Franco Guerzoni: ‘La Parete Dimenticata’.

C’è un quadro, in questa mostra di Franco Gerzoni, che mi  seduce e mi stupisce forse su tutti: s’intitola Iconoclasta; è datato 2007; e non è forse fra quelli che definiremmo più tipici del pittore. In esso infatti l’ordine neoplastico, evidente nella geometrizzazione dell’immagine, la regge e governa, sostituendosi al libero andamento del segno sulla superficie. All’interno di quelle ordinate scansioni albeggiano tenui colori, quasi assimilandosi a pastelli: celesti, appena sforzati in un punto  verso l’azzurro; un arancio e un rosa solitari, e quasi soltanto sussurrati. Guerzoni veniva allora da una sua stagione, che si rese massimamente evidente nel tempo intercorso fra la mostra di Villa delle Rose a Bologna e quella di Palazzo Massari a Ferrara (rispettivamente del 1994 e del 1999), in cui lo sguardo da sempre posato sulle rovine, sui detriti non più ravvisabili delle cose, scovava di quei relitti di mondo i gangli più profondi e strutturati. Spesso, negli anni Novanta, quell’ordine costruttivo si dava in un concerto di colore intenso, gremito di splendori e inflessioni diverse, in cui hanno a lungo dominato il blu e il rosso (e Pier Giovanni Castagnoli scrisse di quei dipinti, con felice intuizione e come presagendo il loro futuro e maggiore sviluppo verso la luce, “che richiamano talvolta alla memoria gli incantamenti solari dei de Staël siciliani”).

In Iconoclasta, tanto è serbato di quel modo, lucidamente memore della lezione neoplastica e insieme così saldamente antiprogrammatico. Ma invece di quel  colore variato, ammantato e sontuoso, è il bianco che ora invade l’intera spazialità del dipinto, dilagando nel vasto fondale, intromettendosi all’interno dei rettangoli designati dal segno, e abbassando ovunque il timbro del rado colore. È un bianco calcinato, percorso da incidenti, punteggiato di rigonfiamenti e spessori (identicamente si ravvisa d’altronde in un’altra tavola oggi esposta, che ha – rispetto a questa – la stessa data, il medesimo titolo e analoghe dimensioni): eppure è un bianco candente, libero per incanto da ogni inciampo, e gravido soltanto di luce. E la mostra odierna (che sfugge un’altra volta, come sempre nella vicenda espositiva di Guerzoni, la tentazione dell’antologica e dell’autocelebrazione) sembra volersi allineare tutta su quel registro di forma, intuito già alla fine degli anni Ottanta, frequentato più diffusamente nel decennio successivo, e dominante infine adesso: un tempo, quello più recente, nel quale  il pittore che Guerzoni è stato, e continua  ad essere, un archeologo senza scienza, un cercatore della polvere e delle ragnatele della propria soffitta, un autore di restauri improbabili e provvisori, si rende in aggiunta un pittore di incanti, uno scopritore di luce.

È dunque da allora, dallo scadere del primo decennio del secolo nuovo, che il bianco torna a farsi egemone in lui: lo era stato già in anni lontani, soprattutto nella fitta e davvero folgorante opera su carta – ampiamente documentata, ad esempio, nel catalogo della mostra cruciale della Palazzina dei Giardini di Modena, del 1987, che segnò la prima registrazione importante della conversione agli incanti della pittura dell’artista concettuale che Guerzoni era stato negli anni Settanta. Un lavoro, quello sulla carta, continuo, frequente e quasi testardo, che ha accompagnato ogni stagione della creatività di Guerzoni; che, quasi volesse confessare con questa ostinata fedeltà la sua prima urgenza di parola, ha sempre poi delegato alla carta, e allo scavo su di essa operato, l’evidenza prima della propria immagine: svelata da quel suo andare indietro nel tempo, da quel suo cercare i suoi sogni e le avventure della mente nella coltre delle memorie, “a ritroso, verso ciò che è già perduto, già naufragato”. Come in un libro, di cui si sia sfogliata una pagina e di cui s’attenda di voltare una prossima, il suo mondo si palesa così con paziente lentezza, e scopre meraviglie inattese nelle minime voragini, nei gorghi, nei brevi abissi che la mano sapiente apre sulla superficie, sugli strati sovrammessi del supporto, svelando di volta in volta una traccia remota di colore, una lama di luce, una ferita, un groppo di materia.

Presto, dopo quel primo spalto di perfezione esemplato nella mostra del 1987, Guerzoni stese la carta su un supporto rigido – tela, o più frequentemente tavola, il cui spessore egli infine prese a solcare, cercandovi le medesime profondità che aveva trovato nella carta, con ferite inferte alla sua casta  superficie – ferite che sovente palesano la coltre di un colore sottostante. Talora, come negli spettacolari quadri neri – ad esempio nella serie di Smoke, nell’altra de La stanza dei Dolmen e dei Menhir, o di quella recentissima intitolata a Piranesi, qui esposta – muovendo la superficie con sgorbiature profonde, o segnandola con aggetti di piccole cose (fatte soltanto, a volte,  proprio di carta), rubate alla memoria: anch’esse parte di quella sognata “archeologia” che è un’altra costante delle sue tensioni ideali.

Mi trovo adesso ad aver alluso ad una dimensione – la costanza del suo proposito formale – che credo occorra sottolineare nel dire del lavoro di Guerzoni: un lavoro  (da quando, almeno, esso s’è volto esclusivamente alla pittura, dopo gli esordi implicati con la fotografia: che ha nella sua terra d’origine, Modena, una tradizione antica e felice) che è stato, come s’è detto, frequente, quotidiano, e – non mai ingabbiato dalla paralizzante tirannide  di un’ansia di rigore – costantemente in cerca di nuovi orizzonti. A fronte però di questa molteplicità dei suoi orientamenti, il lavoro di Guerzoni ha trovato una sua ragione di  permanenza, di identità a sé stesso, nella confidenza sempre serbata a taluni capisaldi della vicenda pittorica maggiore del ventesimo secolo: all’autonomia del colore, sempre irrelato alla realtà naturale  (un’autonomia evidentemente attestata anche nelle sue serie dominate da quello che potremmo definire il suo “falso monocromo”), e alla priorità del segno sul progetto. Ed è soprattutto per ribadire quest’ultima egemonia, che attesta ultimativamente l’unitarietà della ricerca di Guerzoni, che non sarà inutile tornare, di fronte all’ultima sua pittura che oggi questa mostra documenta, alle sue carte d’inizio, databili sulla metà degli anni Ottanta; e, insieme ai suoi dipinti di allora.

Le une e gli altri (segnate le prime da un segno che è crampo notturno e allusivo, ed insieme ornamento; i secondi da un colore lento ed opaco, solcato talvolta dall’andamento del filo rame che – segno rabdomantico anch’esso – sottolinea le forre  e le improvvise erosioni della materia)  attestano una appartenenza, cui Guerzoni si mostrerà sempre fedele, a quella pittura che nacque, negli anni immediatamente successivi alla guerra, di qua e di là dell’Atlantico. Una pittura implicata a vario titolo, e in ogni suo frangente senza dichiararne una testuale dipendenza, con un sovrastorico surrealismo. La pittura che fu di Wols, e del primo Dubuffet; il disegno e la pittura  dell’ultimo Gorky; e, in Italia, quella di Licini, e appresso a lui di Novelli. Cancellare l’immagineL’immagine perduta, Figura dal profondo, La figura ritrovata … tutte dicono come l’incipit di Guerzoni – ben più che in quell’“informale” indistinto cui è stato talora avvicinato, e tanto più in quell’attardato neo-informale che dominò tanta parte della maniera artistica italiana nel settimo decennio – stia accosto a quel cerchio nobile di cultura visiva: “pittore antico”, lo ha perciò definito una volta Castagnoli; pittore che ha saputo regalare alla sua immagine una sua “intenzionata inattualità”, non scambiabile con altre esperienze dei suoi anni.