‘Eliseo Mattiacci alla Fattoria di Celle’, in ‘Eliseo Mattiacci. Microcosmo’, Santomato, Collezione Gori, 2000

La cosa : “un satellite felice dove succedono cose imprevedibili (una piccola isola della creatività). Un’opera che abbia un po’ il sesto senso degli animali della foresta, che avverte le condizioni atmosferiche, le sensazioni, che riceve e che trasmette dei segnali …”.

E il luogo : “lo spazio dove sarà organizzato il lavoro, già di per sé ha degli impulsi e dei sensi segreti. Il bosco in cima ad una collina dove troverò lo spazio per agire non avrà strade di accesso, si arriverà all’opera attraverso dei sentieri, seguendo delle tracce, con un fiuto da vero segugio …”.

Mentre salivo lentamente dalla villa secentesca di Giuliano Gori, attraverso il parco delle sculture, su verso la cascina che porta il nome antico di Terrarossa e che ospita adesso questa mostra di Eliseo Mattiacci, pensavo a queste e ad altre parole che egli ha scritto una volta (su “A.E.I.U.O”, la rivista immaginata da Bruno Corà sul finire degli anni Settanta) sognando un’opera da fare “nel bosco”.

Sono passati tanti anni, da allora ; e quell’opera nel bosco non è mai nata. Ne ho sempre avuto rimpianto, perché penso che il bosco sia uno dei luoghi che da sempre ‘attendono’ Mattiacci. Così, è stato fin troppo facile, percorrendo quei viali ai cui fianchi s’allargano, uno dopo l’altro (quasi ad ogni svolta aprendosi in nuove prospettive : vicine, poi d’improvviso lontanissime) crinali e colli, prati e boscaglie, è stato facile e quasi ovvio, adesso, guardando camminare davanti a me Gori e Mattiacci e intuendo il loro accordo istintivo, pensare che forse, finalmente, quell’idea potrà prendere, qui, forma.

Sarà, se sarà, certo assai diversa da quella allora immaginata : se non altro perché il K.G.B. (che, nelle previsioni di Mattiacci, avrebbe dovuto essere “incuriosito” da quello strano luogo fatto di suoni, luci e rumori, di magia e di terrestrità, un po’ tecnologico e un po’ ancestrale) non esiste più ; e nemmeno la C.I.A. (altro possibile ‘utente’ dell’opera nel bosco) è più quella di una volta. E perché, a forza d’annunciarlo e di nominarlo come futuribile, il terzo millennio è arrivato, anche se si prospetta non troppo diverso dal  precedente. Infine, perché nel frattempo Eliseo è cambiato e, senza perdere il gusto dell’avventura, sa adesso che arrivare a dare ai suoi sogni l’approdo di una forma non è lo stesso che compitare “formalisticamente” (come si diceva un tempo, rabbrividendo) il proprio linguaggio.

Diversa, allora. Ma, se infine sarà, “l’opera nel bosco” saprà certo essere indimenticabile.

Come indimenticabili sono, per tornare all’oggi, le Open Field Vertical Elevations di Richard Serra, le otto pesanti, squadrate, immani pietre che misurano senza errori il crescere, o il digradare, del vastissimo pendio su cui sono dislocate : e – in quest’opera che segna un culmine del percorso ideativo dell’artista americano : pregna d’una capacità di suggestione che va probabilmente persino al di là delle intenzioni, più dichiaratamente minimaliste, del suo autore – è come se un roco eruttare di forme archetipiche si liberasse con fatica dal ventre della terra. Alla sommità di quel colle, c’è infine Terrarossa ; e proprio di fronte alla cascina, due grandi acciai degli anni Novanta, Le vie del cielo e Riflesso dell’ordine cosmico, attendono chi sale. Che l’abbia o meno, Mattiacci, pensata come tale,  è questa la sua prima risposta alla scura possanza di Serra.

E basta questo primo, forse casuale confronto del cortèn di Mattiacci con l’inusuale pietra di Serra (o l’altro confronto che le sue due opere sembrano ricercare con l’incombente assise dei grandi orci in vetroresina di Robert Morris, che saturano lo spazio di un cascinale non lontano da Terrarossa) a verificare – ove ancora ce ne fosse il bisogno – la misura in cui l’opera più recente di Mattiacci si qualifichi oggi come interamente congenere al linguaggio maggiore della cultura artistica internazionale.

Poi entri a Terrarossa : e in quegli spazi improvvisamente raccolti – più grandi o più piccoli : ma comunque tutti misurabili, esperibili, sala dopo sala, con un solo sguardo – hai precisa la sensazione di quale sforzo la scultura debba oggi compiere per farsi, come già aveva intuito Arturo Martini, non più “un oggetto, ma un’estensione”. E in questo sforzo, in questo – quasi, a tratti – suo patimento, avverti un suo oggi fatale traguardo, di caduta o salvezza. Non essere più cosa, ma spazio : in un luogo ove le nostre convenzioni ed attese ci spingono a cercare e riconoscere appunto cose, oggetti, collocati ed accolti entro uno spazio.

Penso così alla scultura in un interno, oggi (a quella scultura, è ben chiaro, che abbia prevalente vocazione e confidenza con l’opera nata per l’esterno), come ad una sfida ulteriore, e davvero vasariana, in cui la licenza non possa darsi se non come effrazione ad una regola che continua ad esistere accanto ad essa, sogguardandola e, come una sentinella testarda, sorvegliandone la vita che, di troppo inconsapevole libertà, morrebbe.

Ecco, Vasari scriveva della “graziosissima grazia” che i maggiori fra gli artefici del suo tempo avevano saputo raggiungere trattando “le cose della filosofia favoleggiando” ; e ammetteva persino, poco oltre, che al processo ideativo di un’opera potesse concorrere l’”invenzione” : ma non mai una “licenza” che fosse altra da quella che, “non essendo di regola”, non di meno, infine, “fusse ordinata nella regola”. E quando ragionava così, non altro faceva che intuire – per primo – come alla natura dell’opera d’arte si confacesse, o meglio fosse ineluttabilmente necessario, quel bilico, quel precario equilibrio serbato fra regola ed eccezione, fra rigore e vertigine, fra normatività e trasgressione.

Oggi, mi sembra che questa lontana intuizione critica vasariana possa valere ancora a leggere, in modo particolare, la ‘scultura nuova’ dei nostri anni prigioniera dell’interno. Almeno, su questo riflettevo quando, dalla luce piena delle colline di Celle, entravo nella penombra di Terrarossa. Ed è questo che credo si debba dire prima di ogni altra cosa di Microcosmo, (titolo complessivo che Mattiacci ha voluto dare alla sua mostra odierna) : che esso si pone al culmine di un decennio dell’operosità dello scultore marchigiano nel quale il confronto con l’idea della grande e grandissima dimensione è stato certamente egemone nel suo immaginario ; e che rispetto a questo suo recente passato Mattiacci, senza in nulla rinnegarlo, voglia oggi prendere un momento di distacco.

Inoltre, che questa esperienza, coesa al suo interno come non era forse stata sino ad ora nessun’altra esposizione di Mattiacci dagli anni Ottanta in avanti (nemmeno quella, del ’93, complessa, e densa di opere folgoranti, ma confinata in uno spazio sontuoso quanto sostanzialmente indifferente come PradaMilanoarte), pensata dunque come un’opera unica più che come una somma di lavori indipendenti, segni un momento di grande felicità inventiva, e si ponga come tappa cruciale di una ricarica immaginativa di cui il prevalente commercio con l’impegno monumentale gli faceva avvertire la necessità.

Microcosmo : quasi a dire che s’ascolta oggi, a Terrarossa, l’eco intera e perfetta di quell’universo che da sempre è il soggetto della sua scultura. Di quel cosmo che è il luogo dei suoi sogni, delle sue avventure, delle scorribande della fantasia ; il luogo del suo rischio : del crampo logico, della contrazione semantica, della parola che scivola ambigua accanto alle cose, le accarezza e le frastorna, gioca con esse, quasi, sottraendogli infine il loro senso comune, e restituendoglielo diverso, inatteso, per sempre altro rispetto a quello che tautologicamente le definirebbe, inchiodandole al suolo.

Dal suolo (qualche volta ha detto persino : dall’uomo) Mattiacci parte, ogni volta, per il suo viaggio. Dal suolo volge lo sguardo in alto, e scopre la fissità delle stelle, il lento girare dei pianeti, la corsa delle meteoriti, il sorgere e le eclissi del sole e della luna, l’ordine e il caos degli dei, delle idee, delle figure che abitano il cielo. I lampi di luce che lo attraversano, la dismisura delle energie che lo squassano, i tragitti di quei corpi celesti, Mattiacci li scruta (L’occhio del cielo : scultura che guarda), li ripete (Totem con nuvola), li registra (dopo il Carro solare del Montefeltro, Un ascolto di vuoto e infine la lunga serie dei Riflessi dell’ordine cosmico), li mima paradossalmente (Equilibri precari quasi impossibili), li traguarda, forse progettando di partire da quelle rampe al loro inseguimento (Le vie del cielo).

È quanto avviene, ormai da due decenni, a quella parte dell’opera di Mattiacci che nasce (in una grande dimensione non retoricamente assunta, ma intimamente connaturata alla vocazione del luogo che l’accoglie) in spazi aperti, sovente a diretto contatto con una natura còlta ad una sua acme di vastità e possanza (le rive del mare, un ghiacciaio d’alta montagna, la gola incassata di un monte). Oggi, a Terrarossa, a questo che è il suo fondo e non scambiabile immaginario, Mattiacci ha dato figura organica in spazi, invece, raccolti. Ne discendono, di aula in aula, concentrate aggregazioni di segni che ellitticamente ripetono i temi usuali, ripercorsi adesso sovente in forme nuove e, come si diceva più sopra, come potenziate dalla costrizione della regola che li avvolge.

Fra queste, straordinaria è l’immagine restituita da un piccolo ambiente del piano superiore, ove su un letto di sfere di piombo che moltiplicano, rifrangendola, la scarsa luce che piove dalla esigua apertura dell’unica finestra (quelle stesse biglie che Mattiacci aveva raccolte per la prima volta nelle capienti vasche di ferro della Scultura stratosferica e della Scultura cosmosferica, entrambe della fine degli anni Ottanta) si posano, quasi fossero reperti precipitati sulla terra da sconosciute distanze, tre grandi sfere e semisfere d’alluminio, che, in leggero rilievo, portano impressi i segni astrali del lungo viaggio celeste che le ha condotte fin qui. Un’opera, questa, che ripete, variandolo, il fascino d’una installazione per la prima volta esposta nel 1984 al Kunstforum di Monaco, Alta tensione astronomica, rispetto alla quale il soffitto di travi, qui, svolge il medesimo ruolo di acceleratore spaziale che a Monaco dettavano i cavi elettrici pendenti dall’alto.

Questa tensione, così percepibile e insieme così priva d’ansia, così limpidamente condotta al proprio approdo di forma, percorre poi ogni ambiente del cascinale : con il senso ovunque reiterato di una intrusione perpetrata da avventurati segni celesti nell’alveo di una misura che, più che d’umano soltanto, ha il sapore di una domestica ferialità. E fin nell’aula maggiore di Terrarossa, ove Mattiacci ha riunito, attorno a Per Cornelia (1985 : scultura mirabile che innalza il suo globo di fuoco, di luce e calore sulle due esili barre incrociate che lo sorreggono in precario, slittante equilibrio), declinazioni del tutto nuove di suoi ormai antichi temi : l’energia della calamita ; lo slancio verso l’altrove dei grandi binari di ferro addossati alla parete ; la forma  tondeggiante e femminea della vasca ; infine, i cinque dischi con le fasi diverse dell’eclisse, che è la più misteriosa fra le metamorfosi celesti.