‘Monet in Italia’, in ‘Monet. Atti del Convegno’, Treviso, Casa dei Carraresi, gennaio 2002 (Linea d’ombra Libri, Conegliano, 2003)

Per due volte Monet lavorò in Italia: nel 1884, poi nel 1908. Sono viaggi, dunque, molto distanziati nel tempo: ma entrambi, come era suo solito, densi di lavoro. Per ogni altro aspetto, i due soggiorni furono in tutto diversi: per lo spirito che li animò, e pervase quei giorni e la loro memoria; per le conseguenze che essi ebbero sulla sua vicenda pittorica; per la qualità stessa dei dipinti che li accompagnarono. Una primissima volta, Monet scese in Italia “en touriste”, con Renoir, nel dicembre dell’83: “partiamo, assieme con Renoir, stasera per Genova”, scrive a De Bellio, da Parigi, il 16 dicembre. E si tratterrà poco: il tempo di rendersi pienamente conto, però, della bellezza della costa, da Marsiglia a Genova, e per determinarsi a tornare presto per una campagna di pittura. Che vorrà fare da solo, stavolta: sono state più volte sottolineate le parole con cui Monet, all’immediata vigilia del suo ritorno in Italia (la lettera è del 12 gennaio ’84), si raccomanda al suo mercante, Paul Durand-Ruel, di non far parola (“à personne”, scrive: ma si intende come la preclusione riguardi soprattutto Renoir) della sua prossima partenza. Circostanza singolare, questa, per la perentorietà con cui Monet la significa a Durand-Ruel: dal momento che, sempre ma in particolare a quella data già molto avanzata nella vicenda della coinè impressionista, Renoir è il compagno – l’unico, ormai – nei confronti del quale in numerosi altri frangenti Monet ha dimostrato e dimostrerà un’intera, profonda, affettuosa stima, scevra sempre di ombre pur nel riconoscimento di una strada diversa.

Così che il suo confessare a Durand-Ruel non solo che “mi sarebbe d’impaccio al lavoro fare il viaggio in compagnia”, ma anche che quest’evenienza sarebbe “altrettanto funesta per l’uno e per l’altro”, non può non far supporre che Monet s’attendesse molto dal suo solitario lavoro da compiere a contatto con il paesaggio mediterraneo, avendo in qualche modo fastidio, e quasi spavento, di fronte alla prospettiva di condividere le nuove scoperte con Renoir. Il quale, non va dimenticato, del viaggio fatto con Monet, aveva scritto anch’egli – da Genova – in termini entusiasti a Durand-Ruel (“Tutto è stupendo. Orizzonti incredibili. Stasera le montagne erano rosa”), alludendo esplicitamente al proposito di tornare, assieme a Monet, per un periodo più lungo (e facendo cenno tra l’altro ad alcuni rapidi e non conclusi episodi di pittura che entrambi avrebbero tentato fra Hyères e Bordighera).

In definitiva, dunque, non c’è dubbio che Monet abbia provato adesso una sorta di ‘gelosia’ per il compagno – forse riconsiderando come in altre campagne di pittura condotte gomito a gomito (a partire, chissà, da quel lontano ’69 e dalla festosa rotonda sulla Senna della Grenouillére) la partita del dare e dell’avere si fosse svolta, ai suoi occhi, in una direzione piuttosto che nell’altra… Ma, oltre ad avvalorare quest’ipotesi (che non cozza d’altronde con il carattere di Monet e con la sua consapevolezza di vivere adesso un momento decisivo per la sua carriera), le istanze di segretezza manifestate a Durand-Ruel stanno ad attestare della grande concentrazione con cui Monet intraprese il viaggio in Italia, che veniva a coincidere con una stagione sua che già da qualche tempo (e segnatamente almeno dall’82) l’aveva visto sondare la possibilità di adottare un colore timbrico, acceso, portato sovente sulla tela in gamma variata e cozzante. Persino a costo di discostarsi da quella pittura di rarefatta luminosità e di perfetta orchestrazione tonale attorno alla quale s’erano ad esempio dipanate le tele recenti sul disgelo della Senna – quelle tele “de mon gout à moi”, sentite dunque come interamente sue, che erano però risultate sgradite al pubblico più vasto e più ‘borghese’ al cui giudizio adesso Monet mostrava di tenere. Ed è assai probabile, allora, che la veloce incursione del dicembre ’83 compiuta nella luce mediterranea gli confermasse una linea di ricerca già avviata ed avvistata come feconda di possibili sviluppi, ad esempio, già in alcune versioni de ‘La falaise à Dieppe’ o dell’‘Église de Varengeville’.

Gli anni Ottanta sono, per Monet, anni di curiosità infinite e di strade, anche, fra loro conflittuali, che si aprono e si chiudono improvvisamente: anni in cui (e ciò diventerà esplicito al tempo dei quadri di Belle-Île, quando a Durand-Ruel che dubita di quella sua strada e lo sollecita a un nuovo incontro con il solare Mediterraneo, egli risponde – certo suggestionato anche dalla lettura di ‘Une vie’ di Maupassant – che è compito di un grande paesaggista confrontarsi con ogni chiave emotiva della natura), al tramonto di quella incontrastata fiducia nell’“impressione” sulla quale egli stesso aveva tanto prima fondato la sua pittura, e in attesa che fosse piena la consapevolezza dei dipinti in “serie” (i ‘Covoni’ prima, poi i ‘Pioppi’, le ‘Cattedrali di Rouen’, sino alle prime ‘Ninfee’), tante suggestioni diverse gli si fanno compresenti. Dentro questi anni, dentro questo lungo, affannato decennio ove paiono volersi scrivere assieme destini differenti, l’esperienza del Mediterraneo costituisce una tappa rilevante. Che frutta, subito, quasi cinquanta dipinti (intrapresi “sur le motif” e terminati tutti, come ormai gli era usuale, da un lungo, proficuo lavoro in studio); e che nel tempo a venire lo renderà più agguerrito nella sua ‘risposta’ a Seurat, la cui personalità egli avverte, già prima dell’86, come la prima grande insidia al suo ruolo di capofila della nuova pittura, e al quale opporrà sovente, oltre che una materia stesa in affanno e lontana da ogni sapienza ‘scientista’, un colore incendiato, clamante, che rammemora il trionfo cromatico di un’Italia indimenticabile, trapunta di “blue et rose”.

Passò molto tempo prima che Monet tornasse in Italia. Tutto era cambiato, per lui e per la pittura. Nel 1906 dieci quadri di Cézanne esposti al Salon d’Automne avevano indicato la strada maestra che la vicenda delle arti avrebbe preso nell’immediato futuro: almeno, di lì alla guerra. Nell’ottobre dello stesso anno, Cézanne moriva; e l’anno appresso una grande retrospettiva ne sanciva il definitivo riconoscimento. Nascevano, da una costola di Cézanne, ‘Les demoiselles d’Avignon’ di Picasso. Monet, per la prima volta, sapeva di non essere più riconosciuto come il capofila dell’avanguardia; una critica divenuta diffusamente scettica sul suo lavoro (puntualmente, ora, paragonato con quello di Cézanne, nel quale era ormai divenuta moneta corrente ravvisare, più che la sola capacità dell’occhio o il talento della mano, l’esplicazione di un pensiero costruttivo di forma) lo confermava nella sua amarezza. Rinviò, più del solito, la personale dei ‘Paysages d’eau’ da Durand-Ruel. Avvertì, con allarme sostanzialmente ingiustificato e un disperante carico d’ansia, che la vista l’avrebbe presto abbandonato.

Il viaggio a Venezia venne dunque, nel 1908, al culmine di mesi di profonda sofferenza. Il soggiorno si protrasse da fine settembre ai primi di dicembre: e quello che doveva essere soltanto un viaggio di svago, divenne un periodo d’intenso lavoro. Monet arrivò a rimpiangere di non essersi recato lì, nel grembo d’una luce capace di scancellare persino le architetture, quando – più giovane – avrebbe più osato. Imbastì i suoi dipinti: sui quali si riprometteva, al solito, di tornare a lavorare a studio. Ma, forse sedotto dai luoghi, forse pensando alle difficoltà che il lavoro sulle ninfee gli proponeva, condotto com’era su poche occasioni visive trascelte nel giardino di Giverny, egli tese piuttosto a catturare impressioni che non ad approfondirle. Tanto che, nei trentasette dipinti impostati a Venezia registrati dal catalogo generale, sono ben dodici i soggetti diversi raffigurati. L’idea di serie è dunque qui, per la prima volta negli ultimi due decenni, drasticamente riformata.

Non solo: quelli che erano i dubbi consueti e sempre ricorrenti sulla bontà del lavoro ulteriore condotto nell’atelier di Giverny sulle tele abbozzate “en plein air”, assumono questa volta un peso assai maggiore, che giunge a interdire di fatto quel lavoro teso ad omogeneizzare i vari dipinti, e a ricondurli in sostanza ad un’unica opera. Per questo, soprattutto, i dipinti veneziani non ci appaiono oggi iscrivibili fra i vertici della straordinaria età tarda di Monet. Per questo, probabilmente, in particolare dopo la morte di Alice, Monet denunciò a più riprese nei loro confronti la sua disillusione, rinunciando a lavorarli ulteriormente. E quando essi infine furono presentati da Bernheim-Jeune, accolti da un imprevisto successo di stima testimoniato da un ‘fronte’ critico singolarmente ampio (da Signac ad Apollinaire), Monet seguitò a considerarli non altro che “souvenirs”, e a dichiararsi totalmente indifferente alle lodi fatte ad essi dagli “idioti”.