La pittura in Italia nella seconda metà del XX secolo: uno sguardo sulle collezioni di Palazzo Koch.

Alla fine della seconda guerra, la cultura italiana percepì nitidamente il trauma che aveva subito nel precedente ventennio: che, progressivamente, l’aveva isolata dal dialogo con quella europea, in un crescendo di anatemi lanciati contro l’”esterofilia”: il battesimo che il regime fascista, chiuso nel proprio sogno d’autarchica rifondazione delle glorie di Roma, aveva riservato alla persistente tensione di molti verso la più libera ricerca che contrassegnava i passi dell’Europa democratica. È stato, d’altronde, errore d’una storiografia ormai unanimemente giudicata insufficiente sottacere come, dentro le maglie strette del regime, fosse sbocciata, in molti campi, una capacità d’indagine e una ricchezza di risultati che le costrizioni entro cui la ricerca crebbe (particolarmente a partire dalla seconda metà degli anni Trenta) resero più difficili, ma non impossibili. Fatto sta che, comunque, non appena le frontiere verso l’Europa, e verso il nuovo polo economico e culturale statunitense, furono riaperte dalla fine del conflitto, forte, e preminente su ogni altra ragione, s’avvertì l’urgenza di riattivare un dialogo, e prima ancora le condizioni d’una conoscenza, troppo a lungo interdetti.

Nel campo delle arti figurative, quest’assillo si unì a quello di porre le prime fondamenta per un mercato dell’arte contemporanea che sostituisse l’apparato di sostegno all’opera degli artisti già offerto, anche dal punto di vista mercantile, dal sistema espositivo immaginato con scelta politica dirigista ma con indubitabile funzionalità – tramite i Sindacati Fascisti e altre Istituzioni, ad esempio quella del Novecento Italiano – dal regime. La “Nuova Secessione Artistica Italiana”, fondata a Venezia nel 1946 e che presto prese il nome di “Fronte Nuovo delle Arti”, fu il primo raggruppamento d’artisti – di formazione e prospettive diversissime – a cercare di rispondere a questa doppia esigenza: di darsi da una parte una prospettiva di lavoro non provinciale, e dall’altra di proporsi al pubblico – quello dei collezionisti e dei mercanti, in primis, essendo per allora quasi del tutto assente un polo d’interesse museale – come movimento che raccoglieva le forze migliori di una generazione.

Una delle anime principali, e delle menti più lucide, del gruppo fu certo Renato Guttuso: nato nel 1912 a Bagheria, presso Palermo, da tempo stabilitosi a Roma, aveva dato nella capitale durante gli anni Trenta i primi segnali d’una maturità presto raggiunta (come chiarisce in altra parte di questo stesso volume Antonio Del Guercio). Nell’immediato secondo dopoguerra egli è il catalizzatore di forze e intenzioni ideative molteplici: quelle più battagliere della sua generazione; quelle dei molti giovani che confluiscono nel suo studio di via Margutta per un aiuto, materiale o strategico; quelle dei colleghi del nord Italia che vedono in lui, già protagonista della seconda stagione di “Corrente”, il possibile anello di congiunzione d’una catena che stringa ora tutta la penisola (è indicativo come Ennio Morlotti, uno dei principali interpreti del rinnovamento post-bellico della pittura a Milano, anch’egli tra i militanti di “Corrente” e poi tra i fondatori del “Fronte”, scriva in quei giorni che vede Guttuso come “il più forte di tutti noi”).

La Banca d’Italia conserva a Palazzo Koch, fra le molte opere di Guttuso appartenenti alla propria collezione, tre dipinti di questo tempo, diversamente importanti ma tutti significativi per leggere l’evoluzione dello stile del pittore in questi anni cruciali. Il più antico è Finestra sul verde: ove, nella tarsia cromatica accesa, e quasi matissianamente gioiosa, della verzura che satura per intero la luce della finestra e occupa gran parte della tela (significativamente, altrove, abitata solo da quasi astratte partiture geometriche), si riconosce quella semplificazione del disegno, e quel tratto fortemente riassuntivo nel cogliere gli aspetti della natura, che sono propri e comuni, in quel frangente storico, allo sguardo gettato da molti italiani su Parigi, donde i nostri pittori coglievano la sintesi attuata dal gruppo dei “Jeunes peintres de tradition française” (Bazaine, Mannessier, Bissière, Pignon…) fra suggestioni cubiste e fauve, ispirate in particolare, in maniera quasi equidistante, da Picasso e da Matisse. Espressione, questo modo, di ‘modernità’ che, come atto di tempestivo e quasi simbolico aggiornamento linguistico della nostra ‘provincia’ rispetto alla capitale mondiale dell’arte, sedusse largamente più d’una nostra generazione d’artisti. E fra essi i sottoscrittori del documento di fondazione del “Fronte Nuovo”.

Passa appena un anno e, nelle Cucitrici – una delle tele capitali di quel suo tempo, che non per caso Guttuso scelse d’esporre alla prima mostra organizzata dal “Fronte Nuovo” presso la Galleria della Spiga di Milano nel giugno del 1947 – già qualcosa è cambiato: non tanto nella sintassi formale del dipinto, composto secondo cadenze stilistiche analoghe a quelle che governavano la Finestra sul verde, quanto nella maggior pressione che nell’opera si trova ad esercitare, sull’immagine anche qui sommariamente riassunta in tarsie di colore puro, l’umano. Visto qui nella condizione di lavoro con cui l’uomo quotidianamente si confronta: e seppure nelle Cucitrici questo groppo di significati si trovi a convivere con ancora pressanti preoccupazioni d’ordine formale (con l’adesione, appunto, ad un linguaggio ‘neo-cubista’, che Guttuso supponeva tuttora di vasta credibilità anche internazionale, e che come tale continuava a perseguire), si può già scorgere, come in nuce, la strada che il pittore sceglierà per sé negli anni a venire, e che sarà quella – è ben noto – di un neo-realismo, di forte impronta sociale e politica, interamente assunto.

Presentando nel 1950 alla XXV Biennale veneziana il grande quadro Occupazione di terre incolte in Sicilia – quadro già di lotta e di rivolta contro la violenza perpetrata in tutto il meridione d’Italia dai latifondisti ai danni dei contadini – Guttuso si poneva a capo di quel movimento, nato sulla scorta delle indicazioni per un “realismo socialista” che provenivano dall’Unione Sovietica, che contrasterà, nei primi anni Cinquanta, l’egemonia del linguaggio astratto, destinato presto ad attirare, anche in Italia, la quasi totalità delle migliori nostre forze creative. A quell’anno stesso è databile anche questo piccolo dipinto, che raffigura una Campagna a Riano Flaminio: molto lontano, evidentemente, per impegno e per carica emotiva, dai modi maggiori di Guttuso, esso è un esempio della libertà e dell’abbandono quasi lirico del pittore davanti alla natura. È pur tuttavia organico ai modi stilistici del realismo pittorico di cui il pittore siciliano si fa ora interprete: avendo ormai rifiutato le schematizzazioni del reale che hanno caratterizzato i suoi anni precedenti, e con il vasto, arioso squarcio del paesaggio laziale concepito e condotto con piglio quasi neo-impressionista, e come memore di modelli ottocenteschi.

A fianco di Guttuso nella formazione del “Fronte Nuovo” si trovò Giulio Turcato: anch’egli nato nel 1912, ma all’altro capo della penisola – a Mantova – e poi errabondo in Italia negli anni Trenta (Venezia, Palermo, Milano, nuovamente Venezia). Quando nel ’43 si stabilisce finalmente a Roma, egli – pur coetaneo di Guttuso – può di fatto contare su una ben più modesta e marginale ‘carriera’. “Nomade” è stato, dirà egli stesso, negli anni cruciali della formazione, e ad un nomadismo che è del pari intellettuale e sentimentale continuerà a sentirsi, nel tempo che seguirà, soprattutto congenere. E sarà proprio questa attitudine, che è dunque da riconoscersi come profonda inclinazione dell’animo, quella che gli consentirà di vivere sino in fondo la sua indipendenza dai dettami stilistici che di volta in volta gli verranno proposti come ineludibili: fra i quali, proprio al transito fra quinto e sesto decennio, l’adesione – a lui iscritto al partito comunista – a quel “realismo socialista” cui il Partito invitava i suoi sostenitori a partecipare.

Turcato ne rifuggì, spaventato di fronte a quella come ad ogni altra bandiera che pretendesse di irreggimentare la pittura in maglie preordinate. E si scavò per sé una strada che, senza contraddire l’impegno sociale cui allora sentiva di voler stringere la sua pittura, interpretò con straordinaria libertà quelle esortazioni ad un coinvolgimento politico del suo mestiere di pittore. Quando, nel 1949, licenziava un’opera come Porto, Togliatti (sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia) aveva pronunziato da poco il suo anatema contro tutta l’arte astratta o semplicemente non figurativa. Ebbene Turcato, stretto nella forbice che fu paralizzante per molti intellettuali, fra fedeltà al Partito e alle proprie idee, seppe uscirne con la folgorante intuizione di un’arte che, senza porsi a copia servile della realtà, non rinunciasse a prender parte al dibattito anche politico dei suoi anni. Il comizio, allora, le rovine di guerra, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il lavoro, il suo dolore e i suoi luoghi, saranno di qui in avanti i temi prediletti del fronte realista. E saranno anche i temi reinventati da Turcato. Ma in lui, per miracolo, tutto ciò si darà libero da ogni retorica, da ogni obbligo narrativo, da ogni assillo di contenuto: utilizzando, per dare immagine a questi temi, la grammatica fondamentalmente anti-naturalista che negli anni era andato conquistando alla sua lingua. Una lingua fondata prima di tutto sulla scoperta di un colore emozionante, al di là d’ogni mimesi e tautologia.

Porto, molto prossimo ad altri dipinti del biennio ’49-’50 che hanno titolo di Cantiere navale, di Miniera, di Scenderia, è appunto questo: un’opera che documenta un tema scaturito dal mondo del lavoro, ma lo fa usando una sintassi formale d’assoluta indipendenza da ogni dettame realista, e fondata invece sulla comprensione profonda  di alcuni cruciali passaggi della ricerca internazionale, da quella concretista di Arp e Magnelli, a Matisse, a Balla. È attraverso quelle intuizioni e consapevolezze, per lo più attinte a Parigi ove si recò due volte, nel ‘46 e poi nel ’48, che Turcato accede, superando d’un balzo le ambigue strettoie dei suoi anni, alla sua ‘terza via’, ov’egli inventa favole cromatiche senza costrutto logico, eppure di trascinante evidenza visiva: frastornando ogni obbligo d’appartenenza, o peggio di militanza, che imbriglia allora tante intelligenze. Favole che inseguono, sempre, un sogno che è infine anche politico: ma che da progetto sale vertiginosamente a miraggio, da programma ad utopia.

   I due dipinti della serie che battezzò Reticolo, e alla quale attese – con altro – fra ’55 e ’58 segna la definitiva acquisizione da parte di Turcato di quella libertà di comporre per linee e colori la sua superficie, ormai completamente lontana dal mondo. “Peregrinante e zigzagante avventura linguistica nel seno dell’oscurità preverbale, presonora, prima dell’immagine e prima della realtà”: così il poeta Emilio Villa, preveggente compagno di strada di Turcato, diceva pensando a quella superficie invasa dalla gioia di un colore che spavaldamente corre incontro al rischio della ‘decorazione’ senza sminuirsi, che incanta senza narrare, che trova senza aver cercato. E che non ad altro rinvia se non al proprio splendore, al proprio serpeggiante scivolare sul piano con la libera imprevedibilità d’una lava che non incontri ostacoli sul suo percorso.

Ma Turcato non è – non ne avrebbe avuto la sapienza strategica, né la un po’ piccina furbizia – un immacolato sacerdote dell’astratto: il mondo, sognato e non semplicemente avvistato, un mondo avventurato e celeste, incommensurabile rispetto al metro dell’esperienza quotidiana, è per lui di nuovo dietro l’angolo. E quando – dopo aver dato con le Composizioni, con i Reticoli, saggio ultimo della sua renitenza a trasmettere messaggi con la pittura – torna a sfiorare la ‘figura’ con la straordinaria invenzione del Lenzuolo di San Rocco, Turcato vi stupisce e scandalizza, ormai, solo chi non ne abbia inteso l’irriducibile carica fantasmatica. È una festa popolare che prende immagine in questi dipinti, compiuti in piccola, felicissima serie tra ’58 e ’60: Turcato vi fantastica, a suo modo, sull’icona del santo portata in processione e ricoperta dai fedeli di ex-voto; così, all’interno di una partitura interamente astratta del colore, forme più solide e definite si aggregano per ridire l’integrità di quella imperfetta ‘figura’; e la cartamoneta punteggia l’immagine, giocando con l’antico statuto del collage. Il “new dada”, a New York, sta reimmettendo materiali eteronomi nella pittura: questi Lenzuoli, allora, sono la risposta, tutta europea, e perfettamente tempestiva, di Turcato all’ultima avanguardia d’oltreoceano.

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“Il Ministro [cinese] circondato dalle personalità e dalle artiste si sono fermati davanti a ogni quadro sempre dicendo sì è interessante è bello così di seguito. Quando si sono fermati davanti alli quadri di Turcato qualcheduno ha detto: non lo capisco molto bene, e Turcato ha risposto: bisogna leggere i titoli”. Che saranno stati, appunto, Composizione o Reticolo. Il curioso episodio è narrato, nell’italiano fantasioso che fu sempre suo, da Antonietta Raphaël De Simon Mafai, in una pagina dell’inedito Diario risalente al 1956. Era andata allora, Antonietta, assieme a una delegazione di artisti vicini al partito comunista, in visita a Mosca e a poi a Pechino, dove erano state allestite due mostre di loro opere, fra la curiosità e l’ammirato stupore di un popolo sino ad allora tetragono a qualunque apporto di cultura occidentale. E, assieme ad altri, Raphaël aveva esposto a fianco di Turcato, intento per altro, durante quel viaggio in un Oriente di cui avvertiva tutto il fascino favoloso, a improbabili traffici con pietruzze scambiate per preziose.

Raphaël veniva da lontano: da Kaunas, capitale della Litania, dove era nata nel 1895 e donde – alla morte del padre, rabbino – s’era trasferita, ancora giovanetta e al seguito della madre, a Londra. Poi, nel ’23, era a Parigi, e vi frequentava il mondo d’artisti russi, slavi ed ebrei che aveva costituito nella capitale francese una vasta e attiva colonia: fra essi Chagall, Kisling, Soutine, assieme a molti altri. Alla fine del ’24 Antonietta giungeva infine in Italia ove – a Roma, e presto unitasi a Mario Mafai, con il quale avrebbe fatto tre figlie prima di sposarsi nel 1935 – aveva portato quella sua cultura figurativa di sapore internazionale, capace di vivificare e dare slancio agli assetti prudenti, e classicisticamente orientati, della pittura romana degli anni Venti. Era nata allora, soprattutto dall’unità di intenti fra lei, Mafai e Scipione, quella che verrà battezzata da Roberto Longhi nel 1929 la “scuola di via Cavour”, primo nucleo di quelle più vaste assise che prenderanno nome di “Scuola Romana” (di cui tratta, in questo volume, Antonio Del Guercio).

Nuovamente a Parigi nei primi anni del Trenta, Raphaël si converte alla scultura, cui poi soprattutto si dedicherà a partire dal definitivo suo rientro a Roma, alla fine del 1933. E nella pratica scultorea darà – nel dopoguerra, soprattutto – saggi cospicui, che senza stanchezze proseguono i modi avviati negli anni Trenta: sino a divenire, proprio negli anni Quaranta e Cinquanta, uno dei più importanti nostri scultori. La fuga è una delle maggiori sculture dell’età perfettamente matura di Raphaël: fusa in bronzo in due esemplari, essa stringe al corpo della madre in fuga i corpi delle tre piccole figlie, che quasi s’internano alla sua figura insieme sdutta e stremata, smangiandone la forma che è come erosa, minata da quell’abbraccio. Nel corso della fusione, Raphaël immaginò poi un’immagine ancor più concentrata, che limitava al torso della madre e alle due figlie ad essa abbarbicate la raffigurazione di quel gruppo dolorosamente solidale, e del suo faticoso transito nello spazio. Ne venne un’opera di grande poesia (nota come La fuga [particolare]), che – già appartenuta alla scelta collezione di Piero Dorazio – è ora nelle raccolte della Banca d’Italia.

Fra quegli artisti che, non diversamente da Antonietta Raphaël, serbarono nel dopoguerra il loro linguaggio al riparo di un aggiornamento, che a molti per contro sembrò obbligato, sugli stilemi dell’astratto, Mario Sironi è certo fra i più grandi e fra i più inquietanti. Nato a Sassari nel 1885, s’era educato a Roma, vicino a Balla, presso il quale egli conobbe e strinse amicizia con Boccioni e Severini (tutti allora nella loro fase pre-futurista). Nel 1905 si trasferì a Milano, donde viaggiò in Europa, sempre entro il primo decennio del secolo. Fiancheggiò per breve tempo futurismo e metafisica; ma dopo la prima guerra fu tra i primi ad avvertire la necessità di un ritorno alle fonti della classicità e della tradizione italiana, allontanando da sé ogni tentazione d’avanguardia. Fu uno dei primi fondatori del “Novecento milanese”, presto sfociato in movimento nazionale; e sostenne, in uno con il ritorno alle fonti mediterranee dell’arte italiana, il superamento del quadro da cavalletto a favore del grande affresco, della pittura murale destinata non più ai singoli, ma ad una universale fruizione. Protagonista quindi dei propositi e dei sogni dell’arte fascista, fu, alla caduta del regime, guardato con sospetto e quasi accantonato dal panorama della maggiore pittura italiana, al quale invece indubbiamente egli appartiene.

A dimostrare, poi, che anche la più tarda stagione di Sironi merita attenzione, basterebbero queste parole di Michel Tapié: “Alcuni rari isolati, che hanno il senso privilegiato delle forme portatrici di mistero, operano più segretamente, apparentemente al di fuori delle violenze esplosive dell’avventura attuale […] Penso alle attuali pitture di Sironi…”. Sono d’un peso storico enorme, queste quasi dimenticate parole, se si tiene conto che Tapié – il critico più sbilanciato verso le nuovissime forme d’arte nuova, allora, in Europa – le vergò all’interno d’uno dei testi teorici e di militanza critica più importanti del dopoguerra: quell’Art Autre che, pubblicato nel 1952, sanciva l’acme della vicenda illustre del grande informel francese collegandolo all’esperienza statunitense dell’action painting: i cui massimi interpreti erano stati rispettivamente, a Parigi, Dubuffet e Fautrier, a New York Pollock e de Kooning. Lo sguardo acuto di Tapié, nominando Sironi – unico italiano – in quel consesso, ne riconosceva non solo l’assoluto talento, ma anche, e di più, l’intuizione precoce di una pittura di materia e di segno, ora quasi indipendente dalla trama narrativa, e intesa invece a scavare nella profondità dell’emozione; e, attraverso quell’intuizione, la partecipazione attiva alle strade più arrischiate della modernità.

Le due opere di Sironi che le raccolte di Palazzo Koch ospitano risalgono appunto a questi anni Cinquanta. L’una, L’uomo, impagina in uno spazio scompartito in sezioni paratatticamente avvicinate, senza profondità illusive, elementi di forza e capacità evocativa primordiale, ripercorrendo un modo di comporre elaborato da Sironi già negli anni Trenta, nei bozzetti per i numerosi incarichi di grande decorazione cui doveva far fronte. L’altra opera, Paesaggio con albero, è d’apparenza più semplice, con la linea unita dell’orizzonte che scompartisce in due metà equivalenti lo spazio, quasi prosaicamente. Una materia calcinata e qui e là grondante segna il primo dipinto; una erta e pastosa scrive il secondo: ove tutto pare risolversi, davvero, nella parola autonoma che la materia pronunzia, e nel segnare ottuso, quasi cieco, che il pittore le impone. Mentre una sconfinata malinconia percorre lentamente il nudo crinale del colle, e s’impiglia improvvisa nel più gridato, e come assurdamente gesticolante, dolore nel tronco nudo dell’albero sulla sinistra.

Lo  stesso anno, il 1952, che attraverso la menzione di Tapié in Art Autre sanciva il rilievo internazionale della nuova pittura del ‘vecchio’ Sironi, e lo stesso palcoscenico, quello di Parigi, davano il là alla carriera maggiormente riconosciuta d’un altro grande italiano, Zoran Music. “Italiano”, per la verità, egli lo fu solo in parte: nato nel 1909 in una Gorizia allora austro-ungarica, era stato da sempre uomo di frontiera, e intimamente europeo. Aveva studiato a Vienna, a Zagabria, a Madrid, prima d’approdare a Trieste e Venezia, dove la guerra non aveva sopito del tutto la vitalità culturale ed artistica di un ambiente che sarà subito fra i più vivaci dopo la liberazione. Proprio a Venezia Music, uscito dalla tragica esperienza del campo di concentramento di Dachau, inizia a misurare, a partire dal ’45, quella che sarà la sua costante separatezza da quanto lo circonda: proprio lì – a muovere da quella Biennale del ’48, la prima del dopoguerra, che vide i giovani tutti intenti a un rinnovamento del linguaggio in chiave neo-cubista – Music, che stava per compiere i quarant’anni, toccò con mano, per la prima volta, la propria estraneità dai sentieri più accreditati del moderno.

Ma, trascorso ancora qualche anno, partecipò ad uno dei molti premi che si andavano organizzando allora un po’ in tutta la penisola, il Premio Cortina; e, vincendolo, ricevette il premio d’una personale importante in una delle principali gallerie parigine, la Galerie de France, appunto nel 1952. Evento che si rivelò fondamentale per la sua vita, sollecitandolo a trasferirsi a Parigi, e introducendolo a cuore d’una vera capitale mondiale dell’arte. Nella quale Music confessò i primi tempi di sentirsi “fuori strada”, circondato com’era da artisti che praticavano per lo più pittura astratta, concertista o informel. Lui, al contrario, continuava a dipingere in una lingua sempre memore dell’avvio naturalistico della propria ispirazione, le sue memorie della Dalmazia e del Carso, i cavallini e le donne dai grandi ombrelli che vi aveva avvistato, le vedute di Venezia, le colline senesi o umbre: paesaggi, ancora, seppur asciugati nel racconto, e ridotti a squilli di colore, a materia ruvida e spoglia, uniti in una lenta e silenziosa effusione luminosa.

Le Donne delle isole della collezione Banca d’Italia risalgono ad un anno, il 1955, in cui Music tocca la pienezza d’un riscontro critico che viene a premiare proprio la sua diversità ‘scandalosa’ dalle strade maggiormente accreditate del moderno, e quella sua “solitudine e confessione della propria umana singolarità”, come aveva scritto Sergio Solmi nel ’51, cantata a bassa voce dalla memoria. È un tempo, questo, di produzione accelerata, sollecitata da un mercato che s’è fatto, per il pittore, di dimensioni fin troppo vaste (fra ’54 e ’55, ad esempio, ha larghe e prestigiose personali a Parigi, Bruxelles, Philadelphia, Londra e a Milano, ed è presente tra l’altro alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale romana e a Documenta Kassel). Talvolta allora, sfiora la pittura di questi anni una stanchezza della ripetizione indifferente, e con essa un sospetto d’accademia: questa forse la  ragione per la quale Music, alla fine del decennio, s’avventurò per una via inattesa, che lo porterà alla Biennale del ’60, ove ebbe una larga sala personale, ad un modo ove il soggetto s’è quasi definitivamente eclissato, e in suo luogo si dà un’immagine sfocata, sfibrata, e come avvistata fra le nebbie di un cielo remoto, ove a governare la composizione è ormai quasi soltanto la luce e il suo baluginante apparire sulla superficie. Da allora in avanti, e sino alla morte recentissima, Music, riconquistando la figura, è tornato alle sue radici, non più – però – rischiando di chiudersi in troppo facili reiterazioni.

Lungo questi anni Cinquanta – che nel loro complesso segnano per la pittura italiana un apice qualitativo pienamente attinto, in perfetta sintesi fra un’ormai ristabilita continuità di scambi internazionali e la fondazione d’una ricerca autonoma, libera da quell’obbligo ad un aggiornamento talora affannoso sui linguaggi d’oltralpe che ne aveva caratterizzato i passi nell’immediato dopoguerra – si scalano tre opere di grande interesse quali Imbarcazioni di Sergio Romiti, Trama di nudo di Fausto Pirandello e Cespuglio di Giuseppe Ajmone. Artisti che per provenienza, formazione e per la stessa loro generazione hanno poco o nulla da spartire: non fosse per una analoga vocazione a tramare principalmente con se stessi, con le ragioni d’una solo individuale ricerca, i colloqui più intensi e più fecondi.

Pirandello – che è certo uno dei grandi protagonisti del secolo, nel panorama della pittura non solo italiana – giunge al secondo dopoguerra avendo già compiuto un lungo, prestigioso tragitto come uno dei veri capofila della ‘Scuola romana’ (ne parla infatti distesamente, in questo volume, Antonio Del Guercio); ma sempre, anche in quella vicenda che lo vide protagonista assoluto, restandone volutamente come un poco al margine: esprimendovi una sofferta complessità di pensiero e d’animo che gli discendeva, oltre che da un carattere introverso e racchiuso in sé, dal grande, e spesso ingombrante padre che ebbe, Luigi. Era nato a Roma nel 1899; dunque alla fine della seconda guerra sfiorava i cinquant’anni. Poteva contentarsi d’amministrare quel credito e quel prestigio che, nonostante la sua natura appartata, gli avevano garantito i riscontri critici d’anteguerra, e il vasto successo delle due grandi personali alle Quadriennali del 1935 e del 1939.

Ma non volle, o non seppe. Tentò allora un modo che lo vide, senza conoscerlo, fiancheggiare, fra i pochi in Europa, la ricerca sul segno affannoso e coinvolto, e sulla materia in subbuglio, condotta oltreoceano da Willem de Kooning. Poi saggiò la possibilità di stringere il suo modo di guardare sempre drammaticamente al corpo umano, quasi conducendolo ad un grado di deiezione e di dolorosa ingiuria, al modo allora propugnato dal critico Lionello Venturi, e da lui battezzato “astratto-concreto”: significando Venturi, con ciò, il doppio binario percorso dall’artista in una realtà di memoria ‘corretta’ da una preoccupazione formalistica. Così è anche la Trama di nudo, del 1954, che, ripercorrendo un linguaggio già sperimentato da Pirandello e di lontana origine cézanniana e cubista, costringe crudelmente la figura grandeggiante nello spazio esiguo della composizione, ne erode la corretta anatomia, ne vanifica ogni splendore e decoro, e così grida, attraverso di essa, il suo sempre eguale dolore.

Sergio Romiti nasce a Bologna nel 1928; vi morirà, suicida, nel 2000, dopo aver condotto nella sua città una vita d’intenso, appartato lavoro. In cui la solitudine, pervicacemente inseguita, conterà sempre più dei colloqui che pur tramò con la sua generazione. Per questo – il luogo della nascita e della vita; lo stare appartato dell’esistenza; l’origine tutta sua, intima, delle poche forme, dei pochi oggetti, persino dell’unico formato dato alle sue tele – fu accostato a Morandi. Eugenio Montale lo disse “inconfondibile fra mille”; e fu molto amato da storici esigenti, come Cesare Brandi. Ma non gli è toccata, né in vita, né dopo la morte, una fortuna critica paragonabile a quella morandiana. Anzi Romiti, che è uno dei nostri grandi pittori della seconda metà del secolo, deve tutt’oggi contentarsi, paradossalmente,  d’una fama poco più che regionale.

Ebbe almeno tre stagioni di grande rilievo, scalate negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. Non è questo il luogo per ripercorrerle esaustivamente: ma per restare all’opera Banca d’Italia, che è del 1951 (l’anno della prima mostra personale, alla Galleria del Milione di Milano), si dirà subito che, per quanto aurorale nella vicenda matura di Romiti, essa è già un capolavoro. Si veda la purezza di quel fondo chiaro, tutto in luce: com’esso attivi tutto lo spazio, ribaltandone la porzione superiore verso chi guarda, oltre il baluardo scuro del piano di posa; e si veda come tutto, al pari di quanto avverrà poi sempre in questo decennio, prende quasi a ruotare poggiando sull’asse orizzontale (un orizzonte, proprio, d’eredità visiva naturalistica? Forse, ma non solo) della composizione. Romiti è già passato, qui, attraverso le esperienze d’aggiornamento di post-cubismo e concretismo: ma le ha superate d’un balzo, trovando, in anni precoci, una sua interezza di forma.

Con il dipinto di Giuseppe Ajmone (classe 1923) si giunge a fine decennio. Nel ’53, Ajmone aveva esposto al Milione (assieme, tra l’altro, a Romiti) in una collettiva importante (“Dodici pittori italiani”), aggregazione di talenti dispersi, dei quali tutti Marco Valsecchi, nella presentazione in catalogo, aveva notato la natura fortemente individuale della ricerca, ormai dimentica delle sintassi neo-cubiste che erano invalse in Italia nell’immediato dopoguerra: peraltro, proseguiva Valsecchi, “è necessario dire subito che i pittori presenti a questa mostra non sono legati da nessun vincolo di gruppo o di manifesto”. Con quella partecipazione, Ajmone rinunziava definitivamente alla sua primissima storia, che l’aveva visto firmare, con altri, il celebre Manifesto del Realismo di pittori e scultori.

Steso a Milano nel 1946, quel Manifesto concludeva in qualche modo la vicenda di “Corrente” e guardava al cubismo, e in particolare alla sua radice cézanniana, come transito necessario alla modernità. Ajmone, nella sua fase più matura, che coincide con il sesto decennio – concluso da opere come Cespuglio, del 1960 – mostra un convergere verso ragioni più distillate di forma, in cui la strutturazione cubista è superata, e in cui l’approdo a un sentimento panico della natura avviene attraverso l’esaltazione di valori della luce quale “mezzo di definizione dei diversi stati d’animo”; luce in grazie alla quale i pretesti di natura che pur resistentemente offrono al dipinto la prima scaturigine vengono visti come “fantasmi della memoria o miraggi della speranza” (Franco Russoli, 1962).

 

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Dall’esperienza di “Corrente” – il movimento milanese che, già negli ultimi anni del fascismo e poi in quelli di guerra, coinvolgendo anche filosofi e letterati, propose la necessità d’una nuova moralità dell’azione artistica – proviene anche Emilio Vedova. Insieme anzi a Guttuso, e alla sopravvenuta prima maturità di Morlotti, egli costituisce il più rilevante apporto alla seconda stagione del movimento, nato sotto l’egida di Birolli: e ne determina la crescita del peso specifico come coagulo, in particolare, di intelligenze artistiche. Nato a Venezia nel 1919, firma nel ’46 il citato Manifesto del Realismo, e nell’anno stesso è tra i fondatori del “Fronte Nuovo delle Arti”. Gruppo dal quale egli è anche il primo, assieme a Morlotti, a distaccarsi, avendone presto intuito il tasso di compromesso fra propositi opposti, e vedendone d’altra parte esaurita la funzione meramente strategica di aggregazione di volontà ideative sostanzialmente diverse. Pronuncia un intervento violentemente polemico contro le intromissioni della dirigenza comunista, orientata dal pensiero di Zdanov, nel lavoro degli artisti in occasione della mostra all’Alleanza della Cultura di Bologna, nel ’48, e ciò vale per Vedova come definitiva scelta di campo.  D’ora in avanti egli sarà uno dei paladini più intransigenti di un linguaggio interamente astratto della pittura: pittura nella quale Vedova rovescerà tutta la sua energia, la sua radicale violenza, la sua volontà di negarsi ad ogni compromesso nella battaglia che oppone l’uomo alla tirannia della società.

 Immagine del tempo n.3 appartiene ad uno dei grandi cicli della pittura di Vedova negli anni Cinquanta, che videro fondarsi la sua più perfetta maturità e che s’intitolano, ribadendo sin dal loro battesimo l’intollerante energia che Vedova dispiega nel suo lavoro, Scontro di situazioni, Ciclo della natura, Ciclo della protesta, oltre appunto ad Immagine del tempo. In ciascuno di essi, Vedova dà figura ad una pittura di grande forza emotiva, fondata sovente sul dialogo e lo scontro fra il bianco e il nero, quasi ossessivamente percorsa da un gesto attimale, serrato, violento, iterato al punto di saturare l’intera superficie, occludendolo ogni via di fuga, e negandole ogni rilassatezza, ogni spazio di quiete. Ed è come se, in questi suoi dipinti, un lungo grido, che porta con sé il dolore del mondo, invadesse lo spazio compresso del dipinto e, attraverso di esso, tutto lo spazio dell’esistenza ne risultasse turbato.

  Assieme a Vedova, fu nel “Fronte Nuovo” Antonio Corpora: ma portando entro quell’aggregazione di artisti una tutta diversa componente, da dir più formalisticamente orientata. “Egli, africano, è forse fra noi il più europeo”, scriveva Guttuso presentando, nel catalogo della mostra del gruppo tenuta alla Galleria della Spiga di Milano nel ’47, le opere dell’amico: che era nato a Tunisi nel 1909 da genitori italiani, che era presto rientrato in Italia, e che aveva trascorso lunghi periodi di lavoro a Parigi, già durante gli anni Trenta. Che dunque – come non mancava di sottolineare Guttuso – era, nell’immediato dopoguerra, forse da noi il più aggiornato su una situazione internazionale che a molti altri si svelava allora, invece, come nuovissima. Già nell’ambito di una formazione che prese nome di “neo-cubismo romano”, nata anch’essa nel ’46, Corpora (avendovi a fianco, tra gli altri, Guttuso e Turcato) aveva ribadito, di fronte alle preoccupazioni più coinvolte con la realtà di Guttuso (che proprio nel Manifesto del neo-cubismo auspicava un ritorno “all’oggetto, all’uomo e al dramma dell’uomo”), l’esigenza di agganciare il nuovo sviluppo dell’arte italiana alle origini più nobili dell’arte moderna, individuate in Cézanne, in Matisse e nel primo cubismo. E questa stessa istanza egli portò non tanto nella militanza nel “Fronte Nuovo” quanto nel successivo configurarsi del “Gruppo degli Otto”: raggruppamento più organico, di artisti tutti allora di vocazione non figurativa (vi parteciparono tra l’altro Turcato e Vedova, fra quanti abbiamo visto più sopra, e Giuseppe Santomaso, veneziano, nato nel 1907, di cui le collezioni della Banca conservano una Composizione del 1953, fortemente debitrice di Hartung), patrocinato da Lionello Venturi – che elaborò per essi il battesimo di “astratto-concreti” – e molto fortemente voluto, e appoggiato anche teoricamente, proprio da Corpora.

Entro questi termini di cultura visiva, che mediavano fra impressione còlta dalla flagranza dell’evento naturale e trasfigurata dalla memoria, e istanze formali d’autonoma fondazione, Corpora ha costruito i lunghi, felici anni della sua pittura, sino alla morte recentissima: sempre rinnovando il bilico – “astratto-concreto”, appunto – che aveva scelto di porre a fondamento della sua ispirazione. Ci fu un momento, però, verso lo scadere degli anni Cinquanta, in cui il pendolo di Corpora sembrò propendere piuttosto verso l’ipotesi non figurativa: e fu il tempo che Cesare Vivaldi, uno dei suoi esegeti più attenti, definì del suo “informale eterodosso”. A questa fase del lavoro di Corpora appartiene anche uno dei molti suoi dipinti conservati nelle collezioni della Banca d’Italia, ma l’unico attualmente ospitato (assieme al più tardo Il paese della nostra infanzia) da Palazzo Koch: Pietra miliare, del 1959, ove l’allagamento cromatico della superficie è quasi senza confini, e il segno vi si sperde a cercare ultime, ormai lontane tracce di memorie visive.

Al “Gruppo degli Otto” aderì convintamente anche Afro: che, nato ad Udine nel 1912, da una famiglia di artisti (ebbe due fratelli scultori, Dino e Mirko Basaldella), e fatti i suoi esordi in mostre sindacali della regione d’origine, si trasferì presto a Roma, ove operò, ancor giovane, nell’orbita del tonalismo di Corrado Cagli. Dopo la guerra, Afro si volse al neo-cubismo, che era per tutti allora lingua corrente, pur senza aderire al “Fronte Nuovo”; ritrovò però subito appresso i compagni di strada e di generazione nel successivo raggruppamento di Venturi. Al ’52 – data della fondazione del “Gruppo degli Otto”, che si presentò allora coeso alla Biennale di Venezia, configurandosi come il vero contraltare del neo-realismo capitanato da Guttuso – Afro era peraltro già artista di largo, e per allora del tutto inusuale per un italiano, riscontro internazionale. In particolare, la gallerista newyorkese Catherine Viviano (già collaboratrice di Pierre Matisse, e dunque legata alla cultura surrealista europea, da Breton a Mirò) gli aveva allestito nel ’50 la sua prima personale americana, ribadendola nel ’52, e consentendo ad Afro un persino inatteso successo di critica e di mercato.

In quella seconda occasione, e più ancora negli anni che seguiranno, Afro, superando la griglia geometrizzante del neo-cubismo, accosta la sua ricerca a quella di Arshile Gorky, il grande maestro, d’origine armena, del surrealismo astratto americano che ha dato il là al movimento dell’action painting. “Non un elemento surrealista passa in Afro da Gorky, non un accenno fallico, ma, molto più sostanziosamente, gli aggregati stretti e quasi a coltello dei suoi quadri fino al ’50 vengono come scardinati, ventilati si direbbe”, ha scritto di Afro e di questi suoi anni Cesare Brandi, come da “una gran ventata in un mucchio di foglie d’autunno”.  A questo tempo di cruciale passaggio appartiene Agosto in Friuli, nato sulla spinta – ancora – d’una emozione provata di fronte alla natura, ma nel quale poi sono i piccoli segnali fantastici, gli inattesi e minimi racconti senza costrutto che prendono a punteggiare la scena a costruire l’immagine, in una pittura che s’allenta ora nello spazio della tela, slabbrandovi quasi una ‘figura’ in cui gli incidenti, gli imprevisti slittamenti, gli scarti delle forme, costituiscono una ormai non più preventivabile norma costruttiva.

Ad una ulteriore fase della pittura di Afro risale invece questa Figura, datata al 1962. Fase che prende le mosse da un dubbio maturato in Afro nel corso del ’57, ed allora confessato a Venturi in questi termini: “certi simboli rappresentativi che mi erano sembrati dar ordine, in un certo senso stabilire il nesso con la realtà, sono divenuti recentemente privi di interesse, schermi fra me e il quadro, ostacoli a nuove scoperte”; così i residui “elementi figurativi […] di cui prima avevo sempre creduto di aver bisogno, ora mi apparivano detriti malinconici, familiari come cifre, ma non veri”. È questo dubbio che spinge Afro, in questa sua nuova ed egualmente intensa stagione, a invadere la tela con un gesto più ampio e libero, più franto ed eccitato, che porta il colore a scontri, e a clamorose conflagrazioni, prima d’allora, in Afro, sconosciuti.

Rimangono da segnalare, in questo veloce panorama della pittura italiana della seconda metà del XX secolo conservata nelle raccolte di Palazzo Koch, almeno due altri artisti, molto diversamente orientati, ma che hanno entrambi la statura di protagonisti d’una pittura, come quella italiana, che nel decennio di cui soprattutto s’è detto in queste note – gli anni Cinquanta – ha toccato un apice d’indubbio splendore, e un rilievo del quale oggi si riconosce appieno tutta l’ampiezza, a livello internazionale e sotto il doppio profilo, storico-critico da una parte, mercantile dall’altra. Sono, costoro, Tancredi Parmeggiani e Mimmo Rotella.

Tancredi (così sempre si firmò) ebbe una vita breve, conclusa dal suicidio nel 1964, pochi giorni dopo aver compiuto trentasette anni. A fronte d’una vita segnata sovente dal dolore, sta una pittura straordinariamente gioiosa, sin dalle sue prime prove mature, date in uscita dalle sintassi neo-cubiste e concretiste degli esordi. Al culmine di questa sua prima maturità, sulla metà degli anni Cinquanta, si data l’opera della Banca d’Italia (Senza titolo) qui a fianco riprodotta. Tancredi, vicino a Peggy Guggenheim e assiduo frequentatore della sua casa veneziana fin dall’immediato dopoguerra, aveva – fra i primissimi in Italia – potuto conoscere e intendere la grandezza dell’arte nuova di New York; e a Pollock, oltre che a Tobey, egli in particolare aveva guardato, scoprendovi un colore disseminato ovunque sulla superficie, incantato e felice, sapientemente memore d’una tradizione d’alta decorazione che risale a Matisse; colore che, accompagnato ad un segno che si fa col tempo sistematico e struttivo, al pari di quello kleeiano, ne contrassegnerà tutto il breve percorso a venire.

Una lunga esistenza è spettata, al contrario, a Mimmo Rotella (nato a Catanzaro nel 1918, è morto quest’anno a Milano) che giunge presto a Roma, dove partecipa con gli amici dell’Art Club, già alla fine degli anni Quaranta, alla rifondazione su base astratta della pittura, ma da subito avvertendo che le sue regole e strategie sapienti, i suoi secolari statuti, egli avrebbe voluto, o dovuto, eluderli, per trovare infine il proprio linguaggio. Così pratica una poesia fonetica, in realtà d’ascendenza dada e futurista ma che Rotella nomina “epistaltica” (e il neologismo, già, spiega la sua necessità di andar oltre ogni convenzione accertata). Poi, tornato dall’America dove ha proseguito con solo relativa convinzione il proprio modo di pittura geometrica, smette di dipingere per un anno: il tempo d’inventare una tecnica pittorica che chiamerà “décollage”, e che ribalta il procedimento, inventato in area cubista da Braque e Picasso, del collage. Non sarà più, per lui, una sovrapposizione di materie eteronome sul tessuto della pittura, ma lo strappo e la lacerazione di un’immagine già data: che Rotella individua in quella dei manifesti pubblicitari che ruba alla strada, porta in atelier, monta su di un telaio, e appunto lacera in più punti, ricavandone un’immagine del tutto nuova.

Il procedimento del “décollage” venne praticato, più o meno contestualmente, anche in Francia (e certo senza rapporto di derivazione da Rotella), da parte di un gruppo d’artisti noti con il battesimo di “affichistes”. Risiedendo il gruppo (formato in prevalenza da artisti bretoni) a Parigi, e potendo quindi contare su una tradizione, un mercato, un sistema museale e un appoggio critico incomparabilmente più smaliziati ed efficienti di quelli italiani, si ritenne a lungo che l’invenzione del nuovo linguaggio spettasse al gruppo francese. In realtà, Rotella (che espose per la prima volta i manifesti strappati a Roma e a Milano nel 1955, mentre gli “affichistes” esposero a Parigi i propri décollages solo nel ’57) fu il primo inventore del manifesto lacerato: con tutto ciò che questo comportava come anticipo sul movimento ‘new-dada’ newyorkese, e le sue prassi extra-pittoriche. L’opera in collezione Banca d’Italia, La folla, si data al 1961: tempo nel quale Rotella era già stato convocato dal critico Pierre Restany a far parte del gruppo dei “Nouveaux Réalistes” che egli aveva fondato a Parigi, includendovi esperienze che, tutte, procedevano ‘oltre’ la pittura. In realtà La folla conserva ancora una tramatura dell’immagine sostanzialmente astratta, e riconnette Rotella a quella nobile avventura della pittura romana del sesto decennio del secolo votata, nei suoi episodi cruciali, alla declinazione di un tale linguaggio.

Ma il primo ad andare ‘oltre la pittura’, intesa almeno come coltre di colore e segni stesi su una superficie, a Roma e in quegli anni Cinquanta, fu certamente Alberto Burri. Se ne conosce l’avvio lento, autodidatta; e le diverse sue prime vocazioni, che lo portarono alla laurea in medicina. Poi la prigionia, durante la guerra, in Texas: e lì la prima consapevolezza di quella che sarebbe stata la sua strada. Al rientro in Italia, Burri pratica ancora brevemente una pittura di accalorato stampo espressionista, lontana erede degli ultimi passi mossi dalla “Scuola Romana”. Poi guarda al concretismo di Arp, di Magnelli: conosciuto durante il viaggio – di prammatica, quegli anni – a Parigi. Quando rientra in Italia, un solo pugno d’anni lo separano dalla perfetta maturità, che esplode nel ’52 con i grandi Sacchi che tanto scandalo daranno a tutti, meritandosi persino un’interpellazione parlamentare. I primi Sacchi, certamente, li vide a Roma, nello scantinato ove Burri li cuciva sulla tela, Robert Rauschenberg: e da essi egli trasse, senza alcun dubbio, slancio definitivo per l’avvio della poetica che verrà nominata “new dada”, destinata a sconvolgere l’arte statunitense, e dunque mondiale, degli anni a venire.

Le due opere di Burri in collezione Banca d’Italia appartengono al periodo d’incubazione dei nuovi linguaggi. L’una, Fondo rosso, è del 1949, e vi si legge una trama di segni monocromi composti su un fondo, anch’esso, di colore unito. Nessuna allusione a forme naturali, in esso: Burri vi dimostra d’aver saputo evitare il transito, che è stato allora per molti tappa obbligata, attraverso il neo-cubismo, e d’essersi subito rivolto a un’astrazione più radicale, qui ancora d’ispirazione francese (Hartung, forse), ma guardando anche a certe cose nostre, come quelle di Prampolini. La seconda opera, Bianco nero, è del ’51. Anche in essa, è definiva e senza ritorni la coscienza che la pittura abbia ad essere fatto del tutto indipendente dalla mimesi del reale: è una realtà altra, interamente autonoma, quella che essa metterà in figura.

Ancora, peraltro, a sostenere l’immagine è la tramatura geometrizzante della ‘figura’ nera, sulla destra, e il gioco ambiguo, incerto nell’istituire il rapporto figura-fondo, che vi realizza: in una ricercata ambiguità percettiva che lascia il riguardante interdetto nel riconoscere l’aggetto del nero sul chiaro, o viceversa. Così che si mima nel dipinto, quasi, un ‘effetto collage’. Ma infine il passo decisivo, che preannuncia gli esiti che verranno di qui a poco nella pittura di Burri, è il crescere imperioso della materia, che si alza a sinistra in una sua consistenza crespa e rugosa, che è già qui, ad evidenza, il luogo in cui l’artefice ha posto la maggior parte di sé e del proprio progetto di forma.

 

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Fra le opere che rappresentano gli sviluppi più recenti della pittura, e della scultura, italiana del XX secolo – che la Banca d’Italia si è pur orientata ad acquisire, meritoriamente, alle proprie collezioni; ma le cui dimensioni, e la cui natura di manufatti che esulano talvolta dalle forme tradizionali, sono più difficilmente collocabili negli ambienti così fortemente caratterizzati di Palazzo Koch – segnaliamo almeno le opere di Marco Gastini, nato a Torino nel 1938, e del romano Marco Tirelli, classe 1956.

Il Senza titolo di Gastini, datato al 2000, è un’opera tipica e, pur nelle ridotte dimensioni, rappresentativa del lavoro di uno dei maggiori protagonisti della pittura dei suoi anni, che hanno visto sbocciare proprio a Torino, sul finire del settimo decennio, una coinè di artisti che, riuniti poi sotto il battesimo di “poveristi”, hanno avuto – tra gli altri – il merito di aprire la stagione di vasto credito internazionale dell’arte italiana contemporanea: credito che è andato poi confermandosi nel tempo, e allargandosi anche al recupero di grandi personalità dell’arte nostra, prima quasi dimenticate oltre i nostri confini. Avendo condiviso per tempo il clima dell’“arte povera” (che è in sostanza una declinazione originale del movimento post-minimalista internazionale, teorizzato per la prima volta negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni Sessanta), Gastini ha sempre conservato però un’adesione intera alle antiche alchimie ed ai talenti della pittura. Così, dopo un tempo che l’ha visto, nel corso degli anni Settanta, aderire ad un linguaggio di estrema rarefazione formale, ove un segno rado si disponeva su superfici per lo più monocrome, il successivo decennio l’ha visto tornare all’impiego di pigmenti ricchi e variati, seppur scelti all’interno di una gamma prevalentemente tonale, intesi a sedurre lo sguardo al di là delle nominazioni freddamente tautologiche dell’arte concettuale. Presto, poi, la sua ‘figura’ s’è espansa oltre i confini della superficie, invadendo – come anche avviene nel presente Senza titolo – lo spazio d’ambiente con vetri, metalli, legni, pietre e comunque con materiali, a loro volta dipinti, che designano la volontà di Gastini di prolungare oltre il tradizionale supporto il fascino e le seduzioni della pittura.

Agra e sorvegliatissima è invece la pittura di Marco Tirelli, che ha fatto i suoi esordi alla fine degli anni Settanta (anche lui con un pronto ascolto internazionale, culminato nella sala personale che gli destinò la Biennale di Venezia nel 1990), e che con monadica ossessione ha costantemente messo al centro delle sue immagini figure geometriche semplici – e un ordinatissimo, casto, quasi morandiano ‘comporre’ – che con straordinario talento egli rappresenta su tavole di grandi dimensioni, generalmente a tempera. Mossi i primi passi assieme ad un gruppo di giovani riunitosi a Roma in via Ausonio (dal cui indirizzo il gruppo, che comprendeva fra gli altri Nunzio, Dessì, Pizzi Cannella, derivò poi il suo battesimo), Tirelli intraprende presto una strada perfettamente autonoma, elevando ad intangibile icona le sue poche figure, bagnandole d’una luce misteriosa e severa, sempre come sul punto d’essere aggredita dalla notte. In un’atmosfera di magia e di sospensione, esse appaiono così allo sguardo incerte fra flagranza e assenza, fra memoria e sogno, in una dimensione straniante e senza tempo: e, senza che nulla le dica memori di De Chirico, davvero metafisica.

Opere recenti o recentissime sono anche quelle di Carla Accardi e di Achille Perilli che ospita Palazzo Koch. Accardi e Perilli sono, come è noto, due dei nostri maggiori maestri, che hanno contribuito in misura determinante al rinnovamento della pittura italiana nell’ultimo dopoguerra. Nati, rispettivamente, a Trapani nel 1924 e a Roma nel 1927, nel ’47 essi si ritrovarono – giovanissimi – a fondare a Roma il primo gruppo post-bellico d’avanguardia: “Forma”. Si dichiaravano “formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili”: la storia li avrebbe di lì a poco amaramente smentiti, e avrebbe diviso quelle strade che Accardi e Perilli (insieme fra gli altri a Turcato e Consagra, a Sanfilippo, a Dorazio e Mino Guerrini) speravano allora, stendendo il loro manifesto che così scopertamente richiamava quelli delle avanguardie storiche d’inizio secolo, di poter stringere assieme. Accardi interpretando un frangente della cultura segnica, post-informale, che avrebbe avuto il suo mentore maggiore nel critico Michel Tapié (dal quale la nostra artista fu condotta ad interpretare un ruolo di vero rilievo internazionale), Perilli ponendo le basi per una riscoperta in Italia della cultura del dadaismo e delle avanguardie sovietiche (l’una e l’altra di fatto sconosciute e inaccessibili in Italia prima della sua mediazione), svolsero allora, nei cruciali anni Cinquanta del secolo, un ruolo di primaria importanza nel rendere davvero concomitanti e reciprocamente permeabili la cultura artistica nostra e quella più vastamente europea.

Accardi poi, a partire dai primi del Sessanta, incrementò quella che era stata da sempre la sua vocazione a incentrare la sua ricerca, in parallelo, sul segno e su un colore che quel segno invade e sostiene sulla superficie, irrelato al mondo, inventivo, emozionale, clamante, gioioso: un colore che Carla Accardi sembra desumere in pari misura dalla secolare vocazione araba alla grande decorazione della sua terra d’origine, la Sicilia; ed al maestro che quella tradizione aveva saputo per primo rendere disponibile alla vicenda moderna della pittura, Matisse. E quel modo, individuato ormai mezzo secolo fa, Accardi prosegue sino ad oggi, con slancio sempre rinnovato e davvero ‘giovanile’, come anche dimostrano, a Palazzo Koch, il grande Vortice del vento verde e l’Arancio-turchese, entrambi del 1998.

Dopo i suoi straordinari anni Cinquanta e dopo i “fumetti” dei primi Sessanta, tanto preveggenti rispetto all’esigenza di “nuovo racconto” che occuperà larga parte della pittura non solo italiana del settimo decennio, l’ossessione della geometria prende a governare l’immaginario di Achille Perilli. È infine una sorta di “geometria negata”, quella a cui approda al termine d’un lungo peregrinare della mente attorno alle sue ipotesi ordinanti: “una particolare condizione morbosa” – è il titolo, anche, d’un quadro di quel tempo – ovvero “una non forma geometrica”. Nella quale Perilli immette la sua antica nozione d’un mondo non pacificato dalla razionalità cui pur tuttavia l’uomo aspira; di un universo scosso da un eterno conflitto tra forze confliggenti, e irriducibili. Architetture giganti e mal nate, pesanti e distorte, sul punto di franare verso un baratro dal loro precario spalto di certezze: sono così le immagini di questo tempo: fra le quali La civetteria dell’astrazione, del 1968.

E gli Alberi, infine: nuovissima invenzione di Perilli. Luoghi, sono, dello scontro in atto fra un oscuro crescere organico – esemplato dal tronco d’albero con i suoi nodi ancora in vista, con le sue forre, e nervature, e gobbe, e marcescenze – e l’ordine ancora una volta postulato dalla tarsia cromatica della geometra che su quel tronco si incastra, sperando di ricondurre l’assoluto organico dell’albero ad un sua ragione, aderendo e resistendo alla casualità dell’esistente, celandosi in essa e opponendovisi, acconsentendole e segnandola della propria diversa natura.