‘Il paradosso di Schifano, pittore di primo e di secondo grado’, in ‘Il presente si fa storia. Scritti in onore di Luciano Caramel’, Milano, Vita e Pensiero, 2008

Tracciano  un  segno,  indietreggiano, guardano  il  loro  operato inclinando  il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di  nuovo in  avanti,  aggiungono  un  altro segno,  un  altro  colore  della tavolozza,  e  continuano in questa ginnastica  finché  non  hanno riempito  il  quadro,  coperta la tela: il quadro  è  finito:  una superficie  d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una  specie di  recipiente in cui sono forzati e compressi  colori  innaturali, significati  artificiali”: il passo di Piero Manzoni (una sorta  di pamphlet “contro ogni pittore”: certo soprattutto contro il pittore di tradizione astratto-informale, ma non solo), poi divenuto notissimo, uscì su “Azimuth” in  una  data che sembrava fatta apposta per assurgere  a  simbolo: gennaio 1960.

Col nuovo decennio sembrava aprirsi, quei mesi, una nuova era, ferocemente armata contro il passato; e le parole un po’ ironiche e un   po’   messianiche   di Manzoni  parevano   sancire   la   sua ineluttabilità.    Avremmo    saputo   solo   più    tardi    che quell’azzeramento di  ogni linguaggio sino  allora  praticato  che “Azimuth”  predicava; che quel silenzio, quel bianco,  quel  vuoto, quel  bisogno  di  purezza e di pensiero spoglio  e  casto  fino  a rischiare   la  tautologia  avrebbero  fruttato,  negli  anni   che immediatamente  seguirono,  alcune  opere,  e  alcune   esperienze, autentiche  e  rilevanti,  date entro quella  che  sarebbe  rimasta l’ultima  avanguardia  di  questo  secolo,  ma  anche  tanta   vana retorica, e infine una nuova accademia.

Allora, nessuno in fondo lo sospettava: il mondo (quello, almeno in Italia, non grande, attento alle arti visive) era diviso fra chi idolatrava quel rigore  tanto  prossimo  allo  zero, e  chi  –  per  lo  più insipientemente – ne sorrideva. In pochi sfuggirono al bipolarismo obbligato che imponeva fideismo o derisione. In pochi, e quasi tutti  pittori. ‘Vecchi’ pittori, come Fontana, che, dopo aver imprestato la costola necessaria a Manzoni per nascere, continuava gli “olii”,  e le  “nature”, accanto alle “attese”; o pittori giovani, come Schifano.  Che era nato a Homs e non a Soncino, in Africa e non in  Europa:  ma che di Manzoni era quasi esattamente coetaneo.

Mario Schifano viveva a Roma. E a Roma la voce d’oltre oceano arrivava più forte che altrove: in Italia, e forse in tutta Europa. Ma certo quando nel ’59, nel ’60, sbocciava la sua prima  pittura,  egli sapeva  che  a Milano un suo coetaneo, e  un  gruppo,  dichiaravano morta  la pittura come era stata concepita sino ad  allora.  Poteva d’altronde percepire in altri suoi più prossimi compagni di strada (Lo Savio, Kounellis) un’analoga sete di nudità: seppure, a  Roma,  declinata  per lo più con piglio  meno  incline  ad  una definitiva  iconoclastia.

Dentro quei climi Schifano è sbocciato, e ha mosso i primi passi verso  quella  che fu subito  avvertita  come  una  precoce, istintiva, quasi miracolosa ma certa maturità. Con tale felicità, irruenza, grazia (con tale capacità, anche, di porsi duttilmente in bilico tra intenzioni sue – non programmi: ché, sin da allora,  ne rifuggiva  –  ed attese del mondo) da fissare la  sua  immagine  al centro della costellazione dell’arte nuova, nostra ed europea:  con naturalezza,  e  come  senza sforzo.  Stava in un luogo sicuro e protetto, già prima d’aver terminato i suoi trent’anni, Schifano. Gli sarebbe bastato restarvi, restare annidato fra i “monocromi” e i dittici, fra le “insegne” e i “particolari”, fino a sfiorare una figurazione straniata, rinnegata sin nei titoli d’allora (Io non amo la natura): gli sarebbe bastato fermarsi, amministrando se stesso (tanti della sua generazione lo hanno fatto, con profitto), e la sua storia sarebbe stata diversa.

Appena varcata la metà degli anni Sessanta, Schifano dà invece avvio alla sua devianza. Poco importa ragionare se questa devianza abbia preso volto prima nell’esistenza o nella pittura.  Più rilevante è stabilire che i pochi anni trascorsi – nemmeno due lustri  dal  tempo dei suoi esordi – impongono adesso  alla  figura dell’artista  un  canone  completamente  diverso:   definitivamente eclissatosi  il  modello esistenzialista, un altro e  opposto  modo d’essere  sale a norma, presto divenuta stringente, imperiosa,  non eludibile.  E il nuovo modello impone assieme il tono dell’opera e del comportamento; l’elitarismo se ne fa passaggio obbligato; come, sul fronte del confezionamento dell’opera, si fa d’obbligo il beaucoup dire,  trop dire;  mentre  un  purismo  severo  e ammantato,  che  predica  rigore  e  rarefazione,  sale  a   demone incoercibile del nuovo.

Schifano, uomo ed artista, scopre progressivamente la propria indisponibilità   ad  adeguarsi  al  modello  che   va   facendosi dominante. Era stato, assai presto (fra ’63 e ’64 ha personali alla Sonnabend di Parigi e all’Odyssia di New York, tra l’altro), e fin sullo scadere degli anni Sessanta, nel giro delle gallerie di punta (quelle stesse che sarebbero state in grado, poco più  tardi,  di garantire ai loro artisti un vasto accesso al sistema museale europeo, oltre  che, ovviamente, ad una selezionata adesione della critica); ora  tutto è messo in discussione. In parallelo a una devianza esistenziale, un’altra, più fonda, prende corpo. E’ l’accelerazione del fare, che diviene in lui – presto, troppo presto per il mondo – prassi abituale: opposta al canone reticente suggerito e imposto dai suoi anni. Prassi devastante per l’integrità della sua prima collocazione storico-critica, e dunque per il congruo proseguimento delle strategie messe in opera sul suo lavoro. Con gli impliciti corollari (d’ora in avanti sempre divulgati su di lui, in parallelo al crescere dell’immagine letteraria del maudit che gli  precipita addosso) dell’eccesso, della trascuratezza, dello spreco.

Ancora  una  volta, conta poco ipotizzare la  vita  di  Schifano “nemica”  della sua arte. E’ ben chiaro come, da un certo punto  in avanti,  egli  le  abbia  intese  unite,  né  abbia  operato   per distinguerne  le  sorti. Ciò detto, quel che unicamente ha rilievo  è  riconoscere  che il passo diverso (e per qualche verso  opposto  ai “monocromi”, ad esempio, degli esordi) che la sua pittura ha  preso a muovere dagli anni a cavallo fra Sessanta e Settanta attinge  per intero il livello, e l’autonomia, della scelta linguistica:  dunque di   una  nuova  ipotesi  di  forma,  tumultuosa  adesso,   franta, irregolare.

Deposti i  modi  giovanili, con il  concorso  decisivo  di  una straordinariamente  preveggente  intuizione  sul  ruolo  che  media eterodossi   quali   la   fotografia   (ancora una volta:   tutt’altro    che puristicamente  avvicinata in prospettiva storica, bensì  frequentata fuori  e contro  il  suo già aulico asse  paradigmatico:  l’adozione  della polaroid  ne  è  testimonianza estrema  e  certo  intenzionalmente mirata), ovvero la  televisione e il cinema, avrebbero  avuto  sulle  future declinazioni  delle arti figurative, e facendo leva su  quella  sua connaturata  intensità e velocità d’esecuzione, Schifano  diviene adesso un pittore, insieme, di primo e di secondo grado: allo  stesso modo  in cui, nell’interpretazione di Cesare Garboli,  Tartuffe  è attore  di primo e di secondo grado, a seconda che egli  interpreti sulla  scena  il  personaggio di Tartuffe ovvero,  in quanto Tartuffe, simuli.

Prima  controprova  di questa ambiguità che Schifano  mette  in atto  nei confronti della pittura (prima, innanzitutto, cronologicamente:  ma  non solo, vista la durata e il rilievo che essa riveste in tutti i suoi anni maturi ed estremi) è l’adozione deviante e paradossale che  egli fa di uno dei meccanismi cruciali della vicenda delle arti  visive, la  citazione. Schifano cita l’immagine già data (prelevata in  un luogo  e in un tempo della storia ogni volta differente, e  proprio per  questo da intendersi come ai suoi occhi irrilevante:  in  modo affatto   diverso  quel  meccanismo  entrerà  nella   formulazione d’immagine di Tadini o di Pozzati, ad esempio) a partire dalla fine degli  anni  Sessanta;  ma  già prima, e  poi  sempre  dopo,  cita contemporaneamente  i più diversi e cruciali topoi  della  pittura moderna: dallo slancio vitalistico al coinvolgimento emotivo, dalla cecità automatica del gesto al comporre per “serie”, per fare solo alcuni esempi.

Ognuno  di  questi contenuti o modi della  pittura  viene  però sottoposto a un processo di straniamento prima d’aver  cittadinanza piena  nella  pittura  di Schifano: che da  una  parte  si  guarda agire, mima quei percorsi di avvicinamento all’immagine, e  dunque rispetto  ad  essa si qualifica come pittore  di  secondo  grado. Contemporaneamente, d’altra parte, la citazione non comporta in lui nessuna   demistificazione,  nessuna  ironia  destruente,   nessuna dissacrazione  del  modello,  il cui “valore”  non  esce  diminuito dall’atto della ripetizione.

Chiunque  abbia  visto dipingere Schifano sa, oltre  le  parole, questa   sua  doppia  verità:  sa  l’intensità,   l’eccitazione, l’energia  che  qualunque opera, dalla più impegnativa  alla  più banale  (fino  alle  tante serie di telette  che  gli  capitava  di dipingere quasi non guardandole, parlando d’altro, facendo altro, e ripetendo  il  gesto  veloce e meccanico della  mano  sulla  stessa porzione  di spazio della prima, della seconda, dell’ultima  tela), reclamava  da  lui.  Quell’intensità non relativa    dunque alla singola opera (che poteva uscirgli dalle mani così o in mille altri modi; che poteva, ad un limite estremo, esserci o non esserci), ma alla pittura stessa, o meglio  all’atto  del dipingere,  o infine alla vita spesa a fianco della pittura; quell’intensità  aveva certo  il contrappasso di una esibita irriverenza nei confronti  di canoni  secolari: esistenziali, professionali, persino morali.  Ma, ancora  una  volta,  quella  provocatoria  sottrazione  d’aura  non implicava un’analoga elisione di valore.

Se questo è vero, altro ne discende: e cruciale per la dimensione ormai storicizzata in cui occorre ormai collocare la  sua  opera. “Altro” che è prima di tutto una diversa percezione del valore della sua opera dagli anni Settanta in avanti.  È in questi anni, infatti, e solo in questi anni – i lunghi anni considerati, nella nozione critica prevalente, il tempo dello spreco, del disagio, della malattia mortale  di  Schifano  –  che  la  sua  lingua  si  configura  come assolutamente nuova, irrelata a quanto gli era richiesto e a quanto era  da  lui atteso, autenticamente fondante un  modello  altro  di pittura  (che, di fatto, troverà larga eco nella  Transavanguardia italiana  come  nelle  declinazioni di  tanta  pittura  “selvaggia” europea  e d’oltre oceano: senza che queste oggettive  premonizioni Schifano  abbia  saputo  rivendicarle, se non  tardi  e  in  minima parte). Per questo, gli anni aurorali, riconducibili in sostanza ad una   pronta e sagace intuizione del rilievo del new dada statunitense, non devono rimanere, nella nozione corrente, il tempo felice che l’età matura ha tradito.