‘Antonio Sanfilippo. Gli anni Sessanta. Il colore del segno’, Agrigento, Fabbriche Chiaramontane (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo), 2012
Gli anni Sessanta di Sanfilippo: una colma maturità
La maturità pienamente attinta – attestata da una lingua che, dopo il lungo laboratorio degli anni Quaranta e i ricercari densi di rapporti del successivo decennio, giunge a definitiva, personalissima perspicuità – e che tutti gli anni Sessanta confermeranno, è testimoniata anche, proprio all’inizio del decennio, da una produzione assai intensa: sono oltre sessanta i dipinti di Sanfilippo che il catalogo generale ha potuto schedare datandoli al 1961 (e ad essi vanno aggiunte le tempere su carta, delle quali è in corso la catalogazione)1.
Sono adesso, sovente, grandi colonne oscure, fittamente tramate dai colpi ansiosi del pennello, bianchi e neri scritti con foga su fondi saturi e minacciosi, e grigi in gamma infinita che danno asilo a quelle impennate verticali, con i rossi che punteggiano talora, più radi, l’aggrumarsi denso dei segni. In questi dipinti (il cui primo impulso ideativo è da ricoverare qualche tempo innanzi, già nella seconda metà del ‘59: nato però, allora, in concomitanza con il frequente permanere di quelle configurazioni celesti – nuvole, galassie, grovigli d’aria e di luce – che s’erano presentate nella sua pittura a partire dal ’56-’57), Sanfilippo si mostra singolarmente prossimo a una condivisione di taluni stilemi del nostro informale, secondo un modo che egli non aveva sino ad allora sperimentato: una distanza, questa, in linea d’altronde con la scarsa presa che le varie declinazioni di “ultimo naturalismo” avevano avuto a Roma (presa incomparabilmente inferiore, comunque, a fronte della diffusione nell’Italia settentrionale di quella coinè linguistica2).
Prende a scemare – adesso, alla svolta fra i due decenni – quella invasione dello spazio affidata ad un colore vario e accentuatamente timbrico, sempre incantato e gioioso, che ne aveva governato la pittura, attraverso le memorie successive di Kandinsky, di Hartung, di Tobey, e poi con le rinnovate complicità con i suoi più prossimi – Accardi, Dorazio, talora Turcato – oltre che con la cultura dell’art autre teorizzata da Michel Tapié come passo ulteriore e più ‘freddo’ rispetto all’informel: quando, in uscita dal neo-cubismo di “Forma” e dal successivo concretismo magnelliano sperimentato a cavallo del quinto e sesto decennio del secolo, Sanfilippo aveva delegato la crescita del suo ‘segno’ a quella particolare nozione di colore. Al suo posto, s’insinua ora una percezione, fattasi come più lenta e delibata, di un diverso colore – più cauto, profondo, emozionato; colore cui rimane pur sempre affidata la specificità della sua immagine.
Anche nei rari casi, infatti, in cui il dialogo fra il bianco e il nero occupi da solo la composizione (come avviene ad esempio nel Senza titolo del Museo Regionale di Palermo, qui esposto [cat., n. 387]), la valenza cromatica di quei timbri candidi o annottati, intrisi di una luminosità mutevole, allontana l’immagine dalla connotazione più algida e mentale di monocromo, con il suo inevitabile portato di concettosità e di asprezza. Più spesso (come avviene, sempre ad esempio, nei due grandi Senza titolo recentemente acquisiti dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino [cat., nn. 322 e 327], ovvero in Estensione, anch’esso oggi esposto [cat., n. 384] o nell’altro Senza titolo del ’61 [cat., n. 393]), il colpeggiare fitto del bianco e del nero è intriso del grigio in cui l’immagine è calata, e affiora dalla trama di quella falsa monocromia (interrotta anche dall’accendersi di un rosso bruciato, o d’un torpido giallo, come avviene ad esempio nel Senza titolo qui esposto, sempre del ’61 [cat., n. 415]), prima di dilagare nel fondo saturo, anch’esso, di colore.
Più che questo, è infine l’immagine complessiva che ne risulta a farsi del tutto autonoma rispetto a quella d’anni Cinquanta, e da essa distante. È un’immagine, adesso, gremita, e come sovraccarica di tensione: al limite di una drammaticità sinora sconosciuta a Sanfiippo, e da lui – dopo questo biennio – non più ripercorsa. La sostiene, anche, una ‘figura’ che, allontanandosi dal sogno di corpi celesti in transito celere sull’orizzonte sereno, si innalza per tutta l’altezza della tela, aggredendone e saturandone la spazialità. Sino a farsi, quasi, una colonna ferita, in cui l’affollarsi di un segno slabbrato sembra essere sul punto di accedere all’empito cieco del gesto; e in cui persino il significato della materia tormentata ed erosa che la colma si fa più ansiosamente pregante.
Divengono, di pari passo, più rare, adesso, le composizioni tramate dal segno minuto, parcellizzato e quasi automatico, che aveva occupato omogeneamente gli ultimi anni del precedente decennio: quando esso s’era votato, mutevole di conformazione e infinitamente variato di colore, a governare la pagina pittorica; un segno spesso affiorante nitidamente dal fondo, ove a dominare restava solo il bianco dell’imprimitura della tela. Si qualificano ora, tele siffatte, come episodiche devianze dalla via più continuativamente seguita. La mostra odierna espone, fra le opere così caratterizzate, un Senza titolo del ’61 e una nuova versione di Estensione, dell’anno seguente [cat., nn. 406 e 502]: con l’avviso che si tratta certo di dipinti in qualche modo eccedenti la norma di quegli anni, in cui a dominare è per contro una sorta di sordo malessere; ma del pari rilevando che (d’ora in avanti, e almeno sino alla metà del decennio) saranno molteplici gli scarti, le suggestioni diverse, le curiosità nuove e gli improvvisi ritorni al passato – le emozioni di una sola ora, potremmo dire in ognuno di questi casi – che contribuiranno a frastagliare la ricerca di Sanfilippo, ad allontanarla da ogni sospetto di un ‘rigore’ identico a sé stesso che non gli appartenne, ed al quale sempre egli prepose l’ansia e la gioia della scoperta.
Scarti e devianze che si susseguono, in particolare, fra 1962 e ’63: periodo nel quale Sanfilippo concentra un alto gradiente di sperimentazione, talvolta nuovamente vicino alla coeva pittura di qualcuno degli antichi compagni di strada, talvolta ripercorrendo alcuni suoi felicissimi modi trascorsi. È il caso questo, ad esempio, d’un piccolo gruppo di rari dipinti che sembrano ripensare all’horror vacui con cui aveva scelto di ricoprire l’intera superficie della tela fra ’53 e ’55, lastricandone il fondo con una trama fitta di incroci di linee. Allora aveva usato una sorta di “pennellessa” (come la chiamava) che altro non era se non un pennello, artigianalmente concepito e realizzato, fornito d’una base allungata donde si dipartivano a loro volta, distanziate le une dalle altre, le setole, condotte così a lasciare di sé sulla superficie una traccia di colore multipla e parallela. Ne erano usciti, allora, un notevole gruppo di dipinti gemelli, nei quali si può leggere come in embrione il modo del segno che verrà. Adesso, a distanza quasi d’un decennio, Sanfilippo sembra riprendere in mano quel suo pennello, e dar forma ad alcune rare pitture, egualmente seducenti (delle quali una è oggi esposta [cat., nn. 466, 494, 529]), nelle quali il colore di fondo è più unito (di volta in volta rosa, verde, o azzurro), più sereno rispetto a quello che s’aggrumava nelle opere d’anni Cinquanta, e nel quale vagano incantati e numerosi punti di luce, quasi stelle di una fantasticata volta celeste.
A stringere la sua tensione sperimentale ai passi coevi mossi da taluni dei suoi vecchi compagni vengono poi, stavolta in numero più cospicuo, una serie di dipinti – concentrati anch’essi, soprattutto, fra ’62 e ’63 – ove notevole è l’invenzione di trattenere il pullulare gremito dei segni entro limitate e ben definite zone cromatiche, iscritte su una sorta di pentagramma, che esplicitamente rinviano alla figura del balloon, alla struttura narrativa e alla sequenzialità del fumetto, come ha ben avvertito Marco Rosci3; e che testimoniano un approssimarsi di Sanfilippo alla istanze di “nuova figurazione” teorizzate per primo da Cesare Vivaldi e praticate tra gli altri, in quegli stessi anni, da Achille Perilli. Un modo, questo, che, toccando scopertamente la dimensione del gioco e dell’ironia, indizia d’una attitudine affatto nuova nell’operare del pittore, che anche con questi dipinti dimostra d’essere definitivamente lontano dal suo periodo vicino a certo nostro informale.
Dentro le isole cromatiche dei balloons, crepitano allora – nuovamente e più che mai eccitati nel timbro e nella struttura – i segni, piccoli e coloratissimi, quasi a fingere, nella loro convulsa aggregazione, lettere e parole non decifrabili d’uno sconosciuto alfabeto. E mai come adesso si riconosce forse la verità della testimonianza che egli renderà di qui a poco a Nello Ponente, in cui svela il suo intento di animare “la superficie in un certo modo mio, nel senso che io isolo una forma che mi interessa, non uso tutta la superficie del quadro ma un determinato spazio”4. L’ansia di parola che rivela il continuo tentativo di ‘motivare’ il suo segno oltre l’azzardo implicito in una matrice surrealista, e che diversamente giace al fondo dell’opera tutta di Novelli, dei ‘fumetti’ di Perilli, persino di certe pieghe del bianco meno innocente e ‘spazioso’ di Twombly, trova in queste opere di Sanfilippo la sua ultima conferma. Quasi potessero davvero parlare, i suoi balloons si sporgono, verso l’alto o verso il basso, con il tipico segno cuneiforme che collega nel fumetto la ‘nuvola’ al proprio – qui soltanto ipotizzato – ‘personaggio’ (Senza titolo, ad esempio, del ’62, o Rosso arancione triplo, dell’anno seguente; ovvero, oggi esposto e sempre del ’63, un altro Senza titolo [cat., nn. 488, 565, 588]).
È questo dunque il giro d’anni in cui forse Sanfilippo cerca in più direzioni, rendendo talvolta la sua opera difficilmente definibile persino ai suoi più antichi esegeti (“Allora io sbagliavo…”, confessa Ponente nel colloquio con il pittore più sopra citato, del 1964). Fino ad immaginare delle strane composizioni in cui egli sembra voler registrare, in uno spazio per solito ridotto (come si conviene a quello d’uno studio o d’un laboratorio d’idee), e rigorosamente scompartito dall’incrocio delle ortogonali, tutte le diverse possibilità del suo segno: ora più azzardato ora più contratto, ora delimitato da un progetto ora lasciato libero di abbandonarsi alle voglie e agli istinti del suo colore. Così che quelle zonature rettangolari in cui egli colloca quello che si rivela adesso quasi come un suo ‘repertorio dei segni’ somigliano infine a ordinati e svariatissimi cassetti della memoria, ai quali attingere per le composizioni maggiori. Forme, egli intitola per solito queste sue composizioni, che – raramente esposte fino ad oggi – s’aprono nel ’63 e si prolungano almeno sino al ’66 [cat., nn. 566, del ’63, o 752, del ’66; ovvero, qui esposti, nn. 680 e 683).
Va infine segnalata una tensione, che Sanfilippo tratterrà in un numero relativamente ristretto di dipinti (anch’essi, come i precedenti, di formato prevalentemente ridotto, e anch’essi molto raramente esposti prima d’ora), verso un modo di scrittura epigrammatica, in cui a farsi egemone sembra essere la brevità e l’armonia della concinnitas latina. In questi dipinti il segno minutissimo s’aggrega al centro d’una zona bianca, stretta fra due pareti di colore unito, così che ne deriva – data per lo più in un formato verticale – un’immagine leggera e fluttuante, come memore d’una calligrafia orientale. Il segno nella scrittura giapponese intitolava d’altronde Fosco Maraini un saggio apparso nel primo numero de “l’esperienza moderna”5, a dimostrazione della diffusione di questa nuova forma di giapponismo in certa avanguardia italiana, e romana in specie6. A quella rivista, fondata e co-diretta come è noto da Novelli e Perilli, e alla quale fu vicino anche Cy Twombly, facevano d’altronde allora riferimento, fra gli altri, Ponente e Vivaldi, vale a dire due dei più assidui interpreti di Sanfilippo. Proprio all’interno del più sopra citato, importante saggio di Vivaldi (Nuova figurazione nella giovane arte italiana, dicembre 1957) compare poi, a comprovare un suo rapporto con il clima della rivista, un disegno di Sanfilippo che strettamente s’apparenta agli altri (di Perilli, Novelli, Bignardi, Sordini, Sterpini, Boille, Capogrossi, Bryen, Vandercam, fra gli altri) che il numero della rivista pubblica7.
È un’idea d’Oriente indeterminata ma carica di suggestioni – che sempre in Sanfilippo si darà come ipotesi non vincolata a un nozione filologica di quella remota e di fatto a lui sconosciuta cultura: come d’altronde avviene gli stessi anni, ad esempio, all’opera di un altro compagno di strada, Giulio Turcato8 – che inizia forse a manifestarsi in un raro e isolato dipinto del ’56 [cat., n. 198]; poi tace per un lungo tratto (se non si vuole riconoscerne un’eco trasfigurata nelle maglie di segni che sovrastano a volte le sue più tipiche nuvole e galassie, soprattutto nel ’57 [cat., n. 222]), per ripresentarsi in altra forma in un piccolo dipinto del ’58 [cat., n. 299]; più continuativamente, poi, essa ricompare nella breve serie cui più sopra s’accennava, di cui anche la mostra odierna dà esemplarmente conto [cat., n. 364; ma vedi anche, sempre ad esempio, i nn. 368 e 380 del Catalogo Generale]; e infine in un’opera che è una sorta di unicum nella produzione di Sanfilippo, datato al ‘63 [Senza titolo, cat., n. 563].
Nei suoi saggi ’orientali’ Sanfilippo utilizza lo stesso segno “piccolo” (come scriverà negli Appunti sul proprio lavoro9) che torna a saturare gli spazi delle sue composizioni maggiori: sono alveari, di cui quasi sembra di poter udire il brusio, di segni coloratissimi, sospesi nel bianco della tela, isolati spesso da un percorso lineare che ne detta la forma (ovoidale, per lo più; simile a quella di un’ellissi, o d’un polmone respirante) e ne trattiene la dispersione; ma talvolta anche – come più spesso usava sul finire del precedente decennio – lasciati liberi di vagare nella pagina pittorica senza che nulla li vincoli. Solo il bianco in cui ora s’iscrivono è fondamentalmente differente dal campo in cui si manifestava la nuvola di segni nel decennio precedente: qui più intenso e nitidamente individuato, staccato dal fondo cui in qualche misura quella candida superficie si oppone [vedi, oggi esposti, cat., nn. 502, 536, 567].
Nel 1972 (quando già la sua operosità, densa sino a poco avanti, s’è andata rarefacendo), Sanfilippo stenderà una breve cronistoria del suo lavoro (“Separare le ricerche …”, dagli Appunti, citati più sopra, cat., p. 330), a partire dal 1953, e fino alle “ricerche diverse” che si sono susseguite a muovere dal ’67. Scrive in quell’occasione, denotando il biennio ’62-’63 come un periodo occupato dalla “ricerca del segno piccolo esclusivamente”; poi, riferendosi al periodo ’62-’64, dice d’un “ingrandimento del segno e della strutturazione” che ne occupa adesso la pittura. Un nuovo capitolo si apre dunque adesso: e proseguirà, organico e felicissimo, fino al tempo dell’importante appuntamento della sala personale destinatagli dalla Biennale di Venezia nel ’66, e un poco oltre. È un momento, questo, decisivo per la carriera pubblica di Sanfilippo, che espone, secondo quanto registra il catalogo dopo la prefazione di Ponente, quattordici dipinti, tutti di grande dimensione10.
Invia a Venezia, per la Biennale, il lavoro degli ultimi anni, poco dopo aver presentato a Roma, all’Arco d’Alibert11, una vastissima antologica della sua pittura, a muovere dal 1946. A Roma dunque era stato un tripudio di colore (“che ricorda il Matisse fauve”, rilevava Lorenza Trucchi in un recensione alla mostra12) ad accogliere il visitatore; all’opposto a Venezia Sanfilippo concentra la sua sala quasi esclusivamente sui toni di terra – ocra gialli marroni – qui e là rialzati dal verde. Ma è soprattutto il segno a cambiare, facendosi improvvisamente maggiore, e nettamente individuato, ritagliato quasi su un fondo chiaro che ha ormai accantonato ogni tentazione atmosferica e di coinvolgimento emozionale. A condurre l’immagine è ora “una accelerazione della scrittura che […] tende più alla forma compiuta che al segno”, scriverà sensibilmente poco tempo dopo Giovanni Accame13: cogliendo l’ansia di Sanfilippo di andar oltre l’automatismo di un segno di cui aveva sempre rifiutato il portato irrazionale che lo assimila al gesto, ma che pure comprendeva in sé la cecità e l’azzardo del fare, senza che un progetto vi avesse luogo, senza che il pensiero ne sorvegliasse il nascere.
Altro dall’azzardo e dalla tensione rabdomantica dei suoi anni Cinquanta si dà adesso: il segno si ingrandisce, e da macchia che era, graffio breve e nervoso della superficie, si fa vero morfema plastico; sovente sfiorando l’allusione a forme viventi, e altrettanto frequentemente citando altri segni della pittura a lui più prossima. Spesso, anche, egli vi riprende, trascinandoli verso il respiro maggiore della grande dimensione, gli spunti, le macchie, gli incidenti del segno che aveva incasellato in quei piccoli dipinti che aveva non per caso intitolato Forme, che abbiamo detto essere per lui come ‘cassetti della memoria’, e che dimostrano adesso d’essere davvero scrigni preziosi della sua fantasia. Aggregato assieme ai suoi più prossimi, il segno è così ad un sol passo dal farsi ‘figura’: quella, ad esempio, d’un ingranaggio d’una macchina sconosciuta [Dopo secoli, cat., n. 553], o quello d’un intrico fitto di un bosco [Verde abete, cat., n. 615]. Mentre, soltanto, resta immutato rispetto alle ‘galassie’ di segni minimi degli anni Cinquanta il colmo di luce che invade questi spazi, nei quali esso sembra esplodere come in un caos rigoglioso, scritto con foga inarrestabile. E torna, mai stata così piena dopo il transito ‘informale’ a cavallo dei due decenni, la felicità gioiosa di Sanfilippo, qui prossima – quasi – al gioco, e ad una lieve ironia.
Con questo suo segno cresciuto per dimensione Sanfilippo s’approssima allo scadere del decennio, caratterizzato da una molteplicità di interessi e tentativi che egli riassume, negli Appunti del 1972, classificandoli sotto il paragrafo “ricerche diverse”, nelle quali raccoglie tra l’altro una “distinzione più chiara della ricerca del pieno e vuoto spaziale […], del segno vuoto e del segno pieno, nella superficie bianca o colorata”. E dipinti quali Nuvola, oggi esposto [cat., n. 804], illustrano compiutamente la direzione presa adesso da Sanfilippo, e la feconda irresolutezza che egli provò di fronte a quel segno che era nato in lui come traccia pulviscolare, e ora diveniva da un canto ‘figura’, dall’altro elemento di una tarsia cromatica ancor più clamante.
Un ultimo passo avrebbe mosso infine la sua pittura, a partire dal 1968, e più nitidamente dall’anno seguente. Nato certamente da una suggestione provata di fronte alla natura, da cui tutto il tragitto maggiore di Sanfilippo s’era tenuto discosto, questo modo, nel breve lasso di tempo in cui vivrà accanto al pittore ancora curioso di nuove indagini linguistiche, confermerà l’urgenza, già lucidamente avvertita da Accame, di muovere oltre il segno, verso la riconquista di una “forma compiuta”. Ispirata forse in avvio dalla figura dell’albero, esso distenderà poi sovente sull’orizzontale quella figura, che gli apparve allora forse troppo implicata con un sentore di natura. E attorno alla saetta che traversa veloce un ricostituito orizzonte torneranno così ad aggregarsi nuvole di segni minuti: come se un’ansia di ripercorre il passato venisse a fomentare di memoria quel suo ultimo presente.
1 G. Appella, F. D’Amico, Antonio Sanflippo. Catalogo generale dei dipinti dal 1942 al 1977, con la consulenza d’archivio di Antonella Sanfilippo, De Luca Editori d’Arte, Roma 2007, nn. 374-435, pp. 193-207; d’ora in avanti citato nel presente testo come [cat., nn. 374-435]. Per quanto attiene all’opera su carta, cfr. F. D’Amico, Sanfilippo. Le carte, De Luca Editori d’Arte, Roma 2009; la catalogazione competa dell’opera su carta è in corso di redazione, a cura dell’Archivio Sanfilippo.
2 Si ricordi come, ad esempio, l’unica personalità d’area romana chiamata da Francesco Arcangeli a condividere le ragioni della propria nozione di informale sia stata quella di Leoncillo (a parte, naturalmente, quella di Burri, considerato – peraltro a torto, e limitandone gravemente le acquisizioni – un antesignano di quella poetica).
D’altro canto, emblematica dei toni scettici e anche fortemente polemici delle molteplici risposte ‘romane’ alle posizioni critiche di Arcangeli è l’opinione espressa da Cesare Vivaldi nel ’57, che taccia di antistoricità “il tentativo piccolo-lombardo” di “Morlotti ed altri anche più mediocri” di identificare come novità linguistica il ritorno alla natura insito nel loro materismo (C. Vivaldi, Nuova figurazione nella giovane arte italiana, “l’esperienza moderna”, nn. 3-4, Roma, dicembre 1957, pp. 20-24).
3 M. Rosci, Il segno e lo spazio, in Antonio Sanfilippo, cat. della mostra a cura di F. d’Amico, M. Rosci, Aosta, Tour Fromage, 15 maggio – 20 luglio 1997, pp. 22-27.
4 N. Ponente, Antonio Sanfilippo intervistato da Nello Ponente, “Marcatré”, nn. 8-9-10, Milano, luglio-agosto-settembre 1964, pp. 249-250.
5 F. Maraini, Il segno nella pittura giapponese, “l’esperienza moderna”, n. 1, Roma, aprile 1957, pp. 13-18.
6 Confronta adesso la tesi di laurea di Vanessa Martini, L’Estremo Oriente in Italia: 1952-1962. Presenze, rapporti e ricezione dell’arte cinese e giapponese a Venezia, Roma, Torino, Milano, Università degli Studi di Pisa, a. a. 2007-2008; e, della stessa Martini, L’estetica estremo-orientale nel passaggio dagli anni ’50 agli anni ’60, “Quaderni di scultura contemporanea”, n. 8, Edizioni della Cometa, Roma 2008, pp. 75-95.
7 Il disegno, indicato come dello stesso 1957, è pubblicato a piena pagina proprio all’interno del contributo di Vivaldi (p. 22).
8 Fra i molti dipinti di Turcato che in quest’arco di anni sembrano riferirsi ad una suggestione d’Oriente si ricordino, ad esempio, Ciò che si vede, del 1956, e Mosche cinesi, del 1957. Si rammenti che tra l’altro Turcato poté ricevere di prima mano qualche indicazione in tal senso nel corso del viaggio da lui compiuto con una delegazione del Partito Comunista in Russia, Cina e India nel 1956.
9 Cfr. cat., Vita, opere, fortuna critica, passim.
10 XXXIII Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, cat. della mostra, Venezia 1966, pp.71-72, e ill. 77-78. La stesura del catalogo generale ha evidenziato una discrasia fra le opere elencate in catalogo, le illustrazioni, e quelle espressamente indicate da Sanfilippo come effettivamente partite per Venezia (alle 14 ricordate in catalogo, ne andrebbero in particolare aggiunte altre 10, registrate in documenti d’archivio come effettivamente inviate alla Biennale – e fra queste anche Nero e bianco, 1965 [cat., n. 715], riprodotta fra le illustrazioni del catalogo di Venezia [n. 78], ma non elencata fra le opere esposte dal catalogo stesso, nell’elenco pubblicato a p. 72).
11 Antonio Sanfilippo. Opere 1946-1965, cat della mostra, Roma, galleria Arco d’Alibert, 21 febbraio – 12 marzo 1966. In catalogo un testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco.
12 L. Trucchi, Sanfilippo all’Arco d’Alibert, “Momento Sera”, Roma, 6 marzo 1966.
13 G. M. Accame, Antonio Sanfilippo, cat. della mostra, Bologna, San Luca Galleria d’Arte, 1968.