‘Nuove radici di Forma’, in ‘Forma 1 : 1947-1997’, Sala Protomoteca del Campidoglio, Roma, ottobre 1997 (Gangemi Editore, 2001)
Può certamente dirsi che “Forma” sia, fra i gruppi di maggior rilievo del nostro rinnovamento artistico di secondo dopoguerra, uno fra i più frequentemente rivisitati dagli studi, dalla memoria, dalle esposizioni che si sono succedute in tempi recenti ovunque in Europa. In grazie, soprattutto, alla personalità forte dei suoi protagonisti, e alla tenace volontà che a lungo li ha motivati a sentirsi legati, affettuosamente legati, alle idee che allora, giovanissimi, essi andavano elaborando in stretta comunanza di intenti e di sentimenti; una volontà d’altronde ancor oggi, a distanza di cinquant’anni da quei giorni, viva e presente, se è vero che questo convegno vede proprio alcuni di loro, in unione con Giovanna Bonesagale e Simonetta Lux, primi promotori di questo atto di rinnovata, giusta memoria.
Parrebbe dunque, alla prima, che poco da aggiungere vi sia, sul piano almeno della mera conoscenza dei fatti. In realtà, ripercorrendo velocemente per questa occasione la densa bibliografia destinata a “Forma” (a partire da quei primi approcci storicizzanti che son stati, in anni ormai anch’essi non più vicinissimi, la mostra e il catalogo, a cura di Maurizio Fagiolo, e con prefazione di Nello Ponente, promossi dall’Arco d’Alibert di Roma nel ’65), mi pare d’aver notato una zona meno esplorata, meno dibattuta, che coincide proprio con i giorni primissimi di “Forma”, con il suo tempo aurorale, ed anzi con quelle che si possono definire le sue scaturigini, o le sue radici.
Scaturigini che non per molto, forse, risultarono a Dorazio, Guerrini e Perilli, a Consagra e a Turcato, ad Accardi e Sanfilippo, capaci di indirizzare ulteriormente la loro crescita, che nel giro di pochi mesi – forse ancor prima che si chiudesse l’anno d’esordio, e comunque entro il successivo 1948 – s’incamminò decisamente verso passi più maturi, verso Magnelli e Arp, verso Hartung e un riscoperto Balla – per dire solo di alcuni fra i nuovi termini di riferimento del gruppo romano -, verso tanto altro avvistato a Parigi, o già a Praga, e poi a Roma stessa. Tutti assieme ancora grosso modo per un biennio; poi, più o meno in coincidenza con il nuovo decennio, ciascuno per suo conto, a confrontarsi ormai con differenti, e in ciascuno cospicue, maturità.
Quelle più remote radici, così, se pur non vi sia stata aperta volontà di reciderle, presto non furono più capaci di trasmettere linfa vitale: altri, e più ampi orizzonti erano venuti, nello spazio di poco tempo, a sostituirle. Così che oggi esse risultano forse rimosse, certo un poco allontanate dalla nostra comune consapevolezza. E’ a dire appunto di queste prime radici di “Forma” che è destinato questo intervento.
Esse si riassumono, sostanzialmente, in due parole: neo-cubismo romano. E in due nomi principalmente, che ne segnano le due sponde opposte, e per molti versi antitetiche: Corpora e Guttuso; ai quali va aggiunto il nome di Venturi. Ma mentre il ruolo di Venturi, quale tramite fondamentale per una prima presa di coscienza, o proprio per una prima e pur imperfetta conoscenza, dell’arte francese, è ovviamente assai presente agli studi sugli anni dell’immediato dopoguerra romano (né potrebbe essere altrimenti, solo che si ricordino le pionieristiche mostre, da lui patrocinate, di semplici riproduzioni della pittura francese contemporanea, a Palazzo Venezia nel marzo del ’46, e a settembre di quello stesso anno, alla Galleria Nazionale, di originali che andavano da Picasso e Braque, e da Matisse e Léger, sino a Manessier, Tal Coat, Singier, Fougeron, Gis chia e molti altri, cioè ai giovani post-cubisti di Parigi) : se dunque il ruolo di Venturi in questa vicenda ci è ben presente, quello di Corpora e Guttuso è di fatto obliterato dalla memoria relativa alle primissime origini di “Forma”.
Per quanto concerne Guttuso, il caso ha una spiegazione fin troppo ovvia nell’ulteriore sviluppo della sua personalità e della sua pittura. Sviluppo che si andava pur ancora contraddittoriamente verificando già nella seconda meta’ del ’47; che è ormai maturo nella prima estate del ’48 (quando alla Biennale egli presenta contemporaneamente opere assai distanti quali il Merlo, già forsepresentato alla mostra milanese del “Fronte Nuovo” dell’anno precedente, e che segna l’apice di intenti formalizzanti nella sua pittura, e Contadino siciliano, che nel tema, se non ancora interamente nelle scelte formali, preannunzia l’incipiente stagione realista; e quando firma, nel catalogo della stessa Biennale, una presentazione alla personale di Picasso apertamente sospettosa verso ogni possibilità di derivare da Picasso una vulgata neo-cubista) ; e che precipita infine verso una sponda contenutistica dopo le cieche e amare polemiche scatenate da Togliatti in margine alla mostra bolognese dell’Alleanza della Cultura, nell’autunno del ’48.
Meno evidenti le ragioni che allontanarono di fatto i giovani di “Forma” da una colleganza con Corpora (con il quale i soli Consagra e Turcato, d’altronde i più vicini a lui per generazione, seguiteranno ad esporre, ad esempio al Secolo, nel febbraio ’49), fino a indurli nei suoi confronti a uno strappo – meno polemico, certo, di quello operato nei confronti di Guttuso, ma pur esso radicale. Forse inerenti, quelle ragioni, alla stessa età ed esperienza di Corpora (“egli, africano, è forse fra noi il più europeo”, ammetteva lo stesso Guttuso nel ’47, presentandone il gruppo d’opere alla Spiga di Milano), il cui approccio ai messaggi neo-cubisti provenienti d’oltralpe, che in questa prima fase sono gli stessi che orientano il primo rinnovamento dei giovani di “Forma”, è fatalmente di natura assai diversa: più smaliziato e consapevole, tutt’altro che fideistico, tutt’altro che connotato come un’entusiasmante scoperta, dopo tante autarchiche chiusure, quale invece era per i compagni di “Forma”.
I lunghi anni trascorsi da Corpora a Parigi nel corso del Trenta (segnati, seppur saltuariamente, come attestano alcune rare sue carte databili alla metà di quel decennio, da un accesso ad un’astrazione persino più radicale di quella neo-cubista) e insieme certo una sua volontà di far pesare questa maggiore e più larga esperienza di vita e di lavoro, scegliendosi di preferenza altre solidarietà (quelle più sperimentate e strategicamente utili che s’aggregano in questi mesi nel “Fronte Nuovo”, e che poi confluiranno negli “Otto”) rispetto a quelle che con maggiore disponibilità avrebbe potuto sollecitare dai più giovani, certo ne fanno agli occhi dei componenti di “Forma” qualcosa di sostanzialmente diverso da un “compagno di strada”.
Diverso l’atteggiamento di Guttuso, che proprio nei giorni della non pacifica costituzione del “Fronte” (dunque nell’ottobre del ’46) si batte apertamente a favore di un’apertura che giudica necessaria ai più giovani, imponendo ad un renitente Marchiori (interprete, certo, dei dubbi in proposito dei milanesi, e forse di qualche veneziano) la presenza di Turcato nel nuovo gruppo (fino a minacciare larvatamente le proprie dimissioni nel caso in cui Turcato non fosse stato aggregato), e segnalando due volte allo stesso Marchiori il nome di Consagra (“uno scultore giovane per me promettentissimo”): giovani con i quali egli sente che il “Fronte” sarebbe più forte e propositivo che con l’adesione di qualche renitente “grande vecchio” come Mafai, Levi o Marino.
Al contrario di Turcato (che, come è noto, entrerà a far parte del “Fronte”) e di Consagra (che invece ne rimarrà escluso), Guttuso non spinge con Marchiori per i romani Dorazio, Guerrini e Perilli, ne’ per gli altri siciliani Accardi e Sanfilippo: che pure, proprio quei giorni d’autunno del ’46, frequentavano ormai assiduamente anch’essi il suo studio di via Margutta: ritenendoli probabilmente troppo giovani per sperare d’essere ammessi. Era certo d’altronde che i rapporti stretti, e pur non privi di tensioni, che in particolare i tre romani s’apprestavano a stringere con i milanesi “astratti e concreti”, li allontanassero di fatto, e di gran lunga, dalle posizioni di Birolli e di Morlotti.
E’ qui, tra parentesi, da ricordare il tono della recensione che Perilli stende per “Forma 1” sulla “Mostra internazionale d’arte astratta e concreta” organizzata da Bill, Max Huber e Bombelli Tiravanti, indicativa del grado di elaborazione teorica del gruppo romano al marzo del ’47. Dice Perilli ad un certo punto : “Vogliamo ora, in poche parole, precisare le divergenze che sussistono tra noi e gli astrattisti, data la nostra posizione pericolosamente vicina a costoro. Gli astrattisti pongono il problema della forma in modo completamente diverso dal nostro e, mentre per noi la forma, per la sua appartenenza alla realtà è considerata nel suo ambiente, quindi interesse plastico per lo spazio e la luce, per gli astrattisti al contrario la forma ha valore in sé, senza porre un’ambientazione di questa, estraendola quindi da ogni problema spaziale e luministico”. E’ ben chiaro che proprio quel “valore in sé'” della forma è quanto, a partire già dal ’48 (dalla primavera, in particolare, di quell’anno, quando Perilli e Dorazio sono per la seconda volta a Parigi, e incontrano fra gli altri Arp, Magnelli, Picabia, Nina Kandinsky), e in grazie al contatto con la cultura visiva francese d’ascendenza dada, e di ceppo concretista, erede di “Cercle e Carré” e di “Abstraction Création”, maggiormente interesserà proprio Perilli e Dorazio, e non diversamente Accardi e Sanfilippo. Ma, soltanto un anno prima, verso quel “valore in sé”, completamente sganciato da ogni contestualizzazione in un’esperienza d’esistenza, i firmatari di “Forma 1” nutrono ancora residui sospetti.
Se leggiamo adesso un passo di quel quasi dimenticato “manifesto del neo-cubismo”, che ebbe al momento della sua pubblicazione, in occasione d’una collettiva alla romana galleria del Secolo nel dicembre del ’46, un forte clamore (fu ripreso testualmente da “La Fiera Letteraria”, e la mostra e l’eco del manifesto giunsero immediatamente dopo a Milano, alla galleria S. Spirito), e che è invece sempre trascurato dalla bibliografia (con l’eccezione di Crispolti, che l’ha segnalato nel suo catalogo generale di Guttuso), scopriamo la sponda probabilmente più prossima dalla quale si distaccarono, pochi mesi dopo, i giovani di “Forma”.
“Personalità di formazione chiaramente diversa”, vi si definiscono i firmatari, che sono Corpora, Fazzini, Guttuso, Monachesi e Turcato: facendo eco al tono del manifesto firmato poche settimane prima dagli “undici artisti italiani”, che avevano attestato di una “sintesi”, fra le loro esperienze, “riconoscibile soltanto nel futuro delle loro opere”. “Ognuno di loro ha alternativamente ceduto alle astrazioni formali e insoddisfatto è ritornato ad affrontare l’oggetto, l’uomo e il dramma dell’uomo nello sforzo di esprimerlo”, si scrive; ma anche, subito dopo: “il piano che accomuna questi artisti … è l’esigenza di esprimere la realtà attraverso il rinnovamento del linguaggio. Tale rinnovamento significa per questi artisti legarsi a quel filone che potremmo definire classico della tradizione figurativa moderna che parte da Cézanne, e si sviluppa nel fauvismo e soprattutto nel cubismo”.
Dunque, con tutta evidenza, si rispecchiano nel manifesto due intelligenze diverse: a Guttuso si deve certamente il riferimento all’uomo, al suo “dramma”, e infine alla “realtà”; a Corpora l’accento posto sulle radici storiche, cézanniane da una parte, fauviste dall’altra, cubiste infine, e soprattutto l’insistenza sulla necessità di un rinnovamento specificamente linguistico.
Per Corpora, il neo-cubismo italiano ha sostanzialmente da stringersi al coevo clima parigino, ben delineato dalle parole di Raymond Cogniat, un critico molto presente anche in seguito nelle vicende italiane, che aveva scritto, in un articolo di grande rilievo per le nostre vicende apparso su “Argine Numero” del dicembre ’45 – Promesses d’avenir chez les jeunes peintres: “s’affirme de plus en plus leur volonté de construire un monde plastique plus soumis a leur vision qu’à la réalité” : con quel “leur” intendendo specificamente il gruppo dei jeunes peintres de tradition française.
Per Guttuso, il ruolo che la realtà aveva da giocare nella pittura rimaneva meno eludibile; ma occorre d’altronde ricordare come egli, di ritorno da un viaggio a Parigi e dal probabile incontro lì avuto con alcuni dei jeunes peintres avesse dichiarato in quello stesso dicembre del 1946 ad uno dei critici a lui più vicini, Antonello Trombadori, (in un articolo uscito su “Numero Pittura”) come “un pittore contemporaneo italiano (…) non può – oggi – non inserire nel suo linguaggio l’esperienza cubista”. In quel momento – e occorre certo far ben caso alle date, ai mesi anzi di ognuna di queste testimonianze: ché tutto è destinato a cambiare in un tempo assai breve – Guttuso è comunque certamente più prossimo ad intendere l’ipotesi neo-cubista in senso francese, e dunque formalista, che non in senso predominantemente realista (come invece avveniva, ad esempio, nell’elaborazione teorica dei milanesi, riuniti – assieme a Vedova – nella stesura del “Manifesto di pittori e scultori”, apparso nel marzo ’46 su “Argine Numero”, dove Aldo Bergolli aveva esplicitamente parlato di “cubismo realista”).
Su sponde distanti, ma ancora fecondamente dialoganti fra loro, si trovarono dunque, fra fine ’46 e prima meta’ del ’47, Corpora da una parte, Guttuso dall’altra, e i giovani di “Forma” in mezzo a loro: che a Guttuso guardano adesso come ad una sponda possibile di dialogo, come al “miglior pittore italiano, e in continuo movimento” (Guerrini, su “Forma 1”), e proprio per questo vogliono “parlargli sinceramente” (Perilli su “Alfabeto”, ancora nell’ottobre del ’47) perché da lui si deve pretendere “molto più di quello che si aspetta da altri”. A “Forma 1”, a quel “milieu d’avanguardia che faceva capo a Guttuso” (Dorazio su “Numero”, ottobre 1951), Guttuso d’altra parte guardava con occhio da un canto benevolmente tollerante, dall’altro interessato a mantenere con le più sicure promesse della pittura romana un rapporto privilegiato di patrocinio. Anche se quella pittura, pur ancora timidamente espressa, cercava già, come rabdomanticamente, qualcosa di ulteriore rispetto ai sapienti compromessi della generazione che l’aveva preceduta.