L’ultimo Mafai
Cancellare la memoria
Il primo strappo fu quello del 1957: dato alla Tartaruga, dove Mafai aveva già esposto due anni prima. Allora (febbraio ’55), era stato accolto dalla critica, dal pubblico con quel rispetto che si doveva al pittore cui, pur essendo anagraficamente ancor giovane (aveva da poco varcato i cinquant’anni), non v’era chi non riconoscesse il ruolo di capofila della pittura romana, antinovecentesca prima, realista poi. I riscontri alla mostra del ’55 pagavano peraltro pegno alla prassi retorica dell’epoca, che prescriveva alla critica un apprezzamento mai interamente privo di riserve: così, concordi tutti che la posizione di Mafai fosse rimasta quella “di sempre, che è una delle più alte raggiunte dall’arte nostra di oggi” (Fortunato Bellonzi), vi fu chi limitò il modo attuale per scarso coraggio nel perseguire entusiasmi neo-realisti (Antonio Del Guercio, Antonello Trombadori), e chi all’opposto vide nei dipinti più prossimi a quel ‘realismo’ (il Suonatore di fisarmonica, l’Autoritratto con l’ombrello) momenti di stanchezza d’un Mafai che si voleva indissolubilmente legato alla pittura di paesaggio e di natura morta (Marcello Venturoli, Virgilio Guzzi, lo stesso Bellonzi).
Ma erano state oscillazioni d’approccio critico tutto sommato di poco momento: interessate, si direbbe, più a ribadire le proprie posizioni, appoggiandole sul corpo vivente della pittura di Mafai, che non ad ascoltare le ragioni di un mutamento in atto nel pittore, che per allora covava ancora sotto la cenere. Proprio a cavallo del tempo della mostra del ’55, alcune pagine del Diario testimoniano d’un malessere nuovo che va affacciandosi in Mafai, e che per adesso corrode le certezze d’un tempo, senza offrirne in cambio altre. “Un nuovo rapporto fra l’uomo e l’uomo e la società – appunta a fine gennaio – soltanto questo può salvare la decadenza di oggi”. Ma questo rapporto nuovo, che l’istanza realista ha configurato, non ha dato il frutto sperato. “Che uso è stato fatto di questa forza?”, si chiede così, sempre nel Diario, in marzo: “Io direi cattivo. Così che lottando contro il formalismo si è arrivati ad essere più formalisti degli astrattisti e in certo modo più sciatti”. La personale alla Tartaruga del ’55 non fa ovviamente in tempo a registrare pienamente quanto proprio allora sta maturando nel pensiero di Mafai, e non ha ancora se non in minima parte toccato la pittura. Così stupì la conversazione che egli tenne alla Tartaruga, proprio all’avvio del 1957: Il nulla + 1. È un pamphlet tagliente sul realismo: su quella che, s’era detto, era stata la sua dimora negli ultimi anni. “Il figurativo, abbandonati i caramellosi e falsi lirismi, è sfociato nel cosiddetto realismo cercando di darsi un atteggiamento virile per mascherare le debolezze interiori. In sostanza si tratta di rimanere fedeli alla cronaca e al reale (la realtà è un’altra cosa, la realtà è stato il cubismo che rimane l’ultimo atto di fiducia negli uomini e nelle cose, con la sua volontà costruttrice). Il realismo invece, in una forma più o meno volgare, più o meno di cattivo gusto, rinuncia a proposte artistiche e si dà ad una interpretazione più o meno tendenziosa di carattere politico-sociale. Situazione questa che ogni giorno perde di convinzione e diventa un atteggiamento di maniera”.
Infine, il 3 aprile del ’57 tutto precipita.
È Lionello Venturi a patrocinare il nuovo corso della pittura (e a leggerlo indotto dalla “costituzione di uno stile”, com’egli scrive nella breve introduzione in catalogo: assegnandogli dunque una valenza programmatica, che d’altronde il dettato e il piglio de Il nulla + 1 confermavano) che Mafai presenta alla Tartaruga prima, poi l’anno appresso alla Biennale di Venezia – 13 opere, tutte datate tra ’56 e ’58, con presentazione ancora di Venturi. Che ha nel frattempo dedicato a Mafai un lungo saggio su “Commentari” e un capitolo nel volume, edito da De Luca, Pittori italiani d’oggi, nel quale lo studioso riunisce coloro che a quella data giudica i paladini del modo “astratto-concreto” di cui era andato tracciando dall’inizio del decennio i confini e le peculiarità, costituite da un bilico mantenuto fra realtà esperita e sognata, fra un’emozione scaturita dall’incontro con l’occasione di natura e un più riflessivo ricorso ai puri atti e strumenti castamente formali della pittura. “Nel Paesaggio romano del 1956 c’è solo il vibrare cromatico, cioè la vita delle cose senza le cose, la grandezza infinita della città senza la città”: bastò questo, perché Mafai (che aveva in tal modo “risolto per sé, in modo pieno ed esemplare, il problema dell’astratto-concreto”, scriveva ancora Venturi) fosse messo all’indice; meglio, perché cominciasse quel generale lamento sul suo buon tempo andato, e ormai irrevocabilmente perduto, che lo condurrà presto – con un’acme toccata, come si vedrà, nel ’64, in occasione della sua ultima personale all’Attico di Bruno Sargentini – sino ad un margine, di fatto ininfluente, della vita artistica romana.
A rileggerla oggi, quella condanna così unanimemente pronunciata (con Guzzi e monsignor Francia che andavano a braccetto con Trombadori e Micacchi), pare poco meno che assurda. Spiegabile solo con l’astio che “il massimo paladino italiano dell’astrattismo”, come Venturoli definisce non senza animosità Venturi, sapeva suscitare, alla sua destra come alla sua sinistra. Varrebbe quasi la pena di dimenticarla, quella povera polemica, o di ascriverla soltanto alla storia della critica: non fosse per quanto seppe incidere allora sull’animo del pittore, confermandone l’amarezza dell’animo, e una fonda solitudine, che presero a montare, progressivamente, da disagiata condizione esistenziale a metro di forma. E non fosse per la riduzione certa che quelle polemiche apportarono al credito e alla fortuna di Mafai, quantomeno in quel transito mercantile che s’è poi verificato per ciascuno essenziale anche per più durature conferme di valore.
Poco meno che assurda perché, in primo luogo, il modo che Venturi nominava “astratto-concreto” non poteva, a quella data, dar più scandalo ad alcuno: ed era anzi – a tanta distanza di tempo dallo scioglimento del gruppo che più d’ogni altro se ne era fatto interprete, il “Gruppo degli Otto” – una battaglia, quasi, di retroguardia, particolarmente in una città come Roma, che aveva visto crescere negli anni Cinquanta ormai prossimi al tramonto una straordinaria concentrazione di volontà assai più eversive, di linguaggi ben più radicalmente innovativi. E, ancora, perché poteva e doveva (e certo solo il battesimo propostogli da Venturi velò questa realtà) a ciascuno risultare evidente, sin da allora, quanto il “nuovo” modo di Mafai fosse intimamente consequenziale a tutta la sua vicenda. Quanto, in particolare, quei panorami romani, quei mercati, quei fasci d’erba dove una materia cromatica fattasi ora brulicante, eccitata, franta e dispersa in cento rivoli costituisse sì un passo ulteriore mosso dal pittore, ma nella direzione medesima del colore avvistato, già, nei tasselli cromatici giustapposti delle Demolizioni. E poi confermato da tante vedute di Roma colte rapinosamente dall’alto, e disposte, fin dai primi anni Quaranta, in tre fasce spaziali successive: con lo spalto unito del primo piano; la distesa, segnata appena da passaggi rapidi del pennello, dei tetti e delle cupole; e laggiù il filo dell’orizzonte, sempre tenuto alto, a lasciare in vista un lembo di cielo soltanto: stranito, incombente. Bastavano davvero, ora, il Paesaggio romano del ’56, o quei Fiori dell’anno appresso, riprodotti sul piccolo catalogo della Tartaruga – solo più fittamente raccolti contro il fondo d’un incredibile viola (che ha inventato Mafai, e “che sarà poi solo di Turcato”, come annotava Gualdoni), più asserragliati a figura che non fossero i fiori riuniti nel celebre e da tutti amatissimo Cestino del ’38 – a dare scandalo?
“Quadri astratti”; Mafai, scrive Attilio Bertolucci nella bellissima pagina che introduce la sua terza mostra alla Tartaruga, “ha accettato l’aggettivo ormai d’uso comune, rifiutando le precisazioni sottili”. Bertolucci vi ricorda l’amore di Mafai per Roma, e l’amore della città per il suo pittore; e la possibile delusione di vederlo, ora, diverso: “ma è un male non poter più leggere, nei quadri, le cose, quando vi si legge, senza possibilità d’equivoci, la vita? Una vita così impetuosa e tenera che viene di pensare come soltanto uno che ha dovuto, forse nel profondo ha voluto, conoscere la morte, poteva arrivarci”. Una folgorante intuizione, questa, capace di svelare quanto, d’ora innanzi, la vita saprà premere sull’evolversi della pittura di Mafai.
È dicembre, quando la mostra si apre. Poco avanti, in luglio, Mafai ha annotato sul Diario: “E ho domandato a me stesso di sapere cosa volevo, sentivo esprimermi e d’inventare senza falsariga e di camminare solo, di scrivere con la pittura, col monologo. È più chiaro, puoi arrivare a toccare i suoni dell’impossibile, i confini della conoscenza, i limiti dove non c’è storia che ti aiuta”. Ha traversato una malattia; sente la vita alle spalle (“E il futuro è limitato. Cosa farò con i 10-15-20 anni che mi rimangono”); avverte, ancora più forte di quanto l’abbia mai sentito dopo la morte di Scipione, l’unico amico con cui abbia davvero spartito pensieri sulla pittura, un bisogno d’appartatezza, di silenzio: “di camminare solo”. Ha elaborato, adesso sì, quel sentimento complesso, fatto assieme di consapevole disincanto, di panica tristezza e di lontananza dal rumore del mondo, che è stato spesso, forse impropriamente e certo semplicisticamente, inteso soltanto come un sentimento di “malinconia”: impropriamente perché Mafai non guarda ora, né guarderà più tardi, al suo passato, alla giovinezza, come luogo perfetto della gioia; e vorrà sempre, sino all’ultimo, costruire un futuro. Ci vuole coraggio, d’altronde, ora, per accettarsi “astratto”.
I dieci quadri che presenta a Roma nel ’59, così come i dodici (solo in minima parte gli stessi, a dimostrazione d’una stagione intensa e felice di lavoro) che, nell’aprile dell’anno seguente, faranno la personale milanese della galleria Blu, introdotta da Marco Valsecchi, segnano un ulteriore stacco rispetto a quelli inviati alla Biennale del ’58. Fin dai titoli: che rinunziano per la prima volta a riferirsi ad un ordine naturale e, lontani dal testimoniare l’intenzione ironica che è stata a volte ad essi riconosciuta, dicono di commosse attitudini dell’animo: di speranze, disillusioni, memorie (Ciò che rimane è ancora possibile, Meglio non pensarci, Graffiare come vivere, Un po’ di volontà).
Matasse di colore, serpentinanti sulla superficie, sulla quale le deposita un segnare affannoso (E perché agitarsi) ovvero, più spesso (Cancellare la memoria, ad esempio, e Ciò che rimane, o La respirazione del sangue), pareti lungamente tormentate di colore rugginoso, opaco, donde trapelano, affiorando in punti, lenti bagliori di luce (una luce “quasi impazzita per non aver più nulla da illuminare”, scriverà Lorenza Trucchi). Venturi aveva fatto cenno, negli Otto pittori italiani, a una loro radice possibile nell’esperienza ormai lontana di quei Jeunes peintres de tradition française che, nell’immediato dopoguerra francese, avevano riannodato all’oggi pensieri cubisti e fauve; e forse qualcosa di Bazaine, o più ancora dell’ultimo Manessier, ricorda ora Mafai. Certo il ‘da per tutto’ che questa pittura realizza – quella spazialità senza fughe e senza orizzonti, satura in ogni suo punto – è, non solo per le dimensioni ridotte dei dipinti, raramente eccedenti il metro, interamente europeo: una spazialità fondata su una scrittura paziente, ossessiva, lentamente rimuginante, non mai espansa verso uno sconosciuto altrove, né potenzialmente indifferenziata, com’era invece nell’all over statunitense. Così che i nomi delle due coste d’oltreoceano (Pollock e Tobey, su tutti) che si fecero dinanzi a questi dipinti, non vale oggi forse la pena ripeterli: l’inattualità consapevolmente sfiorata in queste sue pitture, Mafai certo non la volle mai dipendente da ragioni di forma tutte, per lui, eteronome. “Astratte”, allora, sono (nonostante la prudenza di Valsecchi lo spingesse, nel nominarle, a un ultimo dubbio: “non so sino a qual punto si possano dire astratte. Non perché non lo siano, ma perché ne depassano il senso”, scriveva nel catalogo della Blu), perché rinunciano ultimativamente a un dato di referenzialità naturalista, scegliendo in cambio d’aver per guida l’ingombro intero della vita; e adottano quegli strumenti che – come egli sa da sempre – sono e rimangono gli elementi per lui essenziali della pittura: luce, segno, colore.
Nel maggio del 1960 la mostra della Blu passa alla Bussola di Torino. Quegli stessi giorni Mafai annota sul Diario: “La scelta comporta una rinuncia (…). Ho rotto i ponti. C’è il silenzio attorno a me ma almeno non ho il fastidio delle cose inutili”; ed è difficile sfuggire alla tentazione di stringere queste parole, nelle quali la dimensione amara della solitudine appare per la prima volta accettata, all’ultimo strappo, il più radicale, che Mafai impone, in un qualche giorno sulla metà del 1960, alla sua pittura: e che lo allontanerà definitivamente dalle antiche solidarietà. Nascono allora, le Corde: e dureranno sino alla morte. Non numerosissimi, questi quadri, sono ancor oggi – incredibilmente – di fatto ignoti, almeno fuori da Roma. E a Roma, da quando nacquero, mal sopportati.
Vennero tardi – rispetto a tutto – questi strani dipinti, dove una cordicella, uno spago, s’abbarbicava alla tela, e lì tracciava un percorso breve, flettendosi in un passo di danza, facendo un inchino, stringendosi in un cappio. Il colore si espande, slabbrato e sporco, sulla superficie; si impasta dei suoi vicini; bave e gocciolature lo macchiano, mentre qualche grumo si alza a pasta, in gorghi brevi, in aspri singulti. Sarebbe inutile sperare dalle Corde che non specchino, soprattutto, il dolore di un animo; inutile pretendere da esse algide sintassi soltanto formali. Ridicolo, poi, supporle “in rapporto con”: tutto, quando vennero, era passato; persino Rauschenberg (di cui Mafai, quando più tardi ne conobbe l’opera, alla Biennale del ’64, intese il valore) aveva passato la mano alla pop: che ormai dominava, così diversa, anche l’Europa. E Mafai, che era stato il primo, tante volte, a intuire una forma, un colore, che aveva tante volte aperto la strada per molti, ora certo sapeva che questi suoi quadri erano in ritardo, erano “inattuali”: né li volle, li sperò mai diversi. Sperò appena che fossero accettati: e, se non da pochi, non lo furono. Sperò forse che non sarebbero stati dimenticati, come di fatto, invece, sono: fuori, ancor oggi, dai nostri musei, e da ogni sistemazione storiografica: queste opere sue che, come ha scritto di esse un pittore che sa guardare la pittura, Achille Perilli, restano “forse le più belle, perché tese e drammatiche, di una vita”.
Allora, le Corde parvero, ancora e più dei quadri astratti del ’58, del ’59, un’apparizione anomala, ingiustificata nella vicenda di Mafai. A riguardarle oggi con occhi da cui il tempo ha allontanato la polemica, esse si svelano invece strettamente consentanee ai Fiori, dunque ad uno dei luoghi più riconosciuti ed amati della sua pittura. Di quei Fiori, appuntati nei primi anni Trenta contro un muro assolato, Mafai aveva scritto: “li mettevo lì, come per caso (…) e mi accorgevo che nel disfarsi creavano degli spazi loro particolari, una fisionomia astratta (…)”; e in seguito: “queste esperienze mi rilevavano sempre di più la funzione dello spazio, ed in seguito mi portarono a concezioni sempre più larghe di costruzione e di colore”. Nei suoi Fiori, dunque, Mafai s’apprestava a registrare, soprattutto, uno spazio: a mettere in figura quello spessore d’aria che lentamente scorre fra la corolla, gli steli, le foglie e la parete che li riflette. Così che quei fiori, piuttosto che vivere una loro vita individua e plastica, traggono linfa e ragione d’esistenza dalla sottilissima inframissione spaziale che la loro vita silenziosamente realizza, e che li rende magiche apparizioni, sul baratro dell’assenza. Le Corde, in questa estrema stagione, non sono altro che questo: nuovi steli, e corolle, annegati nel manto del colore, corteggiati dall’ombra, sedotti da una materia che, in punti, le sormonta.
Certo, assieme alla tentazione di affidare alla pittura il fardello di un messaggio, Mafai ha negli anni deposto l’assoluta confidenza nelle ragioni da tutto autonome della forma; sa, adesso, di volere che la vita, tutta intera, con le ombre e le sue scorie, abbia cittadinanza nella sua pittura. Così le Corde, che nacquero forse tentate – quasi – da un gioco al limite della surrealtà (Metamorfosi, ad esempio, del ’60, così prossima a Gorky – l’unico degli ‘americani’ da poter rammentare per questo suo tempo ultimo – che fu esposta in una personale d’opere recenti allestita all’Istituto italiano di cultura di Colonia, dove Cesare Vivaldi le presentò nel ’62; mentre in Italia un dipinto di questa serie finale, Pittura, fu presentato, sempre nel ’62, in una collettiva di pittura italiana e tedesca all’Attico, introdotta in catalogo da Maurizio Calvesi), presto s’intridono di malessere, e di una crescente amarezza.
Così, ad esempio, è già Solitudine: nel magma disorganico del colore, solo una gora di ruggine ingrigita, la mano s’è affannata, ciecamente, senza requie. Né gesto, né segno sono quel solcare, deporre, togliere via l’olio magro, dato e distolto senza voluttà di splendore. Dell’antico prestigio del tono, che quel colore unito del quadro, tenuto su di un unico timbro, sembra non voler del tutto dimenticare, rimane una sapienza ormai inane: come fosse attinta e, subito appresso, lasciata cadere per via: come un abito dismesso. Una figura s’alza a destra, come a interrogazione, o a monito: avvinta alla tela, sporcata anch’essa dal colore. Nessuna concessione al nuovo oggettualismo, sparso ormai ovunque nella pittura, di qua e di là dell’oceano. Solo, proprio come un fiore vizzo stava con il suo corpo fragile contro il muro della terrazza di via Cavour, sta adesso la nuova figura, alzata in silenzio contro la parete chiusa dell’animo. Ancora, è il lento affiorare della luce dal fondo, luce che si fa infine ardita attorno al serpenteggiare della strana figura (e determina gli “aloni che spesso circondano quei pezzi di corda”, scriveva Argan, presentandone con un lungo testo impegnato l’ultima mostra all’Attico), a svelare il vero – ieri era un fiore; oggi una corda tormentata di nodi – che appare infine, spoglio, ferito solo da una densa, vischiosa memoria, sul primo piano.
“Verso quegli amici, verso coloro che hanno amato e amano la mia pittura mi sento debitore di una chiarificazione; molti infatti considerano questa mia nuova pittura quasi un tradimento verso loro e verso me stesso e questo non è vero. Non c’è stata ansia di novità, né vanità di allinearsi su posizioni di avanguardia né interesse nella ricerca verso queste nuove espressioni.
“Io non sono un altro. Ho soltanto rinunziato all’attaccamento affettivo verso le cose, alle piacevoli tessiture, ai pittoricismi squisiti; sono diventato più libero, più nudo, più io”.
E ancora: “ho cercato entro me stesso affidandomi alle corde come alle nervature del mio essere per raggiungere uno spazio, una dimensione nuova”: non si poteva dire più lucidamente il malessere nuovo che gli invadeva l’animo, presago della morte; e l’intenzione di confessarlo con questa pittura bruciata dalla vita; e la stanchezza per la cronaca, per le piccole astuzie del mestiere intese a narrarla, amministrando le quali avrebbe continuato a riscuotere quanto aveva saputo seminare; infine il margine, ancora attivo, di adesione a quei valori formali (intesi principalmente alla costruzione d’una spazialità non meramente naturalistica, ove ora le corde, come un tempo i fiori, potessero vivere) che ne avevano guidato tanto a lungo la pittura. Ma non bastò; non fu inteso: “la mostra è stata inaugurata, molta gente molto vuoto. Adesso si sta spegnendo quel poco di eco. Nessuna cosa incide nessun verbo colpisce”.
Eppure, almeno della disperazione che circondava questa pittura non era difficile accorgersi: di fronte a quelle Corde ultime (Biografia n. 2, Profezia, entrambe del ’63), ad esempio, ove l’immagine s’era fatta scopertamente, dolorosamente simbolica*.
* Nel testo si fa riferimento alle seguenti voci bibliografiche: Mario Mafai, cat., galleria La Tartaruga, Roma, febbraio 1955; M. Venturoli, La lezione di Mafai nella mostra a “La Tartaruga”, “Paese Sera”, Roma, 25 febbraio 1955; A. Del Guercio, Mario Mafai, “Rinascita”, Roma, febbraio 1955; V. Guzzi, Mafai alla “Tartaruga”, “Il Tempo”, Roma, 2 marzo 1955; F. Bellonzi, Cantatore e Mafai, “La Fiera Letteraria”, Roma, 13 marzo 1955; A. Trombadori, La coerenza di Mafai, “Il Contemporaneo”, Roma, 19 marzo 1955; L. Venturi, Mafai, cat., galleria La Tartaruga, Roma, aprile 1957; M. Mafai, Il nulla + 1, galleria La Tartaruga, Roma, gennaio 1957 (edito in Mafai 1902-1965, cat., Roma-Milano 1986, pp. 207-208); L. Venturi, Mario Mafai, “Commentari”, Roma, n.1, 1957; E. Francia, Mafai alla “Tartaruga”, “Il Popolo”, Roma, 9 aprile 1957; M. Venturoli, Mario Mafai e l’astrattismo, “Paese Sera”, Roma, 12-13 aprile 1957; V. Guzzi, Mafai alla “Tartaruga”, “Il Tempo”, Roma, 13 aprile 1957; A. Trombadori, L’universale di Mafai, “Il Contemporaneo”, Roma, 27 aprile 1957; L. Venturi, Pittori italiani d’oggi, De Luca Editore, Roma, 1958; L. Venturi, Mario Mafai, in “XXIX Biennale Internazionale d’Arte”, cat., Venezia, 1958; A. Bertolucci, Mafai, cat., galleria La Tartaruga, Roma, dicembre 1959; M. Valsecchi, Mario Mafai, cat., galleria Blu, Milano, aprile 1960; C. Vivaldi, La nuova alba di Mafai, in Mafai, cat., Istituto Italiano di Cultura, Colonia, 1962; M. Calvesi, K. O. Götz, Mafai, Matta, Bendini, Bogart, Canogar, Hiltmann, Hoeme, Raspi, cat., galleria L’Attico, Roma, 1962; G. C. Argan, Mafai. Opere recenti, cat., galleria L’Attico, Roma, marzo 1964; M. Mafai, Chiarificazione, ibidem; L. Trucchi, L’astrazione di Mafai, “Il Bimestre”, Roma, novembre-dicembre 1964; A. Perilli, [La solitudine di un artista…], in Mafai, cat., galleria Esse Arte, Roma, marzo 1979; M. Mafai, Diario 1926-1965, a cura di G. Appella, Edizioni della Cometa, Roma, 1984; F. Gualdoni, Mafai estremo, in Mafai 1902-1965, cat. della mostra a cura di G. Appella, F. D’Amico, F. Gualdoni, Macerata, luglio 1986; De Luca Editore, Roma – Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1986; F. D’Amico, Mafai estremo: il dolore e l’angelo, cat., Casa del Machiavelli, S. Andrea in Percussina, settembre 1987.
Preziose precisioni bibliografiche ho inoltre desunto da F. Volpi, Il Diario di Mario Mafai (1926-1965). Integrazioni e nuove ricerche, tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 1999-2000; E. Vanzella, Mafai ultimo (1957-1965), tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 2000-2001; e da V. Stefani, La fortuna critica di Mario Mafai, tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a. a. 2001-2002.