Due grandi isolati: Giorgio Morandi e Filippo de Pisis
Il battesimo di “isolati” – di “grandi isolati”, anzi, della pittura italiana del ventesimo secolo – è da sempre spettato a Giorgio Morandi e a Filippo de Pisis: come ai nostri due pittori che da un canto hanno rappresentato l’evolversi al più alto livello qualitativo delle istanze formali dell’arte nostra nel periodo fra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra; dall’altro hanno operato al perfezionamento della loro lingua lontani, l’uno e l’altro, da preoccupazioni di adesione a questo o quel gruppo, proponente una poetica comune.
Entro questi confini, è possibile ancor oggi – e pur alla luce di studi recenti che ne hanno sottolineato l’ampiezza e l’importanza dei loro rapporti con la cultura, non solo pittorica, dei propri anni – serbare alla figura di Morandi e di de Pisis questa caratterizzazione, e diciamo pure quest’aura, di un sovrano loro sorvolare ogni preoccupazione di schieramento e di militanza: guardando ad essi, ancora, come a due maestri per i quali una costante sorvegliatezza sul proprio agire ha contato più che lo sguardo poggiato attorno ad essi, e il dialogo tramato con i propri compagni di strada.
Morandi nasce a Bologna, ed entro le mura della sua città, arroccata all’ombra delle sue torri medievali, tetragone almeno sino agli anni Cinquanta inoltrati alle suggestioni ‘moderne’ che potessero venirle da fuori, svolge quasi intera la sua vita di pittore. Restano proverbiali i suoi silenzi, il suo quasi testardo e scontroso isolarsi, la sua appartatezza, protetta sempre dalla cerchia affettuosa e devota che attorno a lui, e certo su sua sollecitazione, avevano costruito le sue tre sorelle, Anna, Dina e Maria Teresa. A mezzo fra realtà e mitologia, questa è l’immagine di Morandi che dura sino almeno alla morte, giunta nel 1964. Un’immagine con cui infine il pittore stesso finì per consentire, e della quale in qualche senso può dirsi che egli si giovò: appoggiando su di essa la sua estraneità profonda dalle sorti di una pittura italiana sovente, in Europa, percepita come piccina e troppo facilmente prona, prima, nell’adeguarsi ai dettami di un regime autarchico come quello fascista, poi, nel dopoguerra, nell’accettazione paralizzante del falso binomio realismo (socialista) – astrattismo.
Da entrambi codesti mondi e ambiti politici e culturali, Morandi ebbe invece poco più che incomprensioni. La sua grandezza fu a mala pena intuita fra le due guerre, quando solo la terza Quadriennale romana, nel 1939, attribuendogli una vasta mostra personale e un secondo premio (dietro al più giovane e assai più esile suo conterraneo Bruno Saetti), sollecitò finalmente la lettura critica profonda della sua pittura di Cesare Brandi, e in seguito le prime monografie (di Arnaldo Beccarla, poi dello stesso Brandi); e fu solo allora che Morandi, giunto alla soglia dei cinquant’anni, divenne un ‘caso’ almeno nazionale, uscendo da quella situazione di semi-clandestinità in cui era stata confinata sino ad allora la sua pittura, “intimista” ed “ermetica” (come veniva sovente battezzata dalla critica del tempo), e prediletta soltanto da un raffinato, colto ma ristretto collezionismo, soprattutto d’area milanese. Dopo la guerra, d’altra parte, mutato il clima politico, non cambiavano di molto i giudizi riduttivi su Morandi, accusato sovente dalla critica vicina alla sinistra militante – nuovamente – di “ermetismo”, di “accademia”, e fatto colpevole di sottrarsi, con il suo testardo prediligere i minimi pretesti figurativi della natura morta o del paesaggio, al dibattito sul ruolo dell’arte, e ai compiti ‘educativi’ che si pretendevano allora dalla nuova pittura socialmente e politicamente impegnata.
Morandi, in tutto ciò, ebbe la forza – che è solo dei grandissimi artisti – di proseguire, quasi cieco di fronte a tante incomprensioni, la sua ricerca. Gli anni Dieci erano stati per lui di vasto orientamento sulle principali fonti della pittura moderna: a muovere da Cézanne, che conobbe attraverso il libro del Pica Gl’impressionisti francesi, del 1908, ma la cui grande lezione egli intese soprattutto attraverso gli scritti pubblicati sulla rivista “La Voce” da Ardengo Soffici – pittore fra i più aggiornati nell’Italia al transito fra primo e secondo decennio del secolo, oltre che critico acutissimo – che fu il tramite principale, in quegli anni, fra la cultura impressionista e quella italiana. A Soffici, Morandi deve anche, in un tempo che è per lui ancora di prima formazione, la conoscenza del Doganiere Rousseau, di Derain, e del primo cubismo di Picasso e di Braque; ed egualmente la vicinanza che si trovò per brevi mesi a condividere con il futurismo (al quale Soffici – dopo iniziali, assai accesi dissensi – s’era a sua volta avvicinato): avanguardia alla quale presto Morandi capì d’essere nel fondo estraneo, ma che pure lo attrasse attorno al 1914, quando giunse a partecipare, inviandovi una Natura morta di vetri, alla grande collettiva futurista che si tenne a Roma, presso la Galleria Sprovieri. Negli stessi giorni, sempre a Roma, Morandi aveva inoltre occasione di esporre un dipinto (un Paesaggio di neve) alla seconda mostra della Secessione: dando segno così di partecipare, in quei suoi primi anni, fin alle battaglie più azzardate della sua generazione.
Sul finire del decennio, poi, l’adesione, anch’essa di breve durata (fra ’18 e ’19) alla metafisica, e a seguire all’esperienza che ne discende, aggregata a Roma dal gruppo dei “Valori Plastici” (capitanato da Mario Broglio, De Chirico, Savinio e Carrà), pongono fine a un tempo in cui il pur appartato Morandi si compromette con i suoi coetanei e con le loro teorizzazioni. Gia sul finire del 1920, e poi pienamente in apertura del nuovo decennio, alcune straordinarie nature morte fosche, assembrate d’oggetti e di luci sopite, dense di materia corrusca, dicono che una nuova stagione s’è aperta: e sarà quella, della definitiva maturità. In cui Morandi, ritrattosi da ogni legame e solidarietà con i suoi più prossimi colleghi, si dispone in traccia, ora, di una strada soltanto sua. Un ultimo tentativo d’accasarsi all’interno d’una più vasta ‘famiglia’ è quello, ancora una volta sollecitatogli da Soffici, di stringersi alla coinè del “Selvaggio”, la rivista di Mino Maccari, e del movimento di “Strapaese”, che predica un ritorno alle radici più umili ed autentiche di un’Italia contadina. Ma anche questa breve parentesi (aperta fra ’27 e ’28) infine si chiude, e Morandi esce, da quest’ultima esperienza di prossimità cercata con altri, ancor più fermamente inteso a cercare in solitudine la propria forma.
Le collezioni di Palazzo Koch ospitano, di Morandi, poche ma sceltissime opere. La più antica risale al 1912: raffigura Il ponte sul Savena a Bologna, ed è la prima sua acquaforte conosciuta; la prima che egli riconobbe e di cui, in occasione della larga antologica dell’opera grafica che si tenne alla Calcografia Nazionale di Roma nel 1948, autorizzò Carlo Alberto Petrucci a far eseguire una tiratura. Con essa, risaliamo ai primi passi mossi da Morandi in quella ricerca incisoria ch’egli tenne sempre strettamente coesa a quella pittorica, e che ebbe in anni più avanzati un’acme di intensità espressiva. Ad un anno di distanza dal Paesaggio del 1911, che apre il catalogo generale dell’opera dipinta, quest’incisione ne conserva infatti tutti i tratti stilistici dominanti: l’asprezza, in particolare, del segno, che innerva ogni luogo del piccolo paese; l’esigua profondità dello spazio designato, allungato sul foglio da un’unica diagonale; e, in alto, la porzione di cielo, unita e densa di luce. Così che viene da citare, anche per l’incisione del ‘12, il brano celebre destinato da Brandi al dipinto aurorale di Morandi: “una piccola tela, nella quale il pittore, ventunenne appena, fermava in pochi segni densi, raggrumati, la visione, non idillica, non accogliente, d’un paese, la cui linea d’orizzonte, improvvisamente tumefatta, come un’onda che sta per frangersi, sbava contro un cielo vasto di solitudine senza approdi”. Solo, nel dipinto, era più evidente di quanto non avverrà nella lastra la dipendenza, e quasi lo scoperto omaggio, fatto a Cézanne; mentre nel foglio l’aspra povertà dei segni fortemente incisi sembra mettere piuttosto in rapporto Morandi con il clima dei suoi primi anni bolognesi: quand’era compagno all’Accademia, fra gli altri, di Osvaldo Licini e di Severo Pozzati, con i quali avrebbe fatto l’esordio pubblico nella “mostra di due giorni” (il 22 e il 23 marzo del 1914) allestita all’Hotel Baglioni di Bologna, e con i quali, come questo foglio dimostra, egli si trovò a spartire quella sorta di primitivismo che percorreva allora, prima dello scoppio della Grande Guerra, molte province d’Italia.
Occorre fare un gran salto per giungere, da questa tutta intrisa d’ardore e fors’anche da arrischiati azzardi stilistici giovanili, all’opera perfettamente matura, e di grande rilievo qualitativo, che Morandi licenziò nel 1942: un Paesaggio, di Grizzana naturalmente, luogo di quasi tutti i dipinti di paesaggio morandiani. Ma per intendere tutto il peso emotivo di cui la tela si fa carico, occorre aprire una parentesi. Morandi non è stato – né avrebbe mai potuto essere – fascista; non fu mai attivamente, d’altronde, un antifascista. Bastò però il cerchio d’amicizie che frequentava a Bologna (Carlo Ludovico Ragghianti, Giuseppe Raimondi, Cesare Gnudi, il giovane Francesco Arcangeli: tutti vicini a Giustizia e Libertà) per renderlo sospetto al regime. Che nel maggio del ’43 lo arrestò, trattenendolo una settimana in carcere; infine, per il probabile intervento congiunto di Mino Maccari e di Roberto Longhi su qualche gerarca, l’equivoco fu sciolto, e Morandi liberato. L’arbitrio di quel breve arresto pesò però a tal punto sull’animo del pittore che egli, prese con sé la madre e le sorelle, si rifugiò in quella che era negli anni divenuta la sua dimora abituale d’ogni estate: il piccolo paese, arroccato sull’Appennino bolognese, di Grizzana. Lì si trattene per oltre un anno: sino a quando, alla fine dell’estate del ’44, un’offensiva nazista d’inaudita violenza, diretta a minare la resistenza d’una delle formazioni partigiane più agguerrite, non compì l’eccidio che la storia conosce con il nome di Marzabotto, ma che riguardò egualmente le case e la popolazione di Grizzana. Morandi, che aveva già assistito in paese alle prime decimazioni, riuscì a rientrare allora a Bologna, ove riprese l’insegnamento e la vita solitaria che amava. Fra 1942 e 1944, comunque, egli aveva trascorso la maggior parte dei suoi giorni nell’isolamento assoluto del borgo dell’Appennino. Dove solo, talvolta, riceveva la visita di qualche raro amico.
Questa stagione gli fruttò una serie di paesaggi di straordinaria intensità: paesaggi che toccano corde emotive molto distanti l’uno dall’altro: e che vanno da un ultimo omaggio alla serena, casta e diffusa luminosità del Corot ‘italiano’ (La strada bianca, ad esempio) al presentimento della stagione estrema, erosa d’ogni prestigio pittorico (il formidabile Paesaggio del ’43, schedato dal catalogo generale del Vitali al numero 470, che preannunzia i più spogli fra i paesaggi degli anni Sessanta).
In questi dipinti di paesaggio del tempo di guerra, Longhi, presentando alla Biennale di Venezia del 1966 la retrospettiva dedicata a Morandi poco dopo la morte, riconobbe più tardi “il culmine, che mi pare fosse il più alto da lui raggiunto” della sua pittura. Appartiene a questa serie, e ne è anzi uno degli esempi maggiori, l’esemplare ora in collezione della Banca d’Italia. Un vento pare percorrere la tela, da capo a capo. Confonde i confini delle cose: degli alberi che gli resistono, eppur flettendosi; della verzura che si strema a terra; delle poche case sperse in mezzo ad essa. Lontano, verso l’orizzonte, il filo della montagna azzurra lascia la sua limpida traccia nel cielo. Qui, sul primo piano, è un disordine che regna ovunque; il colore si impasta, dato parcamente e subito distolto dalla tela, che resta smagrita, quasi offesa dallo scavo del pennello.
È un anno di guerra, già, il 1942 in cui questa tela vede la luce; se anche non sia l’ultimo, il più tremendo per quei luoghi. Eppure Morandi continua a cercare, ansioso certo, ma infine positivamente. E l’unico ‘dolore’ che narra è, quasi, quello della rinunzia a ‘comporre’, come ha fatto così a lungo, come tornerà a fare: comporre spazi nitidamente misurati da volumi, da presenze, e cadenzati dall’assenza, dai vuoti.
Tanto quanto era stata unita, di temi ed intenti formali, la ricerca morandiana negli anni dell’esilio a Grizzana, tanto è un anno vario il seguente: quel 1945 che vede Morandi rientrare nella casa bolognese di via Fondazza. È nuovamente vicino a quelle poche cose – l’una ad una cercate, scelte, guardate e, attraverso quel lungo sguardo posato su di esse, profondamente conosciute e amate – che costituiscono il suo sempre eguale pretesto di pittura: la brocca, il lume, le ciotole, le “polverose bottiglie”, di cui gli farà colpa una critica che spera da lui – sragionando – un diverso impegno narrativo. Vario di assetti concentrati o dispersi, di oggetti serrati a quadrato o disseminati sul piano di posa. Ovunque però risale, a partire da quest’anno – dopo il disordine affannoso, e la grande libertà dei paesaggi di guerra – il bisogno di ‘comporre’: di costruire ordinatamente, studiosamente, la spazialità del dipinto, pur alterna di vuoti e pieni, di rilassamenti e contrazioni.
Così è anche in questa Natura morta, che Vitali data al 1944-1945: dunque pensandola come una delle primissime eseguite da Morandi al suo rientro a Bologna da Grizzana. Opera importante di questo torno di tempo, nella sua casta, e certo premeditata, semplicità: se fu esposta tra l’altro, dopo la retrospettiva di New York del 1957, alla “Mostra del Centenario” promossa a Bologna nel 1990, in occasione appunto della ricorrenza dei cent’anni dalla nascita. Semplice – si diceva – e quasi timida assise di corpi bagnati dalla luce, che ha fonte precisa a sinistra, e che proietta l’una appresso all’altra le ombre degli oggetti sul piano di posa, misurandone così i brevi intervalli che li separano. E come ciò avviene con una quasi didascalica evidenza, con un tremore che sembra quello d’un novizio; come se Morandi avesse avvertito, in questa sua ripartenza, il bisogno di contare ogni suo colpo di pennello.
E certo è solo così, guardandone il passo lento e metodico, sorvegliato e prudente, che si capisce la poesia di questa piccola opera, di nuovo – dunque – da dire aurorale: paratattica, spoglia di seduzioni e d’avventure, che subito dopo verranno nuovamente ad animare di maggiori incertezze gli approdi di Morandi. Si guardino, a confronto, per aver di ciò definiva evidenza, altre nature morte di quell’anno stesso: le due, almeno, che furono di Fiocco e di Longhi, ad esempio: ove gli oggetti son stretti l’un l’altro, rischiando assembramenti, sovrapposizioni; e le strusciate del colore su di essi sono lasciate in vista, e in via di farsi materia, a stento contenuta dai contorni tremanti che designano i confini delle cose.
Morandi ha allora tanta strada, ancora, davanti a sé: di quell’anno stesso, la piccola monografia di Giuseppe Marchiori, e del ’46 quella di Cesare Gnudi, segnano la rinnovata attenzione della critica al ‘caso’ del grande ‘isolato’. Mentre è già giunta, nella primavera del ’45, la testimonianza certo più cara e più attesa: quella di Roberto Longhi, che ha presentato alla Galleria del Fiore di Firenze la prima importante personale di Morandi dopo la Liberazione. Da allora in avanti, e tranne le incomprensioni di certa critica di militanza politica di cui sopra s’è fatto cenno, la figura di Morandi è vieppiù circondata di credito e di rispetto, che si vanno estendendo anche oltre i nostri confini. Fino al 1948, quando, in occasione della Biennale veneziana che riapriva allora i battenti dopo l’interruzione della guerra, gli viene assegnato – auspice Longhi; e con una decisione che scatenerà l’ira invidiosa di De Chirico – il gran premio per la pittura.
Molte stagioni seguiranno, d’una pittura mai stanca né assopita su modi sperimentati, ma che certo nuovamente assurge ad un vertice qualitativo proprio negli anni ultimi: a muovere dal ’57, dal ’58, segnatamente, quando il rinnovato approccio alla tecnica celere e abbreviata dell’acquarello sollecita Morandi ad una essenzializzazione dell’immagine che lo conduce ad un solo passo dall’astratto – le cui premesse non aveva mai voluto condividere sul piano teorico, ma verso il quale lo spingeva, in certo senso da sempre, la riduzione drastica delle occasioni del visibile ammesse a pretesto della sua pittura. Ora, una radicale semplificazione del referente di natura si accompagna a una sintesi degli spazi che quella natura – di paesaggio, di natura morta, come da sempre e soltanto avveniva – sono destinati ad accogliere: poveri, magri segni designano allora le cose disperse in una spazialità quasi visionaria. E i suoi pochi oggetti, passati al filtro esigente di quest’ultimo setaccio, lasciano sulla tela solo l’ombra di se stessi; e, con quell’ombra, come un estremo fiato d’esistenza dato nel nulla che ora Morandi intravede.
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Filippo de Pisis nasce a Ferrara nel 1896, e sin da fanciullo mostra il carattere, e i talenti, dell’artista. Soprattutto, dimostra d’avere una consapevolezza precocissima della vocazione all’esasperato estetismo che governerà la sua esistenza. “La vita non vale solo per il suo contenuto, ma soprattutto per il suo stile”, annoterà più tardi in uno dei suoi diari: ma la convinzione che la sua prima e più straordinaria opera d’arte avrebbe dovuto essere non una poesia, non un romanzo né un quadro, ma appunto la sua stessa esistenza, data già ai suoi primissimi anni. Nella grande dimora patrizia del padre, il conte Ermanno, s’occupa di tutto: è naturalista ed entomologo; avido lettore di classici e di contemporanei (poeti, soprattutto: Foscolo, Pascoli, Corrado Covoni; ma anche Balzac e Stendhal); erudito, versato in particolar modo nella storia artistica ferrarese dei secoli trascorsi; poeta e letterato; peritissimo miniaturista (“su avorio e pergamena”); all’occasione persino pittore… “Originale e indipendente”, comunque, già da allora – dirà di sé, con l’assoluta mancanza di modestia che sempre lo sosterrà – in qualsivoglia delle attività che intraprendeva. Nel frattempo gli studi regolari, ginnasiali e liceali, sono portati a termine, sì, ma non senza qualche difficoltà: già mostrando anche in questo, de Pisis, un animo irrevocabilmente ribelle alle regole.
Poi d’improvviso, per un periodo breve che sta a cavallo fra 1916 e 1917, Ferrara diventa – da piccola, orgogliosa, chiusa provincia che era – capitale dell’arte italiana: il che accade quando vi convergono assieme – indirizzati nel locale sanatorio dalle gerarchie militari che intendono evidentemente preservarli dai rischi della guerra – Giorgio de Chirico, il di lui fratello Alberto Savinio e Carlo Carrà. Nasce allora, nel giro breve di qualche mese, la Metafisica: quel modo di avvertire la singolarità, la bellezza arcana, il mistero e il dramma delle cose ordinarie, chiamate a prendere vita sulla tela in improbabili assise, in famiglie impossibili, in incongrui incontri. È una delle poche, grandi avanguardie italiane del secolo quella che prende allora avvio a Ferrara, preparata soltanto dalla preveggenza di De Chirico e dalle sue intuizioni maturate durante il primo soggiorno parigino (1910-1914). Esplose nella cinta delle mura, sino allora tetragone alla modernità, della “città dalle cento meraviglie” e, pur non essendo mai divenuta un vero movimento, pur aliena dai riti obbligati delle altre maggiori avanguardie europee d’inizio secolo, con le quali non tardò peraltro ad entrar presto in aspra polemica (non partorì mai, ad esempio, un proprio manifesto), la Metafisica ebbe un’eco lunga e varia in gran parte della cultura pittorica degli anni Venti, da noi e oltralpe: sino ad influenzare in modo diretto la parte migliore di quel “realismo magico” che dalla Germania passò in Italia e poi dilagò ovunque in Europa; sino a esercitare suggestioni determinanti sulla nascita del surrealismo.
De Pisis si trovò, poco più che giovanetto, a condividere con i fratelli De Chirico quella straordinaria avventura. E se allora non poté trarne sino in fondo tutto il frutto, s’educò intanto a guardare la realtà con attitudine insieme mimetica e straniata, cominciando ad intuirne, in ogni sua manifestazione, la possibile doppiezza. Dall’insegnamento dei due fratelli, poi, apprese l’ansia per il viaggio: e la consapevolezza che un panorama più vasto di quello offertogli dalla città natale gli sarebbe stato necessario. Eccolo dunque partire per Roma nel 1920, quando s’è appena laureato. Arriva nella capitale d’Italia che è ancora, e vuol essere, soprattutto scrittore e poeta; sarà così ancora per qualche anno; poi, quasi improvvisamente, e fors’anche indotto dallo scarso successo che incontrano i suoi saggi letterari, che a fatica è riuscito a pubblicare, avviene una sorta di conversione: è il 1923, e de Pisis decide finalmente di diventare pittore.
Trascorre altri due anni a Roma, ove intensifica i suoi rapporti con il piccolo mondo dell’arte (fra i pittori, con Spadini, baciato dal successo e dunque da de Pisis guardato come un ‘maestro’, su tutti; con i rari collezionisti; poi con la cerchia ampia di intellettuali che era stata vicina a “Valori Plastici”; con galleristi e mercanti). Finalmente ha occasione di esporre in una personale che attira l’attenzione della critica, al Ridotto del Teatro Nazionale. Sono ventiquattro dipinti recenti, una ventina dei quali gli vengono acquistati dal collezionista Angelo Signorelli. Una carriera è iniziata: proseguirà, sempre a Roma, l’anno seguente, con la partecipazione alla terza e ultima Biennale romana, e con un’altra personale organizzatagli dalla Casa d’Arte Bragaglia.
Da Ferrara a Roma; da Roma – dalla quale, in cinque anni intensissimi, ha preso tutto quanto poteva ricevere: e prima di tutto il suo nuovo statuto di pittore – a Parigi: quasi fatalmente è la grande capitale di un “nord” sempre vagheggiato, la capitale internazionale – ancora – dell’arte, ad essere la sua mèta. Vi ritrova i due De Chirico, assieme a molti altri italiens de Paris (Severini, Tozzi, Campigli, Paresce…) che vi costituiscono un gruppo stimato, riconosciuto dalla cultura ufficiale della città. Frequenta i suoi compatrioti, ma soprattutto si cala intero nella nuova vita parigina, e se ne inebria. I caffè e i mercati, i monumenti e la folla delle piazze e gli affreschi nella chiese (Delacroix a Saint-Sulpice, sempre rivisitato), i ristoranti o le bettole, le stanzucce d’albergo o le camere ammobiliate adibite frettolosamente a studi di pittura, le feste e i balli mascherati (ai quali si presenta spesso agghindato da tatuaggi e collane, accompagnato da nobildonne agées o da giovani seducenti): “ebbro di felicità” trascorre di cosa in cosa, passa i suoi giorni tra “fiori et amori”, dirà, tutto delibando in uno sfrenato narcisismo. Entro queste maglie così aperte, si insinua intanto la pittura, occasionata da ogni incontro con quella realtà di cui s’incanta. Demone ormai assoluto (non ha quasi più il tempo o la necessaria concentrazione per scrivere, nonostante progetti sempre nuovi impegni letterari), essa cresce presto a dismisura per intensità e qualità: e, come spesso accadrà a de Pisis, più si compromette con la vita, facendosene talora persino l’ancella, più tocca corde di profonda bellezza.
Del notevole nucleo di opere depisisiane conservate nelle raccolte di Palazzo Koch, la più antica si data proprio al 1925, l’anno in cui, in primavera, de Pisis raggiunse per la prima volta Parigi. È questa Natura morta con pane, costituita di poche cose – un pane, un pesce, un limone, una caraffa – avvicinate dallo sguardo sino a condurle su un primissimo piano donde sembra come di poterle cogliere. A governare l’immagine è questa prossimità allo sguardo delle cose, quasi tattile; questo taglio che diresti fotografico, che esclude lo spazio attorno ad esse, avvicinandole l’una all’altra in una sintassi disordinata, che sfiora il caos compositivo; e una materia spessa, erta in punti come a mimare la plasticità della scultura: nel bianco del pane, in certi riflessi della brocca, nelle scaglie del pesce, per le quali vien fatto di ricordare queste parole di Sergio Solmi (1931), che si riferiscono a un de Pisis attratto e insieme respinto dallo stato di prima marcescenza di un corpo già vivente: “sottile e perverso incanto della materia moribonda, degli organismi elementari freschi di generazione e già in dissolvimento, delle cieche, misteriose e quasi oscene fantasie della natura”.
Proprio questo lento e cospicuo stratificarsi della materia sulla superficie lascia un margine d’incertezza nel determinare se l’opera sia ascrivibile all’ultimo tempo romano (quando sono superate le sintesi spaziali più chiare e raggelate delle ‘nature morte’ più prossime ai climi di “Valori Plastici”, quali quelle della Natura morta romantica o della Natura morta cinese, entrambe del 1924) o all’avvio di quello parigino: certo essa è comunque compresa nell’arco breve che separa opere come la Natura morta con il Capriccio di Goya, dipinta a Roma, nella quale in uno spazio più vasto si ripete però l’ansia che percorre la spazialità compressa del cartone Banca d’Italia, e il Coin de table, eseguito a Parigi, dove si rintracciano analoghi ingorghi materici (nel trancio di baguette, ad esempio, o nel piatto nero), ma dispiegati in una spazialità più strutturata, di suggestione cézanniana.
Un altro modo, intanto, nasce, in questi primi anni parigini, e si dà come parallelo a questo: è quello, in particolare, delle ‘nature morte marine’, ove de Pisis avvicina implausibilmente un primo piano ingombro di minute presenze fatte improvvisamente giganti (pani e piccole frutta, crostacei e conchiglie) ad una vasta distesa di spiaggia, di mare e di cielo per lo più deserta od occupata da rade apparizioni. Nel crampo antinaturalistico che discende da questo improbabile connubio di un ‘vicino’ e un ‘lontano’ fatti bruscamente prossimi, senza mediazioni, e che forse per la prima volta si manifesta appieno nella celebre Natura morta marina con aragosta (1926), emerge, nella pittura depisisiana, un sentore davvero ‘metafisico’, che paga, pur nell’ambito d’una nuovissima invenzione, quel tributo alla poetica di De Chirico che finora non s’era avvistato nel corso dei primi anni di de Pisis, peraltro così prossimo al padre della metafisica sin dal tempo ferrarese, ed ora a Parigi.
Ad altro clima, più disteso, e come meno gremito di pensiero, appartiene invece questa piccola Natura morta con le pere sul piatto sbrecciato, datata al ’28: frutto, quasi, di un’ora di rilassatezza ideativa, che soltanto la densità materica del vino rosso nel bicchiere riporta ai modi usuali di quel tempo (iconograficamente, peraltro, la Natura morta Banca d’Italia è strettamente affine ad un altro piccolo cartone, sul cui retro è appuntato “Lavarone, 30 agosto 1928”: e, con ogni probabilità, anch’essa risale ai medesimi giorni [cfr. G. Briganti, De Pisis, Catalogo generale, Electa, Milano 1991, tomo I, p. 183, n. 1928.38; vedi anche, ibidem, n. 1928.41]). Il 1929 è, al contrario, un anno drammatico per de Pisis, segnato dalla morte della madre, da sempre amatissima, e con la quale egli usava trascorrere, nelle valli del Trentino, parte delle vacanze estive, durante le quali rientrava ogni anno in Italia. È un evento, questa morte che viene a sorprenderlo “quasi all’improvviso”, come scrive costernato a un amico in settembre, che lascerà a lungo, e forse sino alla fine, un’ala di dolore sulla sua esistenza; certo, quando scrive allo stesso amico, quei giorni: “solo le anime come le tue possono comprendere quanta luce e canto sia anche nel dolore”, sembra aver preveggenza d’un sentimento per lui nuovo, che questa morte gli ha scavato dentro, e con il quale tornerà, ciclicamente, sempre a convivere.
L’anno appresso, il 1930, è nuovamente, per le vacanze estive, in Italia: progetta di tornare in Trentino, ma infine vi rinuncia (“ò pensato che mi sarebbe stato tristissimo rivedere Trento”), e sceglie Cortina. È la prima volta che vi soggiorna stabilmente (il capoluogo del Cadore diverrà poi sua meta estiva abituale), e nella “vecchia casa […] in una valle bellissima” che lo ospita trova una felice, intensa stagione di pittura. Fra i ritratti della gente del posto (“questa gente sana e gentile”, scrive) è da annoverare anche il bel Ritratto di vecchio della Banca d’Italia. È un genere, quello del ritratto, che de Pisis ha da sempre frequentato (mirabili volti di giovanetti che l’avevano particolarmente sedotto, o vecchi scavati di rughe e di saggezze, soprattutto), e nel quale in anni più tardi darà assoluti capolavori. Qui, forse per la prima volta in de Pisis, del ritrattato si coglie, più che la tipicità del volto, il lento trascorrervi di un sentimento, nei piccoli occhi che fissano il vuoto, guardando lontano. Mentre una sconfinata malinconia sembra trascorrervi; come s’affacciasse, attraverso quel vecchio, il ricordo vivo, pungente, dell’amata figura materna.
De Pisis si reca a Londra, da Parigi, una prima volta nel ’33; vi ritorna due anni appresso, più lungamente, invitatovi, anche in questa seconda occasione, dal mercante Zwemmer, ma ospite stavolta dello studio di Vanessa Bell – pittrice, oltre che sorella di Virginia Wolf – ove può lavorare, alternando sedute in atelier alla pittura en plein air, che anche a Londra, nonostante il rigore del clima, predilige. Sia stato o meno il soggiorno londinese, e l’intenso, gioioso lavoro condottovi, a determinarlo, o sia esso nato a Parigi ed esploso adesso a Londra, un modo nuovo prende adesso la pittura di de Pisis, tanto che Francesco Arcangeli, in un saggio famoso pubblicato su “Paragone” nel 1951, scriverà che nella seconda metà del decennio “incomincia una nuova volata d’ispirazione, che dura furiosa e felice fin sul 1940: l’apice di de Pisis, è probabile”. Con il che, oggi, non si può più consentire, ripensando al pieno possesso della prima maturità, fra ’27 e ’29; alle ‘nature morte marine’, principiate nel 1926 e proseguite fin dentro il quarto decennio del secolo; e non per ultimi agli anni suoi più tardi, che prendono luogo dopo il ’48 e durano sino alla morte, occorsa nell’aprile del ’56: anni, questi, punteggiati da più diradati ma straordinari capolavori, degni davvero di stare a fianco delle stagioni estreme dei più grandi e isolati protagonisti della pittura europea, da Morandi a Nicolas de Staël.
Pure, il modo che de Pisis trova a Londra (e che scaturisce insieme da un nuovo ripensare alla grande tradizione veneta del Settecento – Guardi, ma anche il mantovano Bazzani e il genovese Magnasco – e da una nuova presa d’atto di quella pittura impressionista che fin dall’avvio l’aveva sedotto, ma di cui ora scambia i referenti: scegliendo Monet invece di Manet, Pissarro invece che Renoir) e che verrà definito la sua “stenografia pittorica” (Brandi, 1932), è quello che in qualche modo maggiormente ne caratterizzerà lo stile: e che renderà questo suo ‘stile’ straordinariamente atto a trasferire sulla tela l’attimale vibrazione dell’occhio e dell’animo suo di fronte alle cose.
D’ora in avanti, saranno punti, gocce, virgole, macchie, brevi singulti di colore poggiati celermente a definire uno spazio e le cose che esso rinserra. La velocità di scrittura s’accentua: non per una troppo banale “facilità”, avvertiva Arcangeli, ma per una rara “condizione disperata e felice ad un tempo”, nella quale de Pisis, “nella solitudine creata in mezzo al pieno della vita, capta messaggi pressoché indecifrabili al comune alfabeto”. Così, stagione dopo stagione, de Pisis costruisce – a Parigi, a Londra, in Cadore; poi a Milano, a Venezia, a Roma e ancora altrove in Italia – la propria dimensione, che lo rende infine se non “il più grande vedutista del nostro secolo”, come pur è stato detto, certo uno dei maggiori. “Non più un occhio, il suo, ma una spugna di sensazioni. Dalle parole della gente lì intorno, ai rumori più oltre, ai colori nella rétina, alla voce dei rami, agli odori, ai microbi, che grandinata di arrivi alla stazione dei sensi; che velocità di assorbimento e di espressione”.
Poco noto, ma d’altissima qualità, il dipinto Banlieu di Parigi, datato al 1934, è già un felice esempio della pittura che prenderà pieno corso nell’anno seguente. È un angolo appartato della grande capitale: come ce ne potrebbero essere dovunque, in una qualunque periferia; un cancello che delimita una casupola mal cresciuta, una corte modesta da cui spunta, e subito grandeggia distendendo i suoi rami spogli contro il cielo, un albero nero. Pochi colpi di un colore strusciato, magro, deposto quasi sgarbatamente, fanno l’immagine, destituita di seduzioni altre da quelle inerenti alla sola pittura. Mentre la tela, già, rimane in più punti scoperta, mostrando la sua trama grezza che monta a tono cromatico, e che costituisce come il basso continuo su cui gli altri timbri risuonano.
Più tardo, Agordo, non facilmente collocabile cronologicamente (fra gli ultimissimi anni del quarto decennio e l’avvio del successivo, comunque; opera acquisita dalla Banca d’Italia nel 1947), mostra la “stenografia” di de Pisis giunta a intera formulazione. Il colpeggiare veloce del pennello, in punti quasi scarico, trama sulla superficie un pulviscolo d’aria smossa in cui imperfettamente si delineano le poche ‘figure’. La tela, scoperta in più parti, vibra così d’un suo movimento ascendente, raffigurando un brano di realtà come disancorata dal suo crescere attorno al laghetto montano.
Un diverso capolavoro è la Natura morta romantica del 1941. A partire da quella celebre del 1924, dipinta ancora a Roma, altre tele avevano portato il medesimo titolo; una proprio l’anno avanti, di dimensioni minori e di diversissimo imposto spaziale rispetto all’esemplare nella raccolta della Banca d’Italia. E, ancora nel ’40, era apparso più volte il bibelot con la piccola anatra, qui posto alla sinistra della composizione. Che è affollata d’oggetti (non tutti – nemmeno – chiaramente riconoscibili); e che, densa di materia com’è, scura di timbro cromatico, in tutto si distacca dal modo lieve e abbreviato che sosteneva tanta parte della pittura coeva di de Pisis. Egli l’inviò a Venezia, per la sala personale che, per la prima volta, gli destinava la Biennale d’arte, nell’ultima sua edizione d’epoca fascista, che ebbe luogo nel 1942: segno incontestabile del conto in cui il pittore teneva questo suo dipinto: di forza inusuale, certo, gremito di colore dato a piena pasta come lo erano, tanti anni prima, taluni dei quadri fatti sul ’26, all’arrivo a Parigi.
La Natura morta romantica è datata “via Rugabella 41”: che sta a indicare l’indirizzo della casa, al cuore della vecchia Milano, che de Pisis ha preso in affitto al ritorno precipitoso in Italia, cui l’entrata in guerra della Francia l’ha costretto, alla fine di agosto del ’39. Dopo essere stato randagio un po’ ovunque per la penisola, s’è finalmente stabilito a Milano, contento della nuova stagione di pittura che promette buon lavoro, buoni incassi, e – naturalmente – ancora e sempre “fiori ragazzi e farfalle”, come scriverà Nico Naldini. Riceve le visite dei vecchi amici – Giovanni Comisso, Marino Moretti, Cesare Brandi –, condivide la casa con l’ambiguo fac-totum Eddy Languasco e con il nuovo Cocò (cerca anzi di dare a intendere che il pappagallo adorato è lo stesso di quello che gli era stato donato a Parigi: ma l’attuale non ha le doti canore del primo), ma vi accoglie – oltre che, al solito, molti giovani modelli: prassi che gli vale l’apertura a suo carico d’un dossier della Questura come “perturbatore della morale”, e la minaccia, scampata per un niente, di una condanna al confino – anche nuove conoscenze: Luchino Visconti e Renato Guttuso, dalla cui pittura, tanto diversa dalla sua, è incuriosito, e del cui successo non tarderà ad essere un po’ geloso.
A questi anni risalgono l’Interno con lume, sovraccarico di cose nello spazio costipato, nel quale è piena di fascino quell’ala scura e misteriosa che entra implausibile dalla destra, e un altro capolavoro depisisiano della raccolta della Banca d’Italia; la Natura morta datata “V. R. 42” (eseguita dunque, anch’essa, in via Rugabella). Su un tappeto grigio che sale vertiginoso verso il fondo d’un pallido azzurro stanno, precariamente, radi oggetti, dispersi e quasi senza peso: una piuma, piccoli frutti, una conchiglia, una busta… Un presentimento dell’incorporea levità che governa questa tela può essere letto nella Natura morta aerea, datata 1937 e appartenente alle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; ma la prima idea di questo tipo di composizioni – ove le brevi assise delle nature morte sono come costruite, più che da una preordinata raccolta d’oggetti, da un fiato, da un soffio, da uno sbuffo leggero di vento che li sorregga magicamente nello spazio impennato – è forse più giustamente da riconoscersi nella stupenda Natura morta marina con l’osso di seppia del 1929 (l’anno, non per caso, che segnò la definitiva maturità del pittore), nella quale i miseri pretesti di pittura, come raccolti sul piano di posa da un casuale colpo di ramazza, salivano al cielo lontano su una sorta di volante tappeto di cenere. Certo è, comunque, che in opere come questa – che la Banca comprò direttamente dall’artista – de Pisis mostra di saper scavalcare il ‘genere’ secolare della natura morta, con una ricchezza di strumenti pittorici e di forza ideativa giunta al suo colmo.
Poi, in un bombardamento di Milano, la casa e la vita sono messe a rischio; si trasferisce per qualche mese a Roma, quindi definitivamente a Venezia, dove riesce ad acquistare un grande appartamento in una vecchia, nobile dimora (“la casa di San Bastian”, od anche “il palazzotto di Don Rodrigo”), concedendosi persino una gondola personale. “Oh vita, ti benedico e ti ringrazio”: il successo gli arride, i prezzi crescono, i mercanti e i collezionisti si moltiplicano. A Venezia, che diviene, così come era stata Parigi nel[FD1] tre lustri che vi aveva trascorso, una seconda patria, la pittura di de Pisis prosegue, circondata da un riscontro ormai universale, sui modi e sui temi usuali. S’accentua ancora, sulla scorta anche d’un omaggio sovrastorico reso al grande vedutismo veneziano del XVIII secolo, la sua “stenografia”, il modo di trascrivere velocemente e sinteticamente la realtà che gli si squaderna davanti allo sguardo; e la tecnica, cui già aveva dato il là una intensa e a tratti disperata tensione di forma, gli serve adesso, talora almeno, ad accompagnare una facilità di scrittura pittorica motivata anche dalla celerità con cui vuol rispondere alle esigenze di mercato (e si fa realtà, in questi secondi anni Quaranta, l’imperativo che una volta s’era dato: “un quadro al giorno!”). A questi anni, non scevri comunque di bei quadri, appartiene anche la Veduta di Burano della Banca d’Italia.
Nel ’48, dopo alcuni mesi trascorsi di nuovo a Parigi, è ricoverato per la prima volta a Brugherio. Qui, a Villa Fiorita, trascorrerà molta parte degli ultimi anni, dolorosi, ma in cui la ormai rarefatta pittura tocca un’altra volta vertici qualitativi altissimi: mettendosi in rapporto con altre straordinarie vicende di quella parte di pittura europea che non aveva voluto rinunciare ad un ultimo aggancio con la realtà. E vengono così, tra le altre opere, le nature morte ‘delle ragnatele’, vengono le spiagge deserte, grigie e ferrose, abitate solo da una piuma argentea, caduta da un volo lontano. De Pisis muore a Milano nel 1956.