‘Morandi e Licini attorno al 1930’ in ‘Licini-Morandi. Divergenze parallele’, Fermo, Palazzo dei Priori e Monte Vidon Corrado, Centro studi Osvaldo Licini (Gli Ori, Pistoia), 2011

Sottoposto nel corso del 1929, il “Questionario” che Giovanni Scheiwiller immaginò e spedì ad un gruppo di artisti italiani (costituito da 19 domande  – riunite in uno stampato di quattro pagine, più una quinta destinata ad una scheda personale –  orientate a conoscere i dati biografici, bibliografici e le fondamentali opzioni stilistiche degli interpellati) fruttò la pubblicazione del volume Art Italien Moderne, edito dalle Editions Bonaparte a Parigi nel 1930 (che approfondisce un tema già affrontato l’anno precedete dalla Galerie Bonaparte in una mostra collettiva dal titolo analogo). Il libro – più citato che conosciuto, anche perché oggi di difficile reperimento – è di grande prestigio nella veste tipografica, ma in verità abbastanza deludente nei suoi contenuti: esso non contiene il questionario, che è evidentemente servito a Scheiwiller solo come orientamento di massima; e vi sono delineate solo per sommi capi, con molte approssimazioni e per un pubblico ad evidenza soltanto parzialmente informato della situazione italiana, alcune delle maggiori emergenze della pittura e della scultura contemporanea (del tutto eccezionali le due pagine destinate ad illustrare rispettivamente Bragaglia e Sant’Elia) nel nostro Paese. Con l’eccezione ovviamente di Boccioni e Modigliani, e di uno dei quattro dipinti documentati di Carrà (Solitude, 1917), quasi tutte le altre riproduzioni si riferiscono ad opere recenti o recentissime degli artisti prescelti, datate o databili agli anni Venti (in genere al biennio che precede la pubblicazione). Il “Questionario” di Scheiwiller e la successiva pubblicazione del libro sono tuttavia un raro momento di incontro, seppur indiretto, fra Morandi e Licini a questa data, in cui quasi del tutto interrotti risultano i loro rapporti; un crinale, questo che unisce secondo e terzo decennio del secolo, che segna l’avvio di un lungo momento (che durerà praticamente sin dopo la seconda guerra mondiale) di separatezza fra i due.

A parte rarissimi casi (quello relativo ad Alberto Magri, ad esempio, toscano ma noto soprattutto a Milano, se non altro per l’approvazione di Boccioni), la selezione dei nomi vi è motivata in prima istanza dal più ovvio dei criteri di notorietà. L’ambito geografico privilegiato da Scheiwiller è quello lombardo: che è anche l’unico sul quale l’autore mostri di muoversi con notizie sufficienti. Diversamente gli avviene, ad esempio, nel fornire indicazioni sul contesto dell’arte a Roma, per il quale  la scelta operata nelle riproduzioni del volume documenta appena, con una cernita abbastanza casuale, Ceracchini e Donghi. Analogamente insufficiente appare la consapevolezza degli ultimi sviluppi della pittura torinese, con Levi e i “Sei” assenti. Su Firenze, l’autore è ancora impreciso: “C’est à Florence – scrive – que se trouve le groupe appelé ‘Selvaggio’ dirigé par Ardengo Soffici. En font partie: Galante, le très bon paysagiste Lega, le xilographe Maccari, Rosai illustrateur original, le sculpteur Romanelli, les peintres Morandi et Semeghini. De ce groupe, le plus original est Giorgio Morandi. Sa peinture est d’un chromatisme exquis, fait de nuances très légères, d’un gout fin et d’une beauté discrète. Il est aussi un excellent graveur”.

Morandi era a quella data, come è ben noto, conosciuto solo in un ambito circoscritto; pochissimi s’erano criticamente occupati di lui, e non tutti in modo perspicuo. Egli stesso, nel questionario rinviato a Scheiwiller, elenca i nomi di coloro che avevano scritto della sua opera: Bacchelli, Soffici, Longanesi, Raffaello Franchi, Maccari, Gino Visentini, Vitali, Carrà, Sandro Volta, Raimondi, Oppo, Beccaria; altrove, nel medesimo questionario, aggiunge Achille Lega e Bartolini, tacendo di Visentini, Raimondi, Volta e Beccaria; nell’un caso e nell’altro mancando di segnalare – e non può essere un caso – De Chirico, che aveva steso la pagina introduttiva alle opere da Morandi presentate alla “Fiorentina Primaverile” del 1922: pagina che, come l’attuale elisione della sua memoria dimostra, Morandi non doveva condividere). La fonte principale che Scheiwiller aveva sottomano è ad evidenza il saggio di Vitali apparso sui numeri 35 e 36 di “Domus”, novembre-dicembre 1930 (o forse le sue bozze: il che pone comunque alla fine dell’anno la pubblicazione di Art Italien Moderne), oltre ad una probabile testimonianza orale di Soffici, che Morandi indicava, sempre nel questionario, come l’autore di una futura “monografia” edita da “L’Italiano” di cui Morandi appunta anche che “Il titolo sarà – Ardengo Soffici – Giorgio Morandi. Cartella di 6 incisioni edita da Graphica Nova di G. Scheiwiller e L. Vitali” (della cartella non si ha altra notizia, mentre il contributo di Soffici – già steso, e approvato da Morandi nel novembre del ’29, previsto in uscita come monografia corredata da ampio apparato illustrativo –  uscì sotto forma di articolo su “L’Italiano” nel marzo del ’32). E fu sostanzialmente da queste fonti (Soffici e Vitali, il cui saggio su “Domus” porta il titolo significativo de “L’incisione italiana del Novecento. I Selvaggi: Giorgio Morandi” – oltre che dall’articolo di Longanesi che indicava Morandi come uno “strapaesano di razza” già nel dicembre del ’28), che Scheiwiller trasse l’erronea convinzione che Morandi facesse parte del gruppo toscano.

Altri passaggi da ricordare nelle risposte di Morandi sono (nel paragrafo intitolato “Biografia”, con particolare riferimento alla domanda “Quali artisti antichi o moderni preferisce?”) i nomi indicati, di Giotto e Masaccio e, fra i “moderni”, Corot, Courbet e Cézanne; assunto ribadito identicamente alla analoga domanda n. 12, ove si specifica che “Cezanne è l’artista che più mi ha interessato ed ha avuto maggiore influenza nella mia formazione”. Ovvia appare poi la renitenza a rispondere al punto 7 (“principali opere in ordine cronologico”): la risposta avrebbe presupposto una selezione ardua a compiersi in un percorso che durava ormai da due decenni. Nell’ambito della elusiva e forse velatamente ironica risposta (“Siccome  alle mie opere non ho mai dato altro titolo che Natura morta, Paesaggio e Ritratto credo sufficiente dire che il mio quadro più vecchio porta la data 1911”) trova spazio però un breve elenco di alcuni fra i  detentori dei “lavori più riusciti”: collocati “dalla Casa Editrice Valori Plastici, dal sig. Martinotti e dal comm. Curzio Malaparte a Roma. Dal comm. Vallecchi e dal pittore Soffici a Firenze. Dal signor Neri a Venezia”.

Ancora da rilevare è la mancata menzione (al punto 9: “principali mostre a cui ha partecipato”) della prima collettiva dell’Hotel Baglioni di Bologna; e infine le risposte alla domanda n. 15 del questionario (“Quale il procedimento creativo?”), che suona laconicamente “Lavoro costantemente dal vero”; e quella data al punto 16 (“Che intende Lei per Arte Moderna?”), alla quale Morandi risponde in un modo che contiene tanta parte del suo ormai definitivamente maturato sospetto nei confronti di ogni schieramento programmatico o bandiera ideologica: “Tutto ciò che oggi si dipinge è moderno”.

Il piccolo quadro di fiori del ’21 donato a Longanesi (Vitali, n. 61 ; con l’ovale in cui è iscritta l’immagine, peraltro, eluso dal taglio che nella stampa ha impropriamente subito la fotografia) è l’unica riproduzione di Morandi che appare nel volume di Scheiwiller: al quale il pittore, abbastanza singolarmente, non inviò la documentazione fotografica richiesta. Diversamente si contenne Osvaldo Licini, che riservò per certo all’interesse di Scheiwiller maggiore attenzione. In due lettere successive del 15 aprile e del 4 maggio 1929, egli annunciava all’editore prima il prossimo invio e quindi la spedizione avvenuta di otto fotografie, due delle quali, entrambe ovviamente figurative, figureranno in Art Italien Moderne (Paesaggio Montefalcone [Il trogolo], Marchiori n. 120, di particolare interesse perché la fotografia documenta il primo stato dell’opera, poi parzialmente nascosto sotto il nuovo intervento probabilmente del ’42, e una Natura morta singolarmente implicata con un’idea di spazialità cubista, Marchiori n. 128)

Le risposte fornite da Licini sono, anche, assai più presenti agli studi; in particolare, sempre ricordata, la risposta al quesito n. 11 (“Stadi della Sua evoluzione artistica”), nella quale sono scanditi i tempi del suo operare (poi mantenuti tal quali da Marchiori, e da tutta la bibliografia successiva: “1913-1915 – Primitivismo fantastico. 1915-1920 – Episodi di guerra (quasi tutti distrutti). 1920-1929 – Realismo?”. Alla domanda n. 5, Licini risponde che predilige Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Greco, Rembrandt, Goya, Courbet, Corot, Manet, gl’Impressionisti, Cézanne, Utrillo, Modigliani, Renoir, Fattori; trascurando il solo Matisse fra coloro che altre sue testimonianze indicano fra i suoi primissimi riferimenti. Rispetto a Morandi, dunque, egli fornisce una ben maggiore ricchezza di indicazioni: pur analogamente indirizzate, rispetto a quelle elencate dal vecchio compagno di strada, e per quanto riguarda in particolare l’età moderna, verso Parigi. Significativa è poi la riposta al quesito n. 15: “lavoro dal vero. Quasi sempre”, dice; in quella limitazione concentrandosi l’abisso che già adesso evidentemente si sta scavando nelle scaturigini più fonde della sua pittura. Uno iato rispetto alla nozione corrente di figuratività che tra l’altro, nel questionario, emerge nel punto d’interrogazione posto a seguire l’indicazione di “realismo”.

Quando a Parigi si pubblica Art Italien Moderne, cosa dipinge Licini? “Non mi meraviglierei se qualcuno riuscisse a documentare che negli ultimi mesi del ’29 e durante il 1930 e poi nel lungo viaggio in Europa, l’anno successivo, Licini non abbia dipinto”. Credo sia da condividere questa intuizione di Zeno Birolli, espressa nel ’76 in Errante, erotico, eretico, ma già maturata dallo studioso qualche anno prima, quando la mostra di Torino, della quale era co-autore, non collocava nessun dipinto al ’29, nessuno al ’30 e soltanto quattro al ’31, e quando lo stesso Birolli situava in questo tempo “lunghi mesi di ricerca e di crisi e probabilmente assenza di produzione”. Comunque, il distacco per dir così ideologico da una pittura puramente mimetica del naturale avvenne prima che egli decidesse di non più esporla, quella pittura; di non mostrarsi più. In mezzo, stanno l’ostilità per la “consorteria e banda di strapaese” (lettera ad Acruto Vitali del 5 febbraio 1930), che sarà sovente suo bersaglio polemico, insieme all’altra idiosincrasia per “quella tendenza oppiacea, Oppo-ista, neo-verista voluta da Efisio tutore-protettore” (a Checco Catalini, 30 gennaio 1931). In entrambi quegli schieramenti, quel che Licini ha in antipatia e sospetto è, prima ancora che la ‘poetica’ (che giudica comunque un retaggio ottocentesco), il senso corporativo, di appartenenza ad un clan, che gli sembra costituire  il principale collante di quelle assise; e che è così lontano dalla solitudine, dall’“isolamento” in cui ha scelto di agire. Tanto che “l’arte per me resta un faticoso problema, ma soprattutto un grave e serio impegno morale di fronte a me stesso”, come scrive ancora all’amico Checco Catalini il 26 marzo del 1931.

Tornando a interrogarsi sui tempi, risulta evidente come il “tedio” prima, il “disgusto” poi, intervennero in Licini prima che egli avesse il cuore di interrompere bruscamente ogni pur labile rapporto, che la sua pittura figurativa gli aveva assicurato. “Sono stato invitato ad esporre al solito gruppo a Stoccolma, Oslo, Copenaghen. Ho accettato”, dice così – nel maggio del ’31 – riferendosi alla mostra itinerante del Novecento Italiano promossa dalla Sarfatti nel nord d’Europa (dove avrebbe naturalmente esposto la sua pittura ‘post-impressionista’): un’adesione data senza trasporto, quasi per necessità.

La lettera del dicembre 1927 che Licini scrive a Morandi, all’antivigilia dunque del rivolgimento interiore che  lo condurrà all’astratto, è ben nota. Solo, non è mai stata sottolineata la distanza che corre fra essa e, ad esempio, le lettere che invia gli anni stessi a Catalini o a Vitali:  dense di forte simpatia, densi ragionari, dolorose confessioni; lettere ad amici, queste – lettera scritta in punta di spillo, cauta e sorvegliata, quella. Minata, anche, da “una qualche intenzionalità ironica”: nel poscritto, e non solo. “Forse tu sarai amico di tutti i collaboratori dell’Italiano”, dice nel corpo della lettera; e poco appresso, nel citato poscritto: “Credo di non sbagliarmi se penso che sarai cittadino di … strapaese?” (che per Licini era, si ricordi, fumo negli occhi). Tenta a volte di recuperare il tempo lontano della gioventù (“Ti ricordi la nostra brigata e che notti?”); giocando, anche (“La moglie, caro Morandi, è comoda, specialmente d’inverno”); ma s’avverte come tutto sia ormai forzato, costruito in una dimensione sempre stata aliena a Licini – quasi tattica.

Nella lettera del 23 marzo 1931 (che conosco grazie alla gentilezza di Marilena Pasquali), scritta all’indomani dell’inaugurazione della prima Quadriennale romana, Licini ha un sussulto d’orgoglio “Il mio nome, sul listone (degli acquisti per la Galleria Mussolini), nella contaminazione dei nomi e degli individui, poteva starci benissimo, perchè so di essere uno dei pochi pittori buoni di oggi”. Anzi, sembra appunto questo – il segnalare a Morandi, che egli evidentemente continua a  reputare ben introdotto e consapevole di quanto “succede dietro le quinte”,  la qualità del proprio lavoro, cosa di cui “ti potrai convincere quando vedrai un insieme delle cose che ho fatto” – lo scopo della lettera, che cade in modo altrimenti poco plausibile in un lungo periodo di silenzio fra i due. Quanto in effetti egli pensasse dell’amico di un tempo – con quella punta d’invidia che, ripetiamo, non gli appartenne in nessun altro momento o contesto – traspare invece da quanto confessa a Catalini in gennaio: lì ove, dopo aver concesso come a mezza bocca che “il più bel ‘pezzetto’ di pittura di tutta la mostra è la fruttiera di Morandi”, scrive: “In mezzo a tutta questa gentaglia Morandi può sembrare un buon pittore, per quanto noioso”.

Al dicembre del ’32 si data il primo esplicito riferimento alla pittura nuova di Licini: egli ne scrive a Scheiwiller, con il quale è rimasto in contatto per perfezionare “lo scambio di un quadro colla Galleria d’Arte Moderna di Mosca” (il Puskin, peraltro, non sembra conservare alcuna opera di Licini), dicendola dapprima “una pittura completamente astratta” e subito appresso “di un surrealismo a modo mio”. “Da due anni” scrive di fare questa pittura, “che non ho mai esposta”. Ma, a confermare i sospetti che il nuovo modo sia stato avviato più di recente, sta il fatto che Licini rinvia la consegna del quadro di qualche tempo, quando due dipinti ai quali sta lavorando saranno asciutti. Non ha, dice, altro di disponibile se non “una dozzina di quadri piccolissimi (circa 30 x 20)”, mentre il resto degli “ultimi quadri si trovano tutti a Parigi”: ma in effetti a Parigi Licini risulta essersi recato solo nel dicembre del ’31, brevemente e soprattutto per rivedere la madre, rientrando in Italia dalla Svezia – ove peraltro, a detta della moglie, aveva dipinto poco e “all’aperto”, dunque ancora dal vero (di questo lavoro sopravvivono solo alcuni paesaggi a matita). È dunque plausibile che il concreto avvio della nuova pittura liciniana sia situabile nel corso del 1932, e non prima.