non senza memoria dell’ultimo Boccioni (La donna tra i sambuchi, ’17: che in ogni caso supera di slancio lo spadinismo stanco e francesizzante allora in auge a Roma), talaltra – Il ballo, 1919 – nutriti da radici assai meno evidenti (Ensor, o il primitivismo di Laethem-Saint-Martin, forse; per quanto il pittore abbia più tardi invocato per questo dipinto l’autorità di Paolo Uccello) delle più riconoscibili prospettive che indubitabilmente aprono sulla Neue Sachlichkeit tedesca d’anni Venti (il dipinto infatti, esposto alla Biennale veneziana del 1920, fu largamente commentato dalla critica tedesca). Poi, come uscito da un laboratorio che muove almeno dal primo Carrettiere, del ’14, ecco il capolavoro: il Pescatore, che ebbe lunga gestazione, studi e varianti e riprese anche assai più tarde, ma che fu subito intuito da Ferrazzi come un luogo e un momento cruciale della sua pittura.
“Nacque allora – 1919-1920 – il terribile Pescatore già visto in Arno nel 1918”, scriverà qualche anno dopo, ricordando del quadro, infine, il venire al mondo in una “notte [che] mi prese con i suoi fantasmi”, intravisti stavolta sulle rive del Tevere. “Vedevo figure aggirarsi o accovacciate sotto gli stracci e che dormivano sotto i ponti, altri che pescavano alle luci che scendevano dal di sopra verso Ripetta. Trovai allora un tremendo modello che aveva un odore di cadavere, e lo portai nello studio”, ove questa figura singolare, turbata e conturbante, gli apparve infine “nel suo terribile angosciato silenzio”. E altrove, sempre nell’autobiografia inedita, in una pagina del ’23: “l’uomo era nudo davanti a me, illuminato dal basso, i muscoli balzavano con elasticità di passaggi sferici tra luce e ombra”. Poi “l’idiota ridivenne lui e si partì vestito per la strada sua. Così nacque il mio povero Pescatore che in quel momento mi occupava intiero”.
E davvero fu intero, il pittore, in questo gran quadro che ricapitola i suoi studi su una luce che elude e sfascia il contorno, ridotto a segmento sommario di colore; che erode e reinventa la plasticità dei corpi; e ove Ferrazzi unisce insieme la violenza che ha nel cuore (“una terribilità che solo a Michelangelo doveva essere apparsa”) con gli studi sull’antico e sul moderno: Caravaggio, e ancora una volta la franta spazialità di Cézanne, e qui persino un grano di futurismo proto-boccioniano. Ne esce, alla fine, un quadro ‘folle’, a detta di Oppo, che rimprovera al pittore quel suo sperpero di talenti disegnativi, e quell’ostinarsi in una crudezza tedesca: che era misura formale evidentemente aliena non solo ad Oppo e all’enclave tutto di “Valori Plastici” – cui Oppo ambiva ad essere prossimo – ma, allora, ad ogni declinazione italiana di quel ritorno all’ordine che, dopo l’avanguardia e dopo la guerra, avrebbe preso a spirare forte, da noi e in tutta Europa.
Quadro, dunque, inattuale e gigante, il Pescatore: e sarà per il suo introiettato cézannismo, o per l’asprezza inconcilante dei suoi tagli prospettici, o ancora per il livore delle sue luci verdi e grigie, che vien da stringerlo ad un altro dipinto capitale che, dieci anni avanti, era apparso in Italia, e che proprio come il Pescatore non avrebbe fatto alcuna scuola, né lasciato alcuna traccia di sé negli anni a venire: ed è il Paesaggio dell’11 con cui Morandi inaugurava la sua pittura. Incommensurabile a Ferrazzi, Morandi, in tutto: se non fosse per questa alterità profonda rispetto ai suoi anni che l’aveva segnato ai suoi albori, e che tornerà ad accompagnarne adesso il cammino, allo scadere del 1920 e all’uscita definitiva da “Valori Plastici”, a partire dai sette corpi annottati della Natura morta già Jesi.
Un’amica, visitando la prima Biennale romana del ’21, ove era esposto il Pescatore, disse del quadro quanto pensava Oppo: “che – ricorderà Ferrazzi – trovava tetra e dura” quella pittura. Aggiunse: “sposati una bella donna come questa”, indicando una fanciulla, Orizia Randone, che passava nella sala. Orizia era figlia di Francesco Randone, che ebbe una notorietà come “maestro delle Mura”: ceramista, all’avvio del secolo aveva scambiato con Balla e con Cambellotti, in una Roma piccola e diversa, idee umanitarie e pensieri esoterici. Ferrazzi, tempo un anno, sposò Orizia, con la quale spartirà una vita di lavoro. E per qualche tempo la sua pittura – più, certo, per la serenità della nuova vita che per accordarsi alla temperie del tempo – mutò registro. Vennero così quadri stremati di dolcezza, sorretti da una perfetta sapienza disegnativa: l’Adolescente, l’Idolo del prisma, sino ad Orizia e Fabiola (con il quale vincerà il Premio Carnegie nel ’26); ed altri dipinti di composizione più articolata e ambiziosa: I caratteri della Famiglia, Visione prismatica, Viaggio tragico; folti di riferimenti all’antico (e in ciò non lontani dal Guidi e dal Tozzi coevi), e pur traversati da un allarme sconosciuto, da una sorta di malata malinconia.
Ma già coeve a queste ultime, nascevano nuovamente pitture disagiate, espressivamente caricate, ‘folli’ – a dirla ancora con Oppo. Fra le prime di questa nuova stagione, che riannodava il filo mai in tutto reciso con il suo passato, il Bue alla ferratura (1925), immagine aspra d’un volume possente costretto a fatica nello spazio che gli è destinato, donde il corpo dell’animale sembra debba dover prorompere da un istante all’altro. Sagomava le sue tavole, negli anni che avevano preceduto la guerra, Ferrazzi: proprio per negare spazi di rilassatezza alla figura compressa nel dipinto, per chiudere vie di fuga, per sbarrare orizzonti, accrescendo la forza dirompente dell’immagine. Adesso, la sagomatura della tavola, della tela, non gli è più necessaria: ma la figura giganteggia egualmente in uno spazio costretto e ansioso, grida il suo furore, investe il primissimo piano d’iperboli prospettiche.
L’animo più fondo di Ferrazzi torna così, adesso, a governare la sua pittura. La grazia, la sapienza, l’incanto che l’avevano sedotto sull’avvio del decennio sono ormai lontani. Progressivamente, si perderà anche quel sogno d’un mondo leggibile nella sua complessità attraverso il mistero del prisma (un’altra chimera verrà a sostituire l’alchimia esoterica del “prismatismo”: e sarà quella tesa al recupero delle tecniche antiche e perdute dell’affresco, dell’encausto). Resta nelle mani, a Ferrazzi, della riforma lungamente attuata d’una spazialità prospetticamente plausibile, soprattutto quel senso d’un mondo turbato, traversato da sogni e visioni, abitato da lampi e da sconosciute correnti d’energia, scosso da brusche impennate e da profondissime voragini: un mondo disabitato e aspro, come nei più anticanonici paesaggi della pittura italiana del tempo (Temporale a Tivoli, Temporale di notte, Le rocce del Catillo), ovvero dilaniato nella sua unità, scompaginato e moltiplicato all’infinito in un salto continuo e arbitrario di prospettive che mimano, in sostanza, il dramma e l’irragionevolezza dell’esistenza.
È il tempo, allora, delle Diavolerie, delle Cadute, delle Apocalissi: ove uno sguardo profondamente turbato dal dolore (sono gli anni più crudeli della nuova guerra) risale alla visionarietà, al fuoco fantasmatico che è il registro più fondo del pittore. Lo spazio violato ed escluso della giovinezza torna ora a circondare, quasi a soffocare, i corpi prostrati e avvinti: percorso da ascensioni e cadute, da saette di luce, da voragini d’ombra, da gorghi di materia infuocata. È uno spazio vorticante e mai domo, saturo, antiprospettico, sommosso dalle tensioni centrifughe che ovunque lo percorrono, bruciato dall’ansia. E vengono quadri selvaggi e impuri, quadri colmi, ancora, di una intatta energia creatrice (fino alla Stanza: a proposito della quale scrisse lucidamente del filo che stringeva questo dipinto, datato 1943-’46, ad un tempo tanto precedente: “dal Pescatore alla Stanza […] c’è un nesso drammatico politico sociale che si svolge”, ininterrotto). Quadri per i quali, un’altra volta, si cercherebbero invano riscontri e affinità vere con la pittura italiana del tempo. Ferrazzi, anche in questa sua seconda stagione, si vuole ed è pittore interamente europeo.