‘Sonia Costantini’, Ferrara, Civiche Gallerie d’Arte, Pac, 2001

Davanti alle tele di Sonia Costantini si deve sostare a lungo, e in silenzio: condizione necessaria del vedere. Chiedono dunque molto, queste tele, a chi le accosti: quello che di norma la pittura non pretende per sé. E anche se è d’altra parte vero che tutta la vera pittura ha bisogno di allontanare da sé l’ingombro e il rumore dell’esistente per farsi davvero ascoltare, questa verità, condizionante nel caso di Sonia, ne fa un’eccezione profondamente anomala rispetto ai tempi che vive.

Inattuale, dunque, per questo, prima e più che per la sola presunta inattualità dell’esercizio, oggi, del mestiere della pittura, e della pittura monocroma in particolare. Fosse questo soltanto, basterebbe dare a Sonia dei padri autorevoli (da Mondrian ad Albers, da Rothko a Reinhardt a tutta la pittura analitica d’anni Settanta: genealogia più volte, e con differente plausibilità, stilata per il suo lavoro), e tirare le somme.

Ma, ammesso anche che una parte (solo una parte) di quei nomi possano essere considerati realmente “padri” rispetto al suo lavoro, non credo che riconoscere nella Costantini una personalità congruamente organica a quell’asse paradigmatico possa avvicinare alla comprensione vera della sua pittura. La quale – e sembra che di questo ci si voglia troppo spesso dimenticare – ha luogo oggi, circondata da un mondo che dichiara nei suoi confronti ben altra estraneità rispetto a quella, poniamo, che Albers  poté avvertire a Weimar prima, al Black Mountain College poi. La qual cosa non agisce soltanto sulla percezione possibile dell’opera, ma certamente anche – prima, e in modo ancor più rilevante: giacché Sonia è perfettamente consapevole, in ogni punto del suo agire, del futuro che va preparando alla sua pittura – sul suo momento germinativo: quando riconosce lucidamente l’incommensurabile iato che separerà la sua pittura dal mondo. E ne ascolta, trepida, l’eco; e si arma di cultura visiva (ma non solo), che frapporrà, a difesa, fra sé e il rumore del mondo. Forte e fragile come un diamante, Sonia sa già dall’alba della sua opera cosa prepara per essa: per questo, anche, il destino della sua pittura è sempre (come confessa nel colloquio con Claudio Olivieri che pubblichiamo in calce a questa nota) compreso, prefigurato nel suo progetto.

È dunque fin dalla sua prima scaturigine che la pittura della Costantini porta sulla pelle scritta la sua inconciliabile alterità al suo tempo: e di ciò Sonia è interamente avvertita, allo stesso modo in cui Canova era conscio della propria inattualità rispetto al suo tempo. Neoclassica, allora, Sonia: armata dell’orgoglio, e forse della malinconia, di chi sappia di agire al di là della propria epoca. Come neoclassico è stato Gerhard Richter quando dipingeva, un suo Grau: quel grigio nel quale si potevano misurare il senso di perdutezza dell’uomo di fronte all’immenso e il mistero dell’assenza; l’urgenza di dire un’altra parola e insieme il bisogno di un silenzio a cui tornare.

Ecco, forse il grigio di Richter è la prima immagine, scritta entro il codice della pittura monocroma, che dubita della propria capacità di parola: in questo senso il monocromo di Sonia va oltre Richter: perché di nuovo la Costantini sogna possibile un’assolutezza, pur ripartendo da una soglia d’assoluta, aspra castità. Ma non può leggersi e riconoscersi, il suo lavoro,  per quello che è senza tener conto di come esso prenda le mosse da un luogo mentale che sta oltre quel punto estremo che, dopo Reinhardt, Richter ha toccato. Né può realmente riconoscersi, la pittura della Costantini, senza presumere che essa avverta su di sé, sempre, la fatica della china che le occorrerà, muovendo di lì, risalire.

Al sommo di quella china, Sonia trova infine – e sono ormai anni che dura questa pittura d’intoccabile intensità espressiva – la sua immagine: colma di certezze, e di quasi sfrontata presunzione di bellezza; tetragona, in ogni suo punto, all’esistente, ai suoi turbamenti, alle sue memorie.

È tramata, la sua superficie, da una appena percettibile architettura geometrizzante: ma questo ‘disegno’, quasi un minimo allarme posto sul limite estremo della percettibilità ottica, profonda infine a tal punto nel manto emozionato del colore da non essere altro che un avviso dell’artificiosità tutta mentale della costruzione pittorica: un ultimo spalto opposto alla fruizione dell’opera come pura, sensibilistica invasione di bellezza. Su quella superficie la luce, vero e aspro demone della Costantini, s’incarica, senz’altro appoggio, di erigere e sostenere questi spazi invasi dal silenzio, e come in attesa del tempo lungo della fruizione.