‘Claude Monet oltre l’impressionismo : dal Salon del 1880 alle ‘Rocce di Belle-Ile’, in ‘Da Cézanne a Mondrian’, Treviso, Casa dei Carraresi, 1999

Quando, sulla metà del 1878, Renoir accettava l’incarico di Georges Charpentier e poneva mano al grande ritratto di Madame Charpentier  con i figli con il quale avrebbe trionfato al Salon del ’79, era forse ancora fresca di stampa la piccola brochure di Théodore Duret dedicata a Les peintres impressionistes, pubblicata a Parigi nel maggio di quell’anno : trentasei pagine che segnano un momento cruciale della militanza lunga e felice di Duret a fianco della nouvelle peinture, ed insieme una data di grande rilievo  per la vicenda della critica d’arte del movimento1. Charpentier, che era l’editore di Zola e senza dubbio l’uomo più in vista fra i non molti appartenenti all’alta borghesia parigina che avevano appoggiato sin dalla metà dell’ottavo decennio del secolo le nuove ricerche impressioniste, avrà certamente visto l’opuscolo di Duret, notato l’unica riproduzione che l’accompagnava (un inchiostro di Renoir che ripensa la sua Lise con l’ombrellino del ’67), e letto le parole che l’amico critico dedicava a Renoir. Che, scriveva Duret, “al contrario di Monet, Sisley e Pissarro, è soprattutto un pittore di figura, mentre il paesaggio non gioca nella sua opera che un ruolo secondario (…). Renoir eccelle nel ritratto (…). Dubito che alcun altro pittore abbia mai interpretato la donna in modo più seducente”. Non aveva forse bisogno di questa conferma, Charpentier, a proposito del talento di ritrattista di Renoir, che già egli sosteneva economicamente almeno dal ’75 ; ma è assai probabile che l’indicazione così esplicita di Duret in proposito l’abbia infine deciso a incaricare il pittore (che già aveva esposto alla terza mostra impressionista del ’77 un piccolo, ammirato ritratto della signora Charpentier) del grande dipinto che avrebbe segnato una svolta non solo nella vita e nella pittura di Renoir, ma nelle vicende stesse del movimento impressionista.

Nel ’77, alla Troisième exposition de peinture di rue Le Peletier  (resa possibile in primo luogo dall’entusiasmo e dall’attivo sostegno offerto alla nuova iniziativa del gruppo impressionista da Gustave Caillebotte, e che tra l’altro sancì l’eclisse definitiva della concorrente società de “L’Union”, precariamente aggregata da Alfred Meyer in funzione anti-monettiana) Renoir aveva esposto almeno ventuno opere (presentando dunque un nucleo di dipinti di gran lunga superiore a quelli da lui inviati alle prime mostre del  ’74 e del ’76)2, fra le quali erano ancora alcuni paesaggi, oltre a taluni dei suoi maggiori capolavori “impressionisti”, quali La Balançoire e Bal du moulin de la galette. Per giunta egli aveva assunto in quest’occasione, a fianco dell’amico Caillebotte, una precisa responsabilità organizzativa nella preparazione della mostra.

Ma già l’anno successivo, il 1878, Renoir s’era staccato dagli antichi compagni di strada, per un imbarazzo suo confidato per adesso solo a pochi, e privatamente (scrive a Durand-Ruel, ad esempio, quasi scusandosi, e giustificando la sua mancata adesione con ragioni esclusivamente economiche) : l’invio che fa quell’anno al Salon, d’altronde (ove viene accettato soltanto Il caffé, poi noto con il titolo La tazza di cioccolata),  passa quasi del tutto sotto silenzio, percepito forse soltanto dagli amici che, con rammarico, si vedono costretti a non poter far conto su di lui per la quarta mostra di gruppo (il cui statuto impegnava gli aderenti a non inviare al Salon), programmata per quello stesso ’78 e poi, vista la concomitanza con l’Esposizione Universale, rinviata all’anno successivo.

Ben diverse sarebbero state le conseguenze della clamorosa pubblicazione del grande ritratto di Madame Charpentier con i figli, esposto in posizione d’assoluto privilegio (certo in conseguenza del prestigio sociale dei ritrattati) al Salon del ’79, e che valse a Renoir un riconoscimento per la prima volta ampio e convinto alla sua pittura. E’ un dipinto, questo, in cui lo straordinario celeste d’acqua che illumina i vestiti delle bambine, dialogando con il rosa dell’incarnato e con l’oro dei capelli al punto da renderle quasi due grandi occhi di luce che abbacinano la parte sinistra della tela, non basta a frastornare le altre, e opposte, sue vocazioni, che ne fanno un magistrale esempio del genere ritrattistico, perfettamente inserito in un asse paradigmatico che s’allunga all’indietro, memore e orgoglioso, nei secoli andati. Uno spazio che è da un canto emozionato e raccolto,  pronto ad accogliere quel trepido scambio di sguardi e di affetti che è sempre stato nel cuore di Renoir ; ed è, d’altra parte, tanto studiosamente misurato dai segni, sparsi nella stanza senza ostentazione, eppure inequivoci, d’una appartenenza ad una classe sociale ove il privilegio è attitudine naturale, quotidiana : ecco il luogo che Renoir sceglie per rinnegare il plein air, e con esso quella hâte, quella celerità nel comporre che era stata transito necessario alle acquisizioni di forma dell’impressionismo, e che ora gli sembra intollerabile.

D’altronde, persino Zola – ben prima di confessare tutta intera nell’Œuvre (1886) la sua speranza perduta del “capolavoro” impressionista – mostra fin da ora di avvertire un disagio verso quel modo di pittura che, soprattutto nell’opera “âpre et forte” di Pissarro e di Cézanne3, aveva tanto precocemente e profondamente saputo comprendere e amare. Lamentando ad esempio, nel terzo articolo da lui dedicato su “Le Voltaire” al Salon del 1880, che Monet abbia “ceduto troppo alla sua facilità di produrre. Dal suo atelier, in momenti difficili, sono usciti tanti abbozzi ; ciò non serve a niente e spinge il pittore sulla china della paccottiglia. Quando ci si accontenta troppo facilmente, quando si licenzia un abbozzo appena asciutto, si perde il gusto del pezzo studiato a lungo ; è lo studio che rende solide le opere”4.

E appena due giorni prima di scrivere queste righe, per molti versi sorprendenti, su Monet, Zola aveva annotato, sulle medesime colonne de “Le Voltaire”, a proposito d’una stagione che riteneva, o auspicava, ormai conclusa: “Certo, lo scalpore è stato grande, le esposizioni degli impressionisti si sono imposte per un attimo in tutta Parigi ; venivano beffeggiati in canzonette, ricoperti di ingiurie e risate, ma i visitatori accorrevano in massa. Sfortunatamente, era solo rumore, quel rumore parigino che il vento porta via”. E proseguiva : “Renoir è stato il primo a capire che le commesse non sarebbero mai arrivate per quel tramite ; e, avendo bisogno di vivere, ha ricominciato a mandare quadri al Salon ufficiale, il che lo ha fatto considerare un rinnegato”. Da una parte, dunque, Zola attribuiva il “tradimento” di Renoir a un’urgenza esistenziale, e a un mero accorgimento tattico (che, tra parentesi, condivideva : “confesso che la condotta di Renoir mi è sembrata perfettamente ragionevole”) ; d’altro canto, gli sembrava di riconoscere nel nuovo orientamento una opportuna correzione di rotta anche dal punto di vista strettamente linguistico e formale5.

E, se si ragiona al fatto assai probabile che la sua esperienza diretta dell’opera più recente di Monet non doveva andare molto al di là di quanto egli poteva vedere esposto al Salon del 18806, è certo che Lavacourt, il paesaggio d’inusitate dimensioni e d’inatteso concetto che Monet inviò a quel Salon, non poteva far altro che confermarlo nella convinzione che il tempo delle ébauches, delle pochades, e forse della stessa pittura en plein air era per sempre tramontato.

Monet non partecipava da oltre dieci anni al Salon, al quale aveva ottenuto il suo unico successo nel ’66 con Camille, il quadro nato “in quattro giorni”7 sulle ceneri del Déjeuner sur l’herbe, la grande e rivoluzionaria tela che l’aveva occupato per oltre un anno, alla quale presumeva di affidare le sorti della sua futura fortuna, e che non era riuscito a terminare. L’ultimo suo invio risaliva al 1870, quando gli erano state rifiutate entrambe le opere sottoposte al giudizio della giuria, fra le quali Le Déjeuner, una sapiente composizione d’interno, certamente debitrice di Manet, ma che pur aveva all’apparenza sufficienti qualità accademiche per compiacere un gusto tradizionalmente orientato, e alla quale fu opposto un rifiuto motivato, ad evidenza, soprattutto dalla firma che portava.

Tornare al Salon, tornare a sottoporsi a quella giuria che nel frattempo, mentre tutto attorno ad essa era cambiato, a cominciare dalla forma dello Stato (una Repubblica, ora, in luogo dell’Impero), non s’era data né uomini né regole nuove, dovette essere per lui una prova non facile. Monet vi fu certamente indotto, in prima istanza, dall’esempio di Renoir ; o meglio, dal grande successo ottenuto da Renoir nel ’79, dato che la scelta in tal senso operata dall’amico già nel ’78 l’aveva lasciato quasi indifferente, e l’aveva anzi spinto a una partecipazione alla quarta mostra impressionista ampia e articolata come mai era stata in precedenza. In quell’occasione, i ventinove dipinti esposti da Monet, distesi all’indietro nel tempo fino a coprire quasi tutti gli anni della sua operosità, a muovere da una Marina datata al ’65, avevano testimoniato anzi l’intenzione di Monet di sottolineare, fors’anche sollecitato dall’assenza di Renoir, il suo ruolo di capofila della nouvelle peinture e di “chef des impressionistes8.

Appena dopo, il trionfo di Madame Charpentier con i figli lo determina a tornare a giocare le sue carte sulle pareti del Salon. Chissà se, quei giorni certo difficili, e forse amari per più d’una ragione9, gli sarà tornata alla mente l’orgogliosa risposta data tanti anni avanti da Manet a Caillebotte, che lo sollecitava ancora una volta ad unirsi al loro gruppo : “Je n’exposerai jamais dans la baraque à côté ; j’entre au Salon par la gran porte, et lutte avec tous”  (che altro non è se non l’ennesima conferma della convinzione ferma, tante volte testimoniata da Manet, che il destino d’un pittore si giocasse davvero solo sul palcoscenico della grande manifestazione annuale dell’Institut e dell’Accademia)10. Certo è che la determinazione di Monet di tornare al Salon nel 1880, soprattutto se confrontata con l’opposta sua intenzione palesata dalla sua partecipazione impegnata e scopertamente antologizzante alla quarta mostra impressionista (confermata d’altronde dalla personale che Monet, invitato da Charpentier, organizzò contemporaneamente al Salon nella galleria della rivista di moda “La Vie Moderne11), segna la prima profonda frattura nella vicenda – almeno dal 1869 fondamentalmente unitaria – della nouvelle peinture.

Monet sa ormai che dovrà concedere molto alla giuria : “je travaille à force à trois grandes toiles”, scrive a Duret nel marzo dell’’80, “dont deux seulement pour le Salon, car l’une de trois est trop de mon gout à moi pour l’envoyer et elle serait refusée, et je du en place faire une chose plus sage, plus bourgeoise12. E davvero quel che gli esce dalle mani con Lavacourt è la “cosa più saggia, più borghese” che egli si ripropone di compiere. Questo grande paesaggio della Senna ritorna su di un tema già altre volte trattato tra ’78 e ’79 in alcuni dipinti di dimensioni assai più ridotte, due dei quali proposti alla quarta mostra impressionista del ’7913. Ma, al di là dell’identità del soggetto, tutto vi è diversissimo rispetto alle ultime ricerche di Monet, che nel periodo di Vétheuil, e segnatamente fra ’78 e ’80, s’erano soprattutto concentrate su paesaggi di neve, di brina o di ghiacci, nei quali l’immagine si dava rarefatta e ovattata, pallida e silenziosa, a tal punto che sovente gli elementi del paesaggio sembravano perdere ogni loro individualità, sommersi da una luminosità lenta e diffusa, capace di ridurre la varia apparenza del mondo alla stregua di una presenza ambigua e fantasmatica.

Di tal fatta era anche uno dei due dipinti che Monet si determinò ad inviare al Salon : Les glaçons, oggi conservato al museo di Shelburne, Vermont. Les glaçons fu respinto dalla giuria. Anche se quel quadro, dipinto nel marzo del 1880, e raffigurante il lento sciogliersi dei ghiacci nella Senna verificatosi tra gli ultimi giorni di dicembre del ’79 e i primi di gennaio dell’anno successivo, non poteva essere, evidentemente, e non solo per le sue dimensioni che superavano il metro e mezzo di base, dipinto en plein air : anche se, dunque, già in esso Monet rinunciava in maniera del tutto esplicita a quel canone di pittura che era stato fondante dell’esperienza della pittura impressionista14.

Si voleva da lui un passo ulteriore : e Monet lo compì con Lavacourt. Che è un paesaggio,  composto in atelier, di puntuale e fin pedante vocazione “realista” ; che s’appoggia ad una descrizione esattissima e minuziosa di ogni particolare ; che utilizza un ampio registro cromatico, alieno da ogni arbitrarietà interpretativa ; che attenua, fino a renderli accademicamente plausibili, i reflets, quei riflessi delle cose sull’acqua o sul manto nevoso che erano stati, per Monet e per Renoir, a partire dalle opere dipinte assieme alla Grenouillère nel ’6915, un formidabile strumento eversivo di ogni poetica banalmente naturalista ; e che, soprattutto, rinuncia in toto, con l’adozione di una spazialità profonda ed esperita attraverso accorgimenti prospettici, a quell’imperio della superficie come unico luogo della pittura che era stata (e tornerà presto ad essere) la conquista più straordinaria della pittura di Monet, per ritornare alla concezione del quadro come finestra oggettivante aperta sul mondo.

Lavacourt fu accettato, ovviamente. Contemporaneamente, può dirsi che la prima stagione del paesaggio impressionista abbia termine con questo quadro : e che proprio la lucida consapevolezza che Monet ebbe di questo cruciale passaggio della sua pittura lo spinse, per contrappasso, a testimoniare a Emile Taboureux, che lo intervistava il 12 giugno su “La Vie Moderne”, la sua resistente fedeltà ai principi estetici del primo impressionismo16.

Surtout ne mettez pas le grand Lavacourt qui a été au Salon” : due anni dopo averlo dipinto, Monet ha già in uggia quel suo quadro, e invita Durand-Ruel, che si sforza di superare i veti incrociati e gli ostracismi che ormai dilacerano “le groupe ancien” dell’enclave impressionista, a non esporlo nella prossima mostra del gruppo17, che egli sta preparando fra mille difficoltà soprattutto per rientrare almeno in parte dei debiti accumulati acquisendo, senza poterle cedere ad egual ritmo, opere di Monet e di Renoir, di Sisley e di Pissarro : imperativo che s’è fatto ora per lui più pressante dal momento che il principale suo finanziatore, la banca dell’Union Générale, aveva proprio allora dichiarato fallimento18.

La settima mostra, per la quale lavorano attivamente Caillebotte e Pissarro, è di difficile gestazione. Il gruppo è ormai diviso in almeno tre nuclei reciprocamente estranei. Da una parte sono Pissarro, Guillaumin e Gauguin ; dall’altra Degas, Raffaëlli e Mary Cassatt (ma gli adepti di Degas rischiavano di lievitare d’ora in ora) ; al centro, se vogliamo, Monet, al cui seguito si ponevano Sisley e Caillebotte, e Renoir, entrambi senza particolari intolleranze (anche se scappò detto a Renoir che “esporre con Pissarro, Gauguin e Guillaumin è come esporre con qualche cellula socialista”19) ma anche assai poco motivati, ormai, a partecipare a quella che per entrambi sarebbe stata l’ultima mostra degli Indépendants (una “stupida definizione” secondo Renoir, che temeva costantemente di perdere al fianco dei vecchi compagni di lotta il nuovo credito che il ritorno al Salon gli aveva assicurato20). Comunque, soprattutto per fedeltà a Durand-Ruel, Monet e Renoir acconsentirono infine a partecipare, sincerandosi soltanto l’uno dell’adesione dell’altro, e questo sbloccò la situazione ; unico assente di rilievo risultò Degas, oltre naturalmente a Cézanne, che dal suo isolamento di Aix-en-Provence s’era dichiarato, al solito, indisponibile (peraltro, proprio quell’anno, per la prima volta e solo per il determinante intervento in suo favore di Antoine Guillemet, membro di una giuria che continuava ad essergli ostile, Cézanne è finalmente ammesso al Salon).

La mostra si aprì, nelle sale del Panorama de Reichshoffen di rue Saint-Honoré, il 1° marzo 1882 ; e questa volta la critica, pur con molte eccezioni, non fu del tutto ostile : al punto che persino Joris-Karl Huysmans, da sempre ferocemente avverso al gruppo e in particolare a Monet, scrisse che il suo occhio, “maintenant guéri, saisit avec une surprenante fidélité tous les phénomènes de la lumière21. Tracciando un bilancio di quella mostra, John Rewald avrebbe poi scritto che  “mai gli impressionisti avevano organizzato una mostra così affrancata da connotati estranei, mai erano stati così puri”22. Affermazione, questa, che risulta essere tanto più vera quanto più s’accetta di stringere la nozione di impressionismo a quella di una pittura che abbia scoperto prima di tutto nel paesaggio le sue ultime ragioni di forma. Perché certo, in quest’ottica in particolare, la settima mostra risultò essere, come nessun’altra, il trionfo del paesaggismo nell’accezione stilistica data al genere dalla nouvelle peinture: quasi che, proprio nel momento in cui tanti fattori diversi cospiravano assieme nell’insidiare l’unità del gruppo, tutti  (confortati anche dalla complice e sagace regia di Durand-Ruel, che ebbe infine una larga delega nell’ordinamento della mostra, nella quale presentò naturalmente  un notevole numero di opere di sua proprietà) abbiano infine voluto giocare – forse consapevolmente per l’ultima volta – la carta della compattezza stilistica che solo il paesaggio poteva consentire.

Monet, che forse per la prima volta in modo inequivoco rivestiva agli occhi di tutti il ruolo di capofila, ebbe il maggior numero di opere esposte, trentacinque : tranne alcune nature morte, furono tutti paesaggi, stavolta recenti o recentissimi, e dai quali la figura umana risultò quasi sempre rigorosamente esclusa (volle, tra l’altro, esporre Les glaçons, il dipinto rifiutato al Salon dell’’80 e nel frattempo acquisito dalla signora Charpentier : come a voler correggere, con questa inclusione e con la contemporanea raccomandazione a Durand-Ruel di escludere Lavacourt, l’indicazione fornita dalla giuria dell’Accademia due anni innanzi). Sisley, come al suo solito, seguì più o meno alla lettera l’esempio di Monet. Renoir preparò una scelta molto articolata di sue opere, incentrate attorno ad uno dei capolavori di quegli anni, Un déjeuner à Bougival (che paradossalmente dispiacque a Huysmans), ma – sottacendo del tutto le nuove tentazioni lineari che s’affacciarono al suo immaginario subito dopo il suo viaggio italiano del 1881, e che gli avrebbero instillato il sospetto che la lunga militanza a fianco della nouvelle peinture l’avesse spinto in un vicolo cieco – presentò molti paesaggi puri e altrettante figure immerse nella natura di dichiarato sapore proto-impressionista (Femme cueillant des fleurs e Femme assise sur l’herbe, ad esempio). Persino Caillebotte mise un poco in sordina le sue esasperate iperboli prospettiche, presentando almeno tre distesi paesaggi normanni.

Proprio la Normandia, nel frattempo, era stata e continuava ad essere per Monet (sarà così almeno dal 1881 all’’83) il vero luogo della pittura : non Parigi, dalla quale pure egli intuiva di non doversi tenere troppo a lungo lontano per ragioni strategiche, ma che ormai da tempo non gli offriva più quegli stimoli visivi ed emozionali che, seguendo Baudelaire, erano stati per lui tanto importanti nel corso degli anni Sessanta; non Poissy, il grosso borgo lungo la Senna, non troppo distante dalla capitale, dove nel dicembre dell’’81 Monet s’era installato con Alice Hoscedé e con i figli di entrambi, e che presto gli era venuto in uggia, fino a sembrargli una condanna alla quale occorreva tentare di sottrarsi al più presto (“je suis tout disposé à faire ce que vous voudrez pour fuir cet horrible Poissy de malheur”, scriverà ad Alice nel marzo ’82)23. E’ invece la costa di Normandia, ove Monet trascorre adesso lunghi periodi – d’inverno da solo, d’estate assieme alla famiglia – il luogo ove sboccia la nuova pittura di questo avvio di decennio : un tempo nel quale Monet riforma, prima istintivamente, poi con sempre maggiore e più lucida  consapevolezza, tanta parte dei canoni formali che erano stati, da lui stesso prima che da ogni altro, posti a fondamento della prima vicenda d’immagine dell’impressionismo.

Fra questi, il più importante è certo quello che prevedeva il plein air come condizione unica della pittura. Ereditato dapprima da Boudin come atteggiamento di massima, garante della sincerità e dell’immediatezza di un dipinto a soggetto paesaggistico ; poi  individuato, nei grandi quadri di figura della metà degli anni Sessanta (dal Dèjeuner sur l’herbe a Femmes au jardin) come passaggio ancor problematico ma ormai totalizzante e irrinunciabile verso una “forma” non più vincolata all’ossequio accademico verso il disegno e il chiaroscuro ; praticato infine integralmente a partire dallo scadere di quel decennio, e lungo tutti i successivi anni Settanta ; contraddetto in seguito prima  episodicamente, e per lo più per mera e occasionale contingenza, dettata vuoi dalle dimensioni del dipinto, vuoi dalla necessità di perfezionare un lavoro in assenza del pretesto visivo che l’aveva occasionato (è il caso, ad esempio, dei dipinti sul disgelo della Senna, dei primi giorni del 1880) ; ma al contempo di nuovo, e non per caso, ribadito con forza, sempre nel 1880, come premessa “ideologica” al proprio lavoro nella attestazione orgogliosamente resa a Taboureux (al quale, indicando con un largo gesto il paese che s’apriva davanti alla sua casa di Vétheuil, disse : “ecco il mio studio”24)  – il plein air segna, in un verso o nell’altro, tutta la vicenda di Monet, dai primissimi esordi e sino a questo termine cronologico dei primi anni Ottanta. Momento in cui, di fatto, esso s’eclissa per sempre. Occorre ribadire ancora una volta : non solo e non tanto come pratica privilegiata di una parte (quella iniziale soltanto, d’ora in avanti) del lavoro, ma, ciò che più conta, come transito concettualmente pregnante, come unica via alla pittura.

Il 2 febbraio 1883, da Etretat, che evocava in lui ricordi emozionanti d’una giovinezza avvertita ormai come lontana, scrive ad Alice, rimasta a Giverny a custodire la nuova casa, il giardino al quale vanno costantemente i pensieri di Monet, i figli : “je suis très content d’être ici et j’espère arriver à faire quelque chose de bien, en tout cas j’apporterai des masses de documents pour faire de grandes choses à la maison25. E’ forse questa la prima del tutto esplicita testimonianza di un lavoro che Monet intende ora distinto in due tempi, egualmente importanti e necessari : un tempo primo di immersione nella natura, dalla quale sempre meno trasceglie immagini curiose di una molteplice varietà di accadimenti diversi, e nella quale all’opposto sempre più coglie una sua linfa profonda e invariata ; e un tempo ulteriore, in cui la “masse de documents” – di immagini come di emozioni – raccolta all’aperto si sedimenta in lungo lavoro d’atelier.

Questo suo nuovo procedere non toglie dunque importanza al rapporto che continua a stringere Monet alla sua natura : che anzi sarà, d’ora in avanti e per tutti gli altissimi anni Novanta, cadenzato in un suo ritmo peculiare e costante. Esso prevede di norma un momento iniziale di primo contatto con un luogo, che frutta un lavoro di orientamento di cui Monet avverte subito, peraltro, e sempre dolorosamente, l’incompiutezza ; e un ritorno, in genere compiuto durante la medesima stagione dell’anno seguente, alle stesse occasioni visive, che gli consente di raccogliere più compiutamente quanto aveva seminato. A queste “campagne di pittura” condotte lontano da Giverny, Monet fa però sempre seguire, ora, un’altra stagione, che occupa mesi o anche anni di lavoro, in cui i dipinti impostati sur le motif vengono perfezionati a studio, ovvero altri dello stesso soggetto vengono ex novo elaborati.

Questo schema di lavoro, per quanto certamente non programmatico (nulla, verrebbe d’altronde da dire, è mai veramente tale in Monet), si configura per la prima volta proprio nei primi anni Ottanta, e prosegue sostanzialmente indifferenziato e senza importanti eccezioni (fra le quali, per ragioni del tutto esterne al processo ideativo dell’opera, la più notevole è quella dei quadri norvegesi, il cui ciclo si aprirà e concluderà nel breve spazio di pochi mesi nel corso del ’9526) almeno fino alle “serie” londinesi, iniziate nell’autunno del ’99 e che Monet considererà terminate solo all’immediata vigilia della loro esposizione da Durand-Ruel, nel maggio del 1904 (non senza che altre vedute di Londra siano iniziate addirittura più tardi, a oltre quattro anni di distanza dall’ultima “campagna di pittura” londinese del 190127).

La rinunzia al dogma del plein air intervenuta all’alba del nono decennio del secolo, se come s’è visto non comporta una recessione della pregnanza di significato del rapporto che lega Monet alla natura, implica invece un rifiuto, che è sin da ora radicale anche se solo in seguito si farà perfettamente consapevole, di un altro canone della pittura proto-impressionista, quello dell’instantanéité, dell’attimalità della visione, da trascrivere sulla tela in modo istintivo e immediato di fronte allo spettacolo di natura. Alla nozione di attimalità un’altra, e per certo verso opposta, subentra ora : quella di enveloppe – di involucro, o di invoglio28 – che comprende una diversa durata, e insieme una diversa qualità di percezione, ottica ed insieme non più soltanto ottica : una percezione dell’oggetto colto nel suo ambiente (voisinage) o contesto (les alentours). Sarà  certo cruciale, per l’integrità concettuale di questa nozione, l’elaborazione della nuova nozione di tempo che si manifesterà compiutamente nella pittura di Monet solo allo scadere del decennio, con l’inizio della “serie” dei Covoni ; ma fin d’ora si rende evidente che la linea di ricerca di Monet lo sospinge in quella direzione.

Non sarà allora per caso che cada in questi anni il primo avviso di un’iterazione del soggetto di un dipinto non banalmente motivato da esigenze, ad esempio, mercantili. Ciò avviene forse per la prima volta nel 1882, in tre dipinti raffiguranti l’Église de Varengeville, vista in lontananza, all’interno di una composizione spaziale abbastanza complessa, inusuale in Monet e che torna identica nei tre dipinti ; un’orditura dello spazio che prevede due pini svettanti sul primo piano, e dietro ad essi un lento digradare della distanza verso l’orizzonte. Le tre versioni dell’Église de Varengeville non saranno esposte assieme (ed è questo un indizio preciso di un’ipotesi mentale – quella della seriazione – non ancora giunta ad ultima maturazione29), ma sono eseguiti su tele di analoga dimensione, e recano significativamente, con ogni probabilità sin dal primo momento, quei sottotitoli, indicanti il tempo meteorologico o cronologico, che negli anni a venire caratterizzeranno le “serie” : rispettivamente temps gris, soleil couchant, à contre jour30. Ed è ben chiaro, allora, come già a questa data – che è la stessa di quella che segna l’ultima partecipazione di Monet a una mostra di gruppo con i vecchi compagni di strada – i modi tradizionali della pittura impressionista stiano traversando un periodo di sostanziale revisione.

Molto dunque, in questi anni, annuncia in Monet il tempo che verrà, e in particolare quegli anni Novanta che segneranno un nuovo vertice della sua pittura. Ma altro s’aduna, ed anzi quasi si affolla, in questo tempo, che se da un canto segna un’ulteriore motivo di frattura con l’opera precedente, dall’altro non troverà un’eco nella successiva e così unitaria stagione, sovranamente governata dal grande, monadico pensiero che sovrintende alla nascita delle “serie” e ne accompagna per oltre un decennio il solare sviluppo attraverso la sequenza ininterrotta degli straordinari dipinti ispirati ai  covoni della campagna di Giverny, ai pioppi allineati sulla riva dell’Epte, alla pietra erosa della cattedrale di Rouen, ai brumosi mattini sulla Senna, alle fantasmatiche nebbie di Londra.

Così che, infine, il torno d’anni che volge da Lavacourt sino alla metà del nono decennio, o poco oltre, può davvero individuarsi come un periodo affatto singolare nella lunga vicenda d’immagine della pittura di Monet : un periodo segnato da ricerche molteplicemente indirizzate ; fortemente confliggente con il tempo trascorso ; e solo in parte inteso a prefigurare assetti venturi. Un periodo che fu probabilmente di grande ricarica per Monet che, tempestivamente intuito il termine ultimo e invalicabile cui erano pervenute le ricerche impressioniste, cercò altrove la sua via. Sondando ipotesi diverse, talune delle quali – a guardarle adesso – persino inattese.

Inatteso fu, prima di tutto, il suo accedere a una gamma cromatica accesa, intensa, variata, ed infine eminentemente timbrica, quanto era stato squisitamente accordato, trasparente, lieve, quasi assopito e fondamentalmente tonale il colore nei dipinti della fine degli anni Settanta : fino al vertice di rarefatta castità cromatica toccato fra ’79 e ‘80 dai quadri di Vétheuil sulla brina, sui ghiacci, sul sole invernale e sul disgelo31.

Un modo, questo, che si manifesta dapprima del tutto episodicamente a muovere dal ’78 (nei due dipinti raffiguranti la Rue Montorgueil e la Rue Saint-Denis imbandierate per la festa del 30 giugno, ad esempio) ; che torna saltuariamente a farsi presente nell’’81, in talune gioiose rappresentazioni del giardino fiorito della casa di Vètheuil ; e che diviene frequente l’anno seguente, in molti paesaggi di Normandia, da quelli della Cabane des douaniers ad altri delle Falaises di Dieppe e Pourville, fino ad alcune nuove versioni del tema già trattato, con intento formale ed esiti stilistici del tutto diversi, dell’Église de Varengeville : vista ora dal basso, con l’orizzonte altissimo oltre il quale scoppia l’azzurro intenso del cielo, e con il monte sul quale s’erge la chiesa divenuto incombente e drammatico, solcato da un colore clamante e aggressivo, denso di luci brusche e corrusche32.

Un modo che raggiunge infine la sua acme nei quadri di Bordighera, concepiti e iniziati da Monet en plein air nei primi mesi dell’’84, e portati a termine – come ormai gli era prassi abituale – al suo ritorno a Giverny, in aprile. Monet aveva conosciuto la costa che s’estende da Ventimiglia a Genova nel corso d’un breve viaggio fatto in compagnia di Renoir nel dicembre dell’’83. Rientrato in Francia, aveva scritto a Durand-Ruel di voler tornare presto a Bordighera, “l’un des plus beaux endroits que nous ayons vus dans notre voyage”. “De là, j’espère bien de vous rapporter toute une série de choses neuves”, gli aveva confidato, raccomandandogli di tacere con tutti su questa sua intenzione, perché intendeva fare il viaggio da solo : “autant il m’a été agréable de faire le voyage en touriste avec Renoir, autant il me serait gênant de le faire à deux pour y travailler. J’ai toujours mieux travaillé dans la solitude et d’après mes seules impressions. Donc gardez le secret jusq’à nouvel ordre33.

La luce mediterranea, che svela e abbacina ogni angolo di quel paesaggio assolato che Monet definisce più d’una volta “ferico”, è certo un innesco ulteriore per quel colore di vampa che egli andava allora sondando, e del quale preavverte il suo mercante, temendo le possibili reazioni del pubblico (“Cela fera peut-être un peu crier les ennemis du bleu et du rose, car c’est justement cet éclat, cette lumière féerique que je m’attache à rendre, et ceux qui n’ont pas vu ce pays ou qui l’ont mal vu crieront, j’en suis sûr, à l’invraisemblance, quoique je sois bien au-dessous du ton34). Ma non è solo, né soprattutto, l’incontro con quella luce particolare a sospingerlo ad attingere una gamma cromatica tanto accesa, quanto piuttosto un’intenzione stilistica che va in questo giro d’anni facendosi egemone : tant’è che le opere di Bordighera saranno esposte, fra la riprovazione di molti (di “brutales peintures de M. Claude Monet” parlerà ad esempio il critico de “L’Estafette” nel maggio 1887, rendendosi interprete dello stupore di gran parte del pubblico35), assieme ai dipinti, tormentati e drammatici, ma appoggiati a un senso del colore e della materia in tutto analogo, immaginati da Monet nell’’86 a Belle-Île, davanti alla furia dell’Atlantico,  lungo una costa settentrionale della Bretagna.

Il colore, dunque, e la materia : magmatica e convulsa, ora, quasi ingovernata, quant’era prima concepita con rarefatta attitudine mentale, condotta fin sul limite dell’assenza. L’uno e l’altra confluiscono, ad un grado di sconosciuta violenza nella pittura di Monet a monte e a valle di questo crinale36, nei dipinti raffiguranti le barche tirate in secco, nei giorni di cattivo tempo, dai pescatori di Étretat. Nell’inverno dell’’85 Monet, costretto dalla situazione meteorologica a trovar rifugio nel piccolo albergo che lo ospita sulla costa di Normandia che tanto ama, vede dalla sua finestra le barche multicolori tirate in secco, i “caloges” (le vecchie imbarcazioni non più atte a prendere il mare che i pescatori rovesciano sulla spiaggia, coprono di tavole incatramate ed usano per ricoverare il sartiame e le reti), i capannoni in pietra costruiti in prossimità del mare, e poco più in là quel mare in tempesta, verde al largo, bianco nelle onde che si frangono sulla riva.

I rossi, i gialli, i verdi smeraldo sono i colori purissimi, accesi, con i quali Monet costruisce questi suoi dipinti ; accanto ad essi, trovano posto gli azzurri, fondi fino al nero : a ricostituire, tutti assieme, una gamma cromatica che scavalca all’indietro il tempo impressionista, o all’opposto preannuncia i timbri violenti di Van Gogh. Un registro cromatico che a questa data non può comunque darsi disgiunto da una presa d’atto, e da una sorta di contrappasso, che Monet attua nei confronti dell’“impressionismo scientifico” di Seurat. Dal quale certamente egli si sente turbato (è la prima volta, adesso, dopo lunghi anni di dominio incontrastato, che la sua leadership all’interno di quella che si comincia a nominare come l’”avanguardia” parigina, con un termine che proprio allora la critica d’arte mutua dal gergo politico, viene messa in discussione dai suoi stessi amici, Pissarro in testa), e rispetto al quale, prima della risposta perfettamente originale e autonoma delle “serie”, Monet immagina due opposti tipi di replica, l’una per così dire onomatopeica che culminerà in dipinti quali il Paysage avec figures del 1888, l’altra per contrasto, che proprio le opere di Étretat inaugurano.

Nelle quali, ad ultima conferma di un modo che visibilmente ormai riforma gli statuti fondamentali della lingua impressionista, torna a farsi presente quella strutturazione prospettica della profondità del dipinto da Monet  sempre rifuggita a partire almeno da quel quadro capitale che è La pie, del 1869 (naturalmente respinto al Salon di quell’anno, e che giustamente Wildenstein situa in perfetta concomitanza cronologica con i quadri della Grenouillère), e qui invece bruscamente riassunta, ed evidente nella proposizione in tralice di tutti gli elementi della composizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

note

 

1 T. Duret, Les peintres impressionistes Claude Monet, Sisley, C. Pissarro, Renoir, Berthe Morisot, Paris, Librairie H. Heymann et J. Perois, 1878.

2 R. Berson, The New Painting. Impressionism 1874-1886. Volume II. Exhibited Works, San Francisco, Fine Arts Museum of San Francisco, 1996, pp. 81-82.

3 Impressionnisme. Les origines 1859-1869, a cura di H. Loyrette e G. Tinterow, Paris, Éditions de la Réunion des Musées Nationaux, p. 443.

4 É. Zola, Manet e altri scritti sul naturalismo, introduzione di F. Abbate, Roma, Donzelli Editore, 1993, p. 97.

5 Idem, p. 86.

6 Dopo il primo tempo di tesa solidarietà che gli era valso le grandi intuizioni del ’66 e del ’68, la frequenza di Zola con l’enclave degli impressionisti (i quali, finirà per dire, “bégayent sans pouvoir trover le mot”) scema, come è noto, rapidamente. D’altronde, dopo la Comune e nel clima di generale ritorno all’ordine che connotò la Repubblica conservatrice, la stessa possibilità di scrivere sulla stampa su argomenti d’attualità era sovente per lui limitata a fogli di provincia. Su uno di questi, il “Sémaphore de Marseille”, cade una delle non frequenti sue note sull’attività del gruppo negli anni Settanta, del quale Zola commenta la terza esposizione. L’articolo, che è ora riportato in Les ècrivains devant l’impressionisme, a cura di D. Riout, Paris, Éditions Macula, 1989, pp. 166-169, comprende un breve ma ammirato commento alla serie dei dipinti sulla  Gare Saint-Lazare esposti nel ’77 da Monet (“Là est aujourd’hui la peinture (…). Nos artistes doivent trouver la poésie des gares, comme leur pères ont trouvé celle des forêts et des fleuves”), ed è particolarmente significativo se si pone mente al caso che proprio la ferrovia sarà al centro di uno dei venturi romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart, La bête humaine (1890). Non molto altro di Monet, dopo quella data e prima della visita al Salon dell’’80, doveva essere noto e presente a Zola.

7 Il tempo certamente breve della concezione e dell’esecuzione del grande dipinto (cm 231×151), attestato da più di una fonte, è in tal modo mitizzato da un recensore del Salon, W. Burger, citato ora da D. Wildenstein, Monet. Catalogue raisonné, Köln, Benedikt Taschen, 1996, v. II, n. 65, pp. 35-36.

8 É. Zola, Le naturalisme au Salon. II, “Le Voltaire”, Paris, 19 giugno 1880, ora in  Les ècrivains…, cit. p. 171.

9 Oltre alla percezione delle fragili ragioni sulle quali poggiava ormai l’unità del groupe ancien dell’impressionismo, cade in quel tempo la morte di Camille, scomparsa dopo una lunga malattia a trentadue anni, il 5 settembre 1879. Monet, sul letto di morte, eseguì un ritratto della moglie (Wildenstein, 1996, cit., n. 543) che, secondo quanto più tardi confesserà a Georges Clemenceau, gli causò un profondo turbamento. Per questo, e ancora una volta per la possibile eco di quel disagio di Monet su Zola e sulla sua opera letteraria, cfr. Hommage à Claude Monet, a cura di H. Adhémar, A. Distel, S. Gache,  Éditions de la Réunion des Musées Nationaux, Paris, 1980, pp. 199-201.

10 É. Darragon, Manet. Chronologie originale. Nouvelle bibliographie, Paris, Librarie Arthème Fayard, 1989, p. 236.

11 La mostra personale di Monet a “La Vie Moderne” aprì il 7 giugno, in coincidenza dunque con il Salon, e ospitò diciotto suoi  dipinti. Per una ricostruzione della mostra e le reazioni poco favorevoli di molti vecchi compagni di strada, primo fra tutti Degas, vedi V. Spate, Claude Monet, Milano, Fabbri Editori, 1993, p. 141.

12 Hommage…, 1980, cit., pp. 220-222.

13 Wildenstein, 1996, cit., nn. 475 e 538.

14 Les glaçons, esposto alla personale de “La Vie Moderne”, fu acquisito per 1.500 franchi, un prezzo assai alto per il mercato di Monet in quegli anni, da Mme Charpentier. Alla stessa cifra d’altronde fu acquistato Lavacourt da Durand-Ruel, che lo vendette negli Stati Uniti nel 1886.

15 Wildenstein, 1996, cit, nn. 133 e 134-138.

16 Spate, 1993, cit., pp. 142-143.

17 D. Wildenstein, Claude Monet. Biographie et catalogue raisonné, Lausanne-Paris, La Bibliothèque des Arts, 1974 (t. I),  1979 (t. II, III), 1985 (t. IV), 1991 (t. V), che reca un’ampia documentazione della corrispondenza di Monet ; la raccomandazione a Durand-Ruel  è in Wildenstein, 1979, II, p. 216, lettera 249, inviata da Pourville in data 23 febbraio 1882.

18 Cfr. Hommage…, 1980, cit., p. 231

19 Spate, 1993, cit., pp. 150 e 326, nota 50 ; Hommage…, 1980, cit., p. 231, nota 6.

20 J. Rewald, La storia dell’impressionismo, ed. cons. Milano, Mondadori, 1991, p. 403.

21 J.-K. Huysmans, L’Art moderne, Paris, Charpentier, 1883. Gustave Geffroy segnalò, con compiacimento non scevro da una punta d’ironia, questa conversione di Huysmans (“que cette conclusion nous réconcilie avec la critique de ce grand artiste personel que fut notre J.-K. Huysmans”), assegnandola al tempo della sesta esposizione degli impressionisti del 1881, alla quale peraltro Monet non partecipò (G. Geffroy, Claude Monet. Sa Vie, son Œuvre, Paris, 1924 ; ed. cons. Paris, Éditions Macula, 1980, 167). Correttamente D. Riout situa l’Appendice in cui sono appuntate queste note su Monet al 1882, in connessione con la settima mostra del gruppo impressionista (Les ècrivains …, cit., p. 303).

22 Rewald, cit., p. 404.

23 Wildenstein, 1979, II, cit., p. 217, lettera 257, inviata da Pourville a Alice Hoschedé, in data 19 marzo ’82. Poco più avanti,  Monet scrive a Durand-Ruel di star facendo di tutto per disdire il contratto d’affitto che lo vincola a Poissy (“le pays ne me va pas du tout et je cherche tous les moyens pour céder le bail ou pour arriver à le résilier, même avec une perte” : lettera 274, da Poissy, in data 27 maggio 1882 ; cfr. Wildenstein, 1979, II, cit., p. 219).

24 Émile Taboureux, Claude Monet, “la Vie Moderne”, 12 giugno 1880, citato in Spate, cit., pp. 142 e 325.

25 Wildenstein, 1979, II, cit., p. 223, lettera 313 ad Alice Hoschedé, da Etretat, in data 2 febbraio ’83, citata in Hommage …, cit., p. 233.

26 Monet arriva ad Oslo nei primi giorni di febbraio del ’95, e all’inizio di aprile è già di ritorno a Giverny, donde scrive a Durand-Ruel di non essere troppo insoddisfatto del lavoro riportato dalla Norvegia, che doveva essere ad un avanzato grado di elaborazione (dovrà comunque “mettre de l’ordre et terminer les toiles que je compte exposer” ; Wildenstein, 1979, III, cit., p. 285, lettera 1291, datata Giverny, 7 aprile 1895) se il 10 maggio di quell’anno otto paesaggi norvegesi fiancheggiavano alla galleria di Durand-Ruel le Cattedrali di Rouen, che Monet esponeva dopo una lunghissima attesa, densa di lavoro in atelier.

27 Di grande importanza è in tal senso la lettera, pubblicata da Venturi (Archives de l’Impressionisme, Paris-New York, 1939, t. I, p. 405 ; poi più completamente riprodotta in Wildenstein, 1985, IV, cit., p. 369, lettera 1787, da Giverny), indirizzata da Monet a Durand-Ruel il 26 ottobre 1905 : “C’est un Pont de Waterloo qui me reste à vous livrer, il m’est utile de l’avoir pour en faire un autre avec fumée, comme vous me l’avez demandé”.

28 J. Salis, Ombre del tempo. I Covoni di Monet, (1991), ed. cons. Siracusa, Tema Celeste, 1992 (in particolare pp. 30 e seguenti) dibatte con acume il tema della nuova attenzione dedicata da Monet all’enveloppe come dato dell’esperienza visiva opposto a una ricerca che registri sulla tela “ciò che viene con facilità, al primo tentativo”.

29 Sarà, all’opposto, una delle condizioni irrinunciabili poste da Monet a Durand-Ruel e a Petit nell’affidare loro le opere concepite in “serie” che esse siano esposte in gruppo coeso e, in taluni casi, persino esclusivo.

30 Wildenstein, 1996, cit., nn. 725-727.

31 Wildenstein, 1996, cit. nn. 552-572.

32 Wildenstein, 1996, cit. nn. 469-470 ; 682-685 ; 731-743 ; 758-759 ; 794.

33 A Durand-Ruel, da Giverny, il 12 gennaio 1884 (Wildenstein, 1979, II, cit., p. 232, lettera  388).

34 A Durand-Ruel, da Bordighera, l’11 marzo 1884 (Wildenstein, 1979, II, cit., p. 243, lettera 442, citata come contenente “en quelque sorte le bilan du séjour en Ligurie” in Hommage…, cit., p. 258).

35 Citato in Geffroy, 1924, cit., p. 184.

36 Forse soltanto nei suoi anni estremi Monet ha attinto un’analoga violenza e quasi cecità nell’uso della materia cromatica : ad esempio in taluni dipinti raffiguranti Le pont japonais o L’allée des rosiers.