‘Sous la neige qui tombe sans arret’, in ‘Gli impressionisti e la neve’, Torino, Palazzina della Promotrice, (Libri d’ombra Libri, Conegliano), 2002
“Oggi ho dipinto, per qualche ora, sotto la neve che cade senza requie; avreste sorriso nel vedermi tutto bianco, la barba coperta di pezzetti di ghiaccio a mo’ di stalattiti”: così Monet scriveva a Gustave Geffroy, in una lettera datata Sandviken, 26 febbraio 1895. Da una ventina di giorni, poco più, è arrivato in Norvegia: dove l’ha spinto la preoccupazione di Alice Hoschedé che vuol avere notizie del figlio maggiore, Jacques, trasferitosi ad Oslo (Cristiania, allora): come si trovi, quando progetti di rientrare in Francia. Ma certo, a portarlo così lontano da Giverny che già ama (e di cui non cessa di parlare ad Alice, nelle lettere che le indirizza, secondo una consuetudine ormai antica, quasi quotidianamente), è soprattutto la voglia di vedere quello sconosciuto ‘grande Nord’ che immagina “coperto d’una crosta di ghiaccio e di neve, le case per metà inghiottite, la solitudine, il silenzio, la morte d’un inverno che sembra eterno”, come scriverà Geffroy1.
Qualcosa conferma queste sue attese, mentre qualcosa – alla prima – sembra deluderlo. In parte, i dubbi sono gli stessi di sempre, gli stessi che lo colgono in occasione di ciascun viaggio, che è ogni volta per lui soprattutto una “campagna di pittura”: il paese così diverso, le difficoltà a muoversi in un ambiente che non conosce, gli obblighi sociali cui è costretto a sottostare, la rapidità dei cambiamenti atmosferici. In parte: ma c’è qualcos’altro, a dividere quest’esperienza da altre analoghe sperimentate da Monet nei suoi viaggi precedenti; inerisce sia all’altra e opposta suggestione che gli scende dall’incontro con quel nuovo paesaggio, talora folgorato da una luce tersa e netta che scandisce i profili delle cose e che, davanti al Kolsaas, lo spinge a ripensare al Monte Fuji, a Hiroshige e Hokusai, al Giappone scoperto in gioventù (“si direbbe il Giappone, cosa del resto frequentissima qui”, scrive allora all’altra figlia adottiva, Blanche Hoschedé, che andrà sposa al figlio maggiore di Monet, Jean2); sia – e ciò forse pesa ancor più – concerne la consapevolezza, che presto ha intera, del suo viaggio in Norvegia come esperienza non ripetibile: nella quale tutto il lavoro dovrà dunque essere concluso nelle poche settimane di quel soggiorno. E ciò veniva a confliggere con una prassi che si era talora configurata negli anni Ottanta, ma che il successivo decennio aveva reso normativa. Già nei Covoni, infatti, poi ancora nei Pioppi e nelle Cattedrali di Rouen, per stare solo alle ‘serie’ più celebrate, la “campagna di pittura” prevedeva per lo meno due tempi distinti di lavoro nello stesso luogo, reiterati nella medesima stagione – dunque in condizioni meteorologiche analoghe – a distanza di un anno. Prassi, questa, che si ripeterà identica anche negli anni seguenti: prima sulla costa amatissima di Normandia, a Pourville, dove si recherà nel ’96 e nel ’97, fra fine gennaio e aprile (“avevo bisogno di rivedere il mare”, scriveva a Paul Durand-Ruel3: quel mare che tanto gli era mancato in Norvegia); poi su un braccio della Senna sempre fra ’96 e ’97, in autunno – e verranno i Mattini sulla Senna; infine a Londra, dove sarà per tre anni consecutivamente (dal ’99 al 1901).
Dunque Monet ha coscienza del passo diverso che dovranno assumere le opere norvegesi rispetto alle usuali di quel suo decennio perfetto; ha coscienza del rischio che da quel lavoro possano uscire tele che non siano “ni des impressions, ni des toiles un peu poussés” – né delle impressioni, alle quali ormai non sa e non vuole più fermarsi; né delle tele più finite: sulle quali si stratifichino i tempi successivi del lavoro, e con essi i sensi di un’ideazione più complessa e ambiziosa. Non per caso, uniche fra le opere appartenenti alle grandi ‘serie’ degli anni Novanta, le tele norvegesi saranno consegnate a Durand-Ruel poco dopo il rientro in patria, senza eccessive remore o indugi, e saranno da costui presentate nella propria galleria già nel maggio del ’95, nella mostra stessa in cui trionfarono le Cattedrali: i dipinti ove Monet aveva “cercato l’impossibile”5, quelle tele che per tre anni aveva negato al suo mercante, tornando ogni giorno a riguardarle e perfezionarle in studio, dopo le due campagne di pittura condotte a Rouen nel ’92 e nel ’93.
Un’altra volta, nel prosieguo del tempo, Monet contrarrà in un solo soggiorno una sua “campagna di pittura” lontana da Giverny: a Venezia, nel 1908. Ma allora il tempo assai più avanzato dell’esistenza, un sentimento di stanchezza che provava e, non molto dopo il suo rientro, la morte di Alice Hoschedé, velarono ai suoi occhi di altri rimpianti, di altri e più fondi dolori, la rinunzia al ritmo che, nel precedente decennio, aveva dato alla sua ricerca (e che in un primo momento si riproponeva di rinnovare anche a proposito delle tele veneziane, delle quali scrive a Geffroy che non sono altro, per allora, che “des essais, des commencements”6). D’altronde, l’idea delle ‘serie’, nel tempo estremo di Giverny, perde di pregnanza; altri assilli, diverse – né meno grandi – prospettive motivavano allora il suo lavoro. Ma mentre il giudizio dello stesso Monet sulla sua opera veneziana fu probabilmente severo o per lo meno disincantato, la percezione ch’egli ebbe del lavoro condotto in Norvegia fu complessivamente positiva (tra parentesi, all’esatto contrario dell’accoglienza che pubblico e critica riservarono ai due gruppi d’opere: tiepida quella destinata ai dipinti norvegesi, con tutta l’attenzione catturata dalle Cattedrali, ed entusiastica quella tributata alle opere veneziane, esposte da Bernheim nel 1912).
E ciò senza dubbio perché l’incontro che, in quella terra lontana, egli fece con la neve seppe infondergli fiducia ed entusiasmo. Scrive a Blanche, dalla Norvegia: “avrei tante cose differenti da fare, ed è proprio per ciò che m’adiro di più: perché è impossibile vedere effetti più straordinari che qui. Dico effetti di neve assolutamente stupefacenti, ma d’inaudita difficoltà, soprattutto perché il tempo è mutevole”7. Trova, lì, quell’“immensité blanche”8 che ha da sempre al fondo del suo sguardo. Ritrova, persino, parole antiche, che per altro verso potrebbero, adesso, apparirgli desuete: quando scrive, ad esempio, degli “effets de neige” che scopre nel paesaggio. E sembra di riascoltare, in parole come queste, il pittore che Monet è stato, quando l’impressionismo era ancora da battezzare: quando, sulla metà degli anni Sessanta, o poco dopo, egli dipingeva l’inverno, sulla strada fra Trouville e Honfleur, e prospettive che sfondavano lo spazio al centro, sgusciando veloci verso l’infinito.
Sono quadri, quelli, che cercano, ancora: molto prossimi al racconto raccolto e minuto, sussurrato appena nel biancore che assorbe ogni voce, di certe piccole tele di Pissarro appena più tarde, dipinte a Louveciennes. Talora sono state fatte prossime, quelle prove che sono le prime di Monet pittore di neve, all’incisione giapponese dell’Ukiyo-e che, come è fin troppo noto9, Monet conosceva (anche se rimangono incerti la data e il tramite del suo primo contatto con il mondo di Hiroshige ed Hokusai, le cui incisioni poi largamente collezionò). Certe marine databili al ’66; l’inquadratura analoga dello spazio – alterno fra primi piani incombenti e improvvise lontananze – che sottostà a dipinti fra loro per altro verso assai diversi come Le Jardin de l’Infante o Terrasse à Sainte-Adresse; ma già il nitore con cui si muovono o stanno le Femmes au jardin ovvero Jeanne Marie Lecadre au jardin; e persino un dipinto perduto – in qualche misura programmatico di un’adesione al mondo dell’Ukiyo-e, a giudicare almeno dal titolo – come Tableau chinois où il y a des drapeaux10: sono infiniti i casi, tra ’66 e ’68, che dimostrano un’attenzione all’arte giapponese. Fra i primi quadri di neve di Monet (sorretti, ritengo, da un altro e diverso pensiero, che risale al Pavé de Chailly, allo Chemin sous bois e che è ancora egemone nel Déjeuner sur l’herbe – un pensiero inteso a riprodurre sulla tela quella densità emotiva del paesaggio che più tardi Monet indicherà come “quel qualcosa che sta fra me e la natura”) l’unico che s’iscriva sulla linea di ricerca “japonisante” è forse Les glaçons sur la Seine à Bougival, con le isole di ghiaccio che formano bianchissime figure astrattamente ritagliate sullo specchio dell’acqua11. Dipinto, questo, non per caso diversissimo dai precedenti, come pure dallo straordinario La Pie, che di un poco lo segue.
In questa grande tela (130 centimetri di base; eseguita nell’inverno del ’69 per essere inviata al Salon di quell’anno, ove fu respinta dalla giuria) si riscontra, ancor prima e ancor più che negli studi celeberrimi sull’acqua condotti a fianco di Renoir alla Grenouillère nel settembre del ‘69, un primo, perfettamente compiuto esito della nascente pittura impressionista. Sulla neve, dunque, e non sull’acqua era destinato a compiersi per la prima volta intero quel tragitto di forma che Monet aveva intrapreso, in solitudine, da almeno cinque anni. Sulla neve: non per un caso. Courbet, che fu in quegli anni d’avvio della “nouvelle peinture” guida e termine ineludibile di confronto per Monet e i suoi compagni di strada, aveva dato poco prima, nella sua vasta personale allestita al rond-point de l’Alma nel ’67, largo spazio proprio ai suoi “paysages de neige”. E su quei quadri s’appuntarono gli sguardi di Monet e dei suoi compagni di strada, piuttosto che su altri ove il naturalismo del maestro di Ornans rischiava di farsi aulico e declamato (così apparve – e fu infatti guardato con sospetto dai giovani della “nouvelle peinture”, mentre era ammirato dal sovrintendente alle Belle Arti di Napoleone, il conte di Nieuwerkerke – il nudo carnale, orgoglioso, ‘antico’ de La femme au perroquet, che Courbet, dopo averlo esposto al Salon del ’66, volle porre al cuore del suo padiglione all’Alma). Ed è certo che Monet, nel porre mano alla gran tela con La pie, che fin nelle dimensioni inusitate si riferiva a taluni dei maggiori paesaggi innevati di Courbet, abbia pensato, pur in termini dialettici, a un’opera come La pauvresse du village ove Courbet, senza rinunziare a nutrire il dipinto degli usuali significati simbolici e fin scopertamente ‘politici’ (“un tableau socialiste”, lo definì), indagava gli effetti della luce radente sul manto nevoso12.
È certo, parimenti, che La pie scavalchi infine di un gran passo le ricerche di Courbet, che le aveva dato il primo impulso. E non tanto per essere un quadro interamente condotto “en plein air”: la qual cosa si riflette nell’andamento libero e franto delle pennellate, lasciate evidenti soprattutto sul primo piano (tanto quelle di Courbet appaiono interne al manto della pittura, e quasi in esso nascoste). Né solo per la straordinaria qualità di trasparenza delle ombre, non più che una pausa breve d’accensione cromatica in quel grembo ovattato, silenzioso e tutto percorso da un unico, vibrante diapason luminoso. Ma soprattutto per quel modo che qui Monet trova – guidato dall’istinto, certo; fuori e lontano da ogni progetto: ma pure in maniera ormai del tutto consapevole, e al grado più assoluto – di proporre la sua immagine come invaso spaziale non prospettico, di realizzare in essa uno spazio raccolto, stretto come nel pugno di una mano: ove niente, ormai, ‘accade’; ove nulla ha più bisogno d’essere narrato. È lì, in quel luogo raccolto, al riparo dal rumore del mondo che l’assedia, che la pittura potrà d’ora in avanti vivere; libera finalmente da ogni obbligo referenziale; fatta soltanto di luce, linee e colore tracciati su una superficie.
Per vedere lavori occasionati da un panorama innevato che eguaglino in splendore e lungimiranza il dipinto del ’69, occorrerà attendere il ciclo straordinario dei dipinti sul disgelo, dieci anni più tardi. Ma durante gli anni Settanta Monet non rinunciò, seppur saltuariamente, a confrontarsi con il tema. Ne vennero dipinti, per lo più isolati nei pochi giorni o settimane in cui le condizioni meteorologiche lo consentivano, nei quali Monet sembra riversare le sapienze altrove acquisite, e il frutto di ricerche altrove esperite, piuttosto che farsi essi stessi luoghi di nuove sperimentazioni. Così avviene, ad esempio, in Vue d’Argenteuil, neige che, dipinto durante un periodo di freddo e di precipitazioni nevose occorso nel dicembre del ’74, sembra ripensare – con quel punto di stazione rialzato che adotta, e quell’orizzonte alto donde discende una concavità ampia e capiente: come una pagina che si srotoli lentamente su se stessa – la spazialità medesima che Monet aveva scoperto nelle praterie invase dal sole del magico 1873: in Les coquelicots à Argenteuil, segnatamente, esposto alla prima mostra impressionista del ’74, o ancora ne La prairie, près d’Argenteuil: quadri entrambi ove Monet, in sintonia perfetta con analoghe e coeve ricerche di Renoir, aveva sperimentato ancora quello spazio emozionato e raccolto in un pugno, eminentemente antiprospettico e tutto di superficie, che La pie gli aveva un tempo svelato.
In Vue d’Argenteuil, neige, in altre parole, e non diversamente nel coevo Effets de neige, rue à Argenteuil, quanto più s’ammira è il talento di rendere una distesa spaziale i cui contrafforti, spalti e ancoraggi propedeutici a una ‘normale’ digressione dell’occhio verso la profondità siano come velati, ottusi, sottratti, dal biancore unificante della neve: e come solo il colore e la luce, grigia azzurra nel primo dipinto, dorata nel secondo, consentano quella plausibilità di visione altrimenti interdetta. Con ciò, lontanissimo appare il metro di forma della pittura giapponese, sovente richiamato a proposito di questi dipinti: permanendo in particolare in Hiroshige (Due donne che conversano nella neve, ad esempio) o in Hokusai (Ricostruzione del Ponte di Sano nella Provincia di Kozuke: per dire di due opere segnalate di recente come possibili fonti per Monet13), al di là di mere e peraltro non definitivamente evidenti convergenze iconografiche, un’idea di spazio perennemente in bilico fra primi piani specchianti e profondissimi affondi, curioso sempre d’ogni accidente, favoloso e inemotivo, che ha poco a che spartire con il frangente della ricerca monettiana espresso dagli “effets de neige” degli anni Settanta.
Êglise de Vétheuil, neige, databile nell’inverno tra ’78 e ’79, è fra i primissimi quadri di neve compiuti a Vétheuil, dove Monet si stabilì nell’autunno del ’78, e dove trascorse tre anni che si sarebbero rivelati per molti versi decisivi. La malattia e presto la morte di Camille (settembre ’79), con il conseguente chiarimento della sua posizione nei confronti di Alice Hoschedé si accompagnarono ad una svolta nel suo rapporto con il gruppo impressionista. Indotto certo a quel passo, in prima istanza, dalla risoluzione di Renoir di esporre al Salon del ’78, e soprattutto dal successo ottenuto dall’amico al successivo Salon del ’79 (con il Portrait de Madame Charpentier et de ses enfants), Monet decideva di tornare anch’egli a misurarsi con l’istituzione e con la sua giuria, e contemporaneamente dunque di sottrarsi alle mostre di gruppo di quella che era stata la “nouvelle peinture”. Parallelamente, aveva la prima mostra personale (diciotto quadri esposti alla galleria de “La Vie Moderne” di Georges Charpentier, con prefazione in catalogo di Duret) nel giugno del 1880. Le vendite che vi realizzò, unitamente al riscontro che ebbe una tela importante come Lavacourt al Salon di quell’anno, e presto gli acquisti divenuti nuovamente regolari da parte di Durand-Ruel (oltre ad una situazione complessiva, politica e culturale, che per la prima volta dopo la Comune riammetteva almeno la liceità d’una vocazione moderna) fecero sì che proprio al giro del decennio la posizione, sia emotiva che professionale, di Monet potesse dirsi radicalmente mutata. Al cuore di questo tempo (giugno 1880), l’intervista – di cui difficilmente si potrebbe sopravvalutare l’importanza – rilasciata a Emile Taboureux che lo interrogava per “La Vie Moderne”14 conferma che una nuova consapevolezza del proprio stato lo accompagna, e che sta nascendo quella nuova strategia nel dichiarare da una parte il suo ruolo di capofila nell’avanguardia impressionista e dall’altro il superamento in atto nella propria pittura di quelle ormai lontane premesse.
Quando pone mano ad alcuni dipinti di neve nell’inverno del ‘78-’79, Monet – da poco stabilitosi a Vétheuil – è ancora dolorosamente incerto rispetto ad ogni prospettiva, sia economica che d’affetti. Scriverà la sua disperazione in una nobile lettera ad Ernest Hoschedé, pochi mesi più tardi, in cui, “toutjours et de plus en plus aigri”, sempre più esacerbato, confessa d’essere “assolutamente scoraggiato, non vedendo, non sperando alcun avvenire”, e proponendo al marito della donna che pur sta amorevolmente assistendo sua moglie, e che Monet certamente già ama, di interrompere la singolare convivenza delle due famiglie che da tempo si prolunga e alla quale egli sente di non poter più assicurare il necessario contributo, non soltanto economico ma ormai neppur più di slancio emotivo (“credo che non si possa essere [mia moglie ed io], per voi e Mme Hoschedé, una compagnia piacevole”15). Il lento giro della Senna davanti ai tetti innevati di Vétheuil dice anche, o forse soprattutto, questo stato dell’animo di Monet. L’impressione, l’orgogliosa certezza di risolvere in un attimo l’immagine cede il passo, visibilmente, a un rapporto più pensoso con l’occasione visiva: così, la velocità con cui sono tradotti, sul primo piano, i riflessi della neve sull’acqua s’eclissa, in alto, nelle stesure rilassate del colore quasi uniforme, ove una luce lenta e grigia si fa esclusivo argomento narrante del dipinto. E certe preziose sapienze tonali di cui Monet si è sin’ora solo episodicamente interessato, e che l’occuperanno d’ora innanzi con tanta maggiore insistenza, nascono proprio di qui: davanti alla neve, un’altra volta.
Poco dopo, dall’aprile al maggio di quello stesso 1879, Monet partecipava (seppur con scarso entusiasmo: come farà poi in occasione della settima mostra, dell’’8216) alla quarta mostra del gruppo impressionista. Vi esponeva, almeno, tre quadri di neve, fra i quali appunto Eglise de Vétheuil, neige, oltre a due dipinti del ’75. Non per caso, pur in una mostra cui non teneva particolarmente e nella quale la selezione dei dipinti fu in parte responsabilità di Caillebotte, Monet dimostrava in quest’occasione, per la prima volta in modo così scoperto, una preoccupazione che sarà sua lungo tutti gli anni Ottanta e ancora all’avvio dei Novanta: quella di dimostrarsi, al pubblico e alla critica, un pittore in grado di governare tutti gli aspetti e le condizioni del paesaggio, ivi compresi i più ostici, quali erano – per lui che continuava ad imbastire la tela all’aperto – quelli riscontrabili in un paesaggio freddo e innevato. Questa preoccupazione diventa infine esplicita nel 1886, quando scrive a Durand-Ruel, da Kervilahouen, ove dipinge, in condizioni sovente estreme, il mare in tempesta di Belle-Île: “Sono entusiasta di questo paese sinistro e proprio perché esce da quel che ho l’abitudine di fare; del resto, lo confesso, devo molto sforzarmi e faccio fatica a rendere quest’aspetto scuro e terribile [della natura]. Sarò anche, come amate dire, l’uomo del sole: [ma] non bisogna specializzarsi su un unico timbro”. E quando, lo stesso giorno, ricordando ad Alice le sollecitazioni ricevute da Durand-Ruel perché vada a dipingere nel Midi, le scrive: “Ebbene!, si finirà per considerarmi una cosa sola con il sole! Bisogna fare di tutto, ed è per questo che son felice di star facendo quel che faccio”, di fronte a “questo tempo terribile”17.
Codesta preoccupazione di Monet durerà almeno sino ai primi del successivo decennio, e si presenterà ancora in occasione della prima ‘serie’ cui pone mano, quella delle Meules: quando, pur essendo ormai altri i problemi che intende prioritariamente affrontare (che concernono adesso il tempo della visione, protratto dall’istante alla durata, e l’“enveloppe”, l’involucro atmosferico, come unico soggetto della pittura18) almeno undici di quei dipinti studiano gli effetti della neve o del disgelo. Ma certo il momento in cui più scopertamente Monet dichiara l’intenzione d’essere il primo paesaggista dell’epoca moderna, annettendo a questa rivendicazione il corollario d’un registro amplissimo dei temi che aveva saputo trattare, coincide con la mostra con Rodin, tenuta da Georges Petit, nella lussuosa galleria di rue de Séze, nel 1889: vero evento della stagione artistica parigina nell’anno in cui pur vi si teneva l’Esposizione Universale che presentava la Tour Eiffel. Era l’occasione espositiva più ampia ed importante che Monet avesse avuto; l’unica che egli avesse pervicacemente voluto negli ultimi anni, e per la quale s’era apertamente battuto, vincendo le resistenze di Petit e l’assai più flebile interesse di Rodin (al solito a lungo latitante, per poi amareggiare Monet disponendo da solo, all’ultim’ora, le proprie opere, con una disattenzione assoluta per l’allestimento previsto dal suo compagno); quella infine alla quale riconobbe lucidamente che sarebbe stato affidato il compito di statuirne il ruolo di primo pittore vivente di Francia19.
Centoquarantacinque dipinti, che coprivano venticinque anni d’attività: fu una vera, grande retrospettiva quella che volle e riuscì ad allestire Monet: nonostante l’atteggiamento sospettoso, e comprensibilmente geloso, che tenne nei suoi confronti Durand-Ruel, restio a prestare largamente opere di sua proprietà. Dopo quella mostra, nulla sarebbe stato come prima, nelle intenzioni del pittore: e il grande successo registrato dall’esposizione gli diede ragione anche in questo. Scelse le opere, una ad una: e ritrovare fra esse tanti dipinti sul tema della neve è l’ultima prova, incontrovertibile, dell’importanza che Monet annetteva a questa sua ricerca. Il primo dipinto risale al ’69 (una delle vie innevate di Louveciennes); un secondo al ’73 (un Effet de neige, Argenteuil); il terzo, Le train dans la neige, del ’75, uno dei quadri più importanti di quell’anno per la capacità che ha di preannunciare le ricerche condotte poi alla Gare Saint-Lazare; quindi alcuni dipinti sul disgelo del 1880, fra i quali quello rifiutato al Salon di quell’anno; e ancora un dipinto dell’’86, prima di due Covoni dispersi nel gelo.
Nella mostra dell’’89, comprensibilmente, una parte importante era tesa a documentare la straordinaria, breve stagione che vide Monet impegnato, sulle rive della Senna prima e poi più lungamente a studio, a dar figura alla “débâcle” del 5 gennaio 1880: quando un celere rialzo della temperatura generò l’improvviso disgelo del ghiaccio che gli ultimi giorni dell’anno precedente, d’un inusitato rigore, avevano disteso sulla Senna. Le acque del fiume, allora, furono teatro di uno spettacolo prima drammatico e minaccioso, con i grandi lastroni in corsa devastante lungo le rive, poi vieppiù rarefatto e malinconico, percorso da luci lente e ovattate20. A queste immagini, concepite in vasta e variata serie, alcune altre, appena precedenti e pur di tema diversissimo, possono dirsi legate e, in qualche modo, propedeutiche: e sono le nature morte con fagiani di cui fa menzione in due lettere, datate dicembre ’79 e gennaio ’80, Alice Hoschedé al marito Ernest. In esse (una delle quali venduta tempestivamente e con gran soddisfazione a Petit) Monet raccoglie su un primo piano ravvicinatissimo la cacciagione che, in prossimità della chiusura della stagione della caccia, egli attendeva ansiosamente, di giorno in giorno. Era costretto a casa, allora, dal tempo inclemente: quel tempo che temeva e amava, insieme; e quei Faisans, quando gli giunsero e quando furono disposti sulla tovaglia bianca per essere dipinti, furono in fondo un pretesto per dipingere, in interno, un po’ della neve che vedeva, fuori, cadere copiosa e coprire della sua coltre il paesaggio. Ché non altro che un manto di neve è infine quella tovaglia d’un abbacinante biancore su cui posano gli uccelli morti, vibratile e cangiante come poteva essere la neve sotto la luce radente di un sole al tramonto.
Non appena gli fu possibile, poi, Monet andò alla Senna, e sulle sue rive dipinse il disgelo: immaginando quadri, talora assai prossimi l’uno all’altro (come in una primissima prefigurazione dell’idea seriale che avrebbe guidato la sua pittura dieci anni più tardi), che si pongono ad un vertice qualitativo della sua produzione di Vétheuil, e che aprono splendidamente un decennio – il meno studiato, a tutt’oggi – di straordinaria mobilità, e di variatissimi interessi, nella produzione di Monet.
1. G. Geffroy, Claude Monet. Sa vie, son œuvre [1924], ed. cons. Éditions Macula, Parigi 1980, pp. 347-349.
2. D. Wildenstein, Claude Monet. Biographie et catalogue raisonné, tomi I-V, Losanna-Parigi, 1974-1991; tomo III, 1979, lettera n. 1276.
3. D. Wildenstein, cit., lettera n.1324.
4. D. Wildenstein, cit., lettera n. 1283, ad Alice Hoschedé.
5. D. Wildenstein, cit., lettera n. 1151, a Paul Durand-Ruel
6. G. Geffroy, cit., p. 421.
7. D. Wildenstein, cit., lettera n.1276.
8. ibidem.
9. Cfr. ora, per un’esaustiva disamina del tema, Monet &Japan, catalogo della mostra, Canberra-Perth, 2001, a cura di V. Spate e G. Hickey; e, fondamentale per ricondurre il problema nella sua più corretta prospettiva (ed entro limiti, anche, che sovente sono stati travalicati), V. Farinella, “Le bionde allegrie della natura”: qualche verifica sul giapponismo di Monet, in Monet. Atti del convegno, a cura di R. Rapetti, M. Stevens, M. Zimmermann, M. Goldin, Treviso, Casa dei Carraresi, 2002; Linea d’ombra Libri, Conegliano 2003, pp. 218-229.
10. D. Wildenstein, cit., tomo I, 1974, n. 107. Nonostante la diffusa interscambiabilità dei termini “japonais” e “chinois” (con i quali s’intese a lungo battezzare come un’unica esperienza estetica quelle in realtà provenienti da due mondi distanti), può peraltro porsi ragionevolmente il dubbio che, a questa data ormai assai avanzata della diffusione del giapponismo nella cultura francese, in particolare per un attento conoscitore dell’arte giapponese qual era indubbiamente Monet, i due termini permanessero equivalenti.
11. Il dipinto, di proprietà del Musée d’Orsay, è schedato da Wildestein al n. 105.
12. Per i “quadri di neve” di Courbet, ai quali il pittore si dedicò largamente almeno fra 1856 e ’76, e per una traccia dei rapporti fra i due dipinti di Courbet e Monet, vedi ora E. E. Rathbone, Monet, Japonisme and Effets de Neige, in Impressionists in Winter. Effets de Neige, catalogo della mostra, The Phillips Collection, Washington, D.C., 1999, pp. 30-31.
13. E.E. Rathbone, cit., pp. 28-29 e 98.
14. E. Taboureux, Claude Monet, “La Vie Moderne”, Parigi, 12 giugno 1880.
15. D. Wildenstein, cit., tomo I, 1974, lettera n. 158
16. Cfr. R. Pickvance, Contemporary Popularity and Posthumous Neglect, in The New Painting. Impressionism 1874-1886, catalogo della mostra, a cura di C.S. Moffett, National Gallery of Art, Washington, 1986; Seattle, University of Washington Press, 1986, pp. 243-265.
17. D. Wildenstein, cit., tomo II, 1979, lettere 727 e 726.
18. J. Sallis, Ombre del tempo. I Covoni di Monet, [1991], ed. cons. Tema Celeste Edizioni, Siracusa 1992.
19. Per l’esaustiva ricostruzione della mostra confronta Claude Monet-Auguste Rodin. Centenaire de l’exposition de 1889, catalogo della mostra, a cura di J. Vilain, A. Beausire, J. Durand-Révillon, C. Judrin, S. Patin, Parigi, musée Rodin, 1989. Per gli atteggiamenti di Rodin, sovente indisponenti nei confronti dei suoi colleghi in occasione di esposizioni collettive, cfr. G. Lista, Medardo Rosso. Scultura e fotografia, 5 Continents Editions, Milano, 2003.
20. Per quelle straordinarie condizioni meteorologiche, vedi l’utile paragrafo di E.E. Rathbone, Winter Weather Chronology. December 1864 through January 1893, in Impressionists in Winter …, cit., pp. 221-233.