‘Disegno e colore nell’opera di Pietro Consagra’, in ‘Pietro Consagra. Necessità del colore’, gall. dello Scudo, Verona (Milano, Skira), 2007
“Giardino carminio”, Pietro Consagra (1965). Ferro, lastra tagliata e dipinta.
“Un atto di liberazione da tutte le polemiche”1
È stato molte volte, e opportunamente, sottolineato: la “frontalità” della scultura, il tema forse cruciale in un percorso ideativo comunque assai articolato nei lunghi anni dell’operosità lunga di Consagra, prepara, o meglio implica, la pittura: la pittura, almeno, d’età moderna, quella che ha eletto a suo unico luogo la superficie, deponendo l’intenzione di farsi finestra illusivamente aperta sul mondo; l’unica, dunque, che Consagra abbia inteso praticare.
“Un atto di liberazione da tutte le polemiche” – cioè da quel carico di significati, di negazioni e di nuove prospettive che aveva accompagnato la nascita della scultura frontale, e in particolare dei Colloqui – era stato il reingresso più sistematico del colore nel suo mondo d’immagine, a muovere dall’avvio degli anni Sessanta. La scultura, rinunciando a farsi bandiera e veicolo di una radicale riforma del suo secolare statuto (“un ridimensionamento delle pretese che si erano accumulate intorno [ad essa], pretese religiose, sociali, di ordine costituito passato o futuro”2), si voleva libera ora di attingere grazie, e bellezze, prima negate. Dalla “sofferenza” implicita nell’atto, “drammatico”, di sottrazione d’aura che aveva consentito la nascita della rigorosa frontalità dei Colloqui, da quel fin aspro gesto rivoluzionario di volontà con cui si sottraeva alla scultura il suo basamento, e con esso l’occupazione di una centralità che implicava come fatale corollario una parallela “situazione emblematica” (“togliere l’oggetto dal suo centro ideale”, per non “addossarmi una responsabilità per ideologie che non mi appartenevano”, era stato il primo proposito della maturità appena giunta3), Consagra tentava, allora per la prima volta, un libero atto di pura gioia: complice primo il colore.
“Una ricchezza disponibile”4
La svolta, incubata dall’inizio del decennio, documentata infine dalla mostra alla Marlborough di Roma del dicembre del 1966, è pienamente esplicata dalle tre importanti occasioni espositive del 1967, a Rotterdam (Boymans Museum), Milano (Galleria dell’Ariete) e New York (Marlborough-Gerson Gallery), nelle quali presenta i Ferri trasparenti e gli Alluminii5. Sovente, l’ingresso del colore nell’immaginario e nella prassi di Consagra è stato messo in relazione con il clima diverso fondato in Europa dalla precoce diffusione della pop art, sancita infine dalla Biennale veneziana del 1964. E forse, talora, s’è troppo legata questa così determinata incursione di Consagra nella suggestione dei colori (di tutti i colori: non comprendeva, comunque non ammetteva per sé, la scelta univoca di un colore a scapito degli altri) con quella invasiva temperie indotta d’oltreoceano: cui peraltro egli fu, per altro verso, evidentemente e radicalmente estraneo. Più giustamente Giuseppe Appella gli ricordava nel 1981 com’egli, “esempio unico nella scultura moderna, [usasse] il colore senza temerlo”6; e seppure si voglia temperare la nozione d’unicità del Consagra ‘scultore di colore’, si cercheranno più opportunamente i possibili prodromi di questa sua attitudine nel lavoro di artisti – da Calder ad Ellsworth Kelly7 – antecedenti ai pop, e di radici assai più antiche e complesse.
Senza tema, né spavento; senza che venga insidiata, d’altra parte, la dimensione specifica della scultura: “usare il colore nella scultura è come usare una ricchezza disponibile”. È un’intuizione, questa sì, soltanto di Consagra (prima di lui, potevamo aspettarla forse soltanto dalla infinita voluttà, dalla onnivora libertà di Picasso). Un’intuizione profondamente connaturata al suo pensiero sull’arte – sia affidato agli scritti, sia testimoniato nei colloqui sempre così perspicui e rivelatori che ha lasciato – così aguzzo e inerpicato come su un terreno scosceso; e poi, improvvisamente, così dolce e piano. D’un pensiero ove s’alternano profondità d’intuizione teoricamente agguerrite circa il proprio lavoro che sembrano rendere vana ogni ulteriore esegesi su di esso, e crampi bruschi di concisione, sino quasi alla confessione privatissima, e sovente caustica e autoironica.
In passaggi così, più rilassati, trovano spazio i numerosi ricordi – sparsi un po’ ovunque, ma soprattutto nelle pagine d’una delle più affascinanti autobiografie dell’arte italiana del secolo scorso, Vita mia – sui sogni, già colorati, della primissima gioventù, ancora a Mazara del Vallo: “Passai da casa sua [d’un altro giovane del paese natale, evidentemente dotato di maggiori disponibilità economiche] e volevo spiare come lavorava e con che cosa, così vidi, per la prima volta, la meraviglia dei tubetti di colore, i pennelli, la tela e un cavalletto”8. Data fin da allora, dunque, la prima voglia di pittura: a tratti tanto forte da sembrargli “insopportabile”. Non credo, come è stato pur asserito, che “nel confronto serrato tra scultura e pittura” si debba riconoscere “una primogenitura della seconda nei processi di riconquista della superficie”9: e che dunque la scelta fondamentale della scultura d’anni Cinquanta di Consagra, quella appunto della frontalità (incastonata per lo più in un fortilizio rettangolo che finisce per somigliare allo spazio canonico che pertiene ad un dipinto) sia da ricondurre a una dipendenza dalla sua giovanile infatuazione; anche perché la concentrazione sulla prassi scultorea fu allora assoluta, sino ad escludere di fatto – come mai più avverrà in seguito – l’esercizio e la speculazione sulla pittura. Ma è certo anche da simili, e coraggiose, posizioni critiche si trarrà linfa per evitare il rischio opposto, tanto più spesso esplicitamente o tacitamente occorso all’esegesi su Consagra, di considerare la sua pittura soltanto ancella della scultura.
“Disegnare è come pensare lasciando delle tracce”10
C’è in realtà un modo della creatività sua che stringe i due frangenti maggiori: e si dispone, fra essi, a ponte saldo e capace di sostenerne il dialogo: ed è il disegno. Pratica che, anche chi abbia avuto una solo occasionale esperienza del lavoro di studio dell’artista, sa essere stata per lui sempre determinante. Al disegno Consagra destinava gran parte delle sue ore: ore molto diverse l’una dall’altra, di concentrazione e di rilassatezza, di riflessione e di svagatezza, di progetto e di abbandono. Ne rimane un corpus notevolissimo, in una sua parte reso noto dal prezioso repertorio di Gabriella Di Milia del 1994, che schedava oltre trecento fra fogli e studi su supporti diversi, distesi dal ’47 al ’94, appunto, e principalmente scelti fra quelli in qualche modo connessi alla scultura11. I formati, l’impegno e le tecniche diverse di quei fogli – ai quali molti altri se ne potrebbero ovviamente aggiungere, che della pratica disegnativa amplierebbero ulteriormente la molteplicità del carattere e degli esiti – attestano alla prima la delega amplissima che Consagra ha affidato al disegno, delegato ad accompagnare ogni pur minimo trasalimento stilistico nella sua opera.
“Disegnare è come pensare…”, ha scritto. Ovvero: “disegno sempre, in continuazione, in qualsiasi occasione possa disporre di foglio e penne, come un automatismo”; e ancora: “un disegno quando nasce mentre stai pensando ad altro, emerge dal tuo automatismo dei gesti…”. L’automatismo: dicendone, Consagra non pensava certo al modo in cui sgorgava la creatività surrealista; e nemmeno a quanto si era trasferito di quell’idea alla New York d’anni Quaranta e Cinquanta. Automatismo è più probabilmente per lui qualcosa che inerisce alla mano, alla sua esperienza quotidiana e ai talenti che possiede, e che garantisce insieme la fluidità e l’assiduità del lavoro sul foglio, unitamente a una presa di distanza dal disegno puramente progettuale per la scultura (“Quando si progetta, il foglio rimane rigido, fissato per una necessità prestabilita e si scivola alla ricerca di una chiarificazione del tema”). Non una chiarezza definitoria, cerca invece Consagra sul foglio che quotidianamente lo attende: ma un rischio, un’illuminazione, un’emozione: disegna per sentirsi “carico di possibilità, di aperture al sentimento e all’oggetto”12. Disegna per guardare oltre, in un luogo donde potranno muovere sia la scultura che la pittura.
“Come foglie leggere liberate dal malessere”13
Consagra ha voluto datare al 1964 il crinale in cui la pittura, “condotta con più intenzionalità che in tempi passati”, s’è per la prima volta ripiegata sulla scultura: animandola, donandole nuova libertà e capacità di rischio. “Sculture rosse, gialle, verdi, viola. Come foglie leggere liberate dal malessere. Accettavo la società con i suoi guai. I Colloqui erano usciti dalla mia mente”. L’azzardo, nuovamente carico di pensieri esclusivamente plastici, sarà presto condotto all’estremo limite delle Sottilissime (nelle quali torna, pur nell’iperbole della sfida alle possibilità tecniche di una scultura ridotta a fiato e quasi portata sino al confine del gioco, un pensiero affine a quello che aveva motivato la rigorosa frontalità d’anni Cinquanta). Ma il transito attraverso i Ferri trasparenti – uno dei passaggi cruciali e più alti della scultura di Consagra, che dimostra con essi d’aver saputo dar vita ad una seconda e interamente nuova pienezza formale, dopo quella dei Colloqui – impone d’aver a mente la contemporanea risorgenza della pittura.
Scriverà più tardi, ma pensando forse soprattutto a quel suo crinale, occorso dunque a metà degli anni Sessanta: “Un pittore ha molta voglia dell’incertezza e quando si prepara al lavoro deve sentirsi disposto a tutto. Gli scultori invece hanno tutti il cervello succhiato dalla fatica di affrontare il lavoro con molta determinazione. Fatica che non è ricompensata nel percorso, che non è sollecitante, ma alla fine dell’opera”14. Il pittore, lo scultore dei quali predica l’incertezza, il cervello succhiato, la determinazione, sono in realtà non altro che un se stesso trascinato sotto ai raggi x; un se stesso che sa guardarsi allo specchio, e riconoscersi un poco diverso nelle due sue ‘nature’.
E, insieme, riconoscere diverso il tempo destinato al lavoro scultoreo e pittorico15: quest’ultimo tutto stretto nelle sue sole mani; e legato all’attimo della folgorazione; alla voglia diseguale che può insorgere a mezza via, e cui ci si può abbandonare; dunque a un rischio che non comprometterà l’esito. L’altro che lo vede costretto a condividere con aiuti e collaboratori il lavoro fabrile, a delegarne una parte, a spezzare in due metà il tempo dell’opera, ad attenderne l’esito ultimo per verificarne la tenuta di forma. Per questo, anche, il disegno s’insinua con tanta determinazione e spessore nel lavoro e nella vita di Consagra: perché al disegno è delegata, con perfetta consapevolezza – oltre che il dialogo della scultura con la pittura – l’unità riconquistata dei due tempi segregati della scultura: l’intuizione della figura che la costituirà, e il progetto che ne guiderà la messa in opera.
“…un catalogo astratto di forme naturali”16
Certo, la vocazione astratta della sua scultura resta intatta, per tutti gli anni dell’operosità; così che Calvesi ha potuto scrivere che “i suoi ferri ‘trasparenti’ non sono rappresentazioni del cielo, dell’albero, della nuvola, ma simboli formali; e neanche dell’albero o della nuvola, ma di un’idea (non necessariamente naturale) di paesaggio”17. (Gnam, 173) Eppure anche l’opposta suggestione offerta da Arnheim è carica di fascino: lì ove suppone che “l’intero vocabolario della natura” stia a monte dei coloratissimi Ferri trasparenti. Come un “paradosso”, scrive Arnheim, Consagra offre adesso l’ossimoro di “un catalogo astratto di forme naturali”: ma è un paradosso gentile, un ossimoro senza dramma. Ove appunto ‘alle spalle’ della lamina traforata, slontanata, stia annidata quella realtà, fatta dei profumi, delle forme, dei colori della sua terra che, insieme alla luce, passano attraverso i pertugi, i piccoli squarci della lamina, in perle e gocce, e giungono fino a chi guarda, di fronte: possedendo ancora, chi guarda (e – come Consagra volle un tempo – con un solo sguardo), l’oggetto intero della propria visione. Ma forse ora, anche, immaginando o ricordando qualcosa di quei profumi e di quei colori lontani, al di là della superficie. E allora, forse, “verranno col sorso alla bocca / l’ombre, il respiro dei monti / e il colore che l’acqua serba”18.
Il paradosso si fonda – e assieme si dilata e moltiplica – nel disegno; del quale s’è detta la convinzione che stringa assieme la fatica della scultura e l’azzardo più lieve della pittura. Nasce già maturo, il disegno (come era avvenuto alla scultura, che stupì fin dalla sua prima apparizione all’Art Club Prampolini, indotto già nel gennaio del 1948 a giudicare la ricerca di Consagra come la più avanzata fra quella dei giovani di Forma, e di fatto l’unica che progredisse oltre le ambigue sintassi neo-cubiste19) alla fine del Quaranta; o almeno è tale ai primi del decennio seguente, Quando – e pur all’inizio riferito ad immagini ancora ‘costruttiviste’, ‘totemiche’, non ancora ricondotte alla superficie e alla visione frontale – già si verifica in più d’una carta quell’organizzazione paratattica dello spazio che sarà poi sempre ritornante, quell’allineare sul foglio, in ostinata sequenza, idee e propositi d’immagine (sono ad esempio così i numeri del catalogo Di Milia 16, del 1952 e 32, del 1955). S’alternano poi, egualmente, già in quegli anni disegni più pittorici e conclusi (Di Milia, n. 36, 1955) ed altri più esplicitamente atti a registrare una prima idea di scultura, le cui ‘figure’, talvolta minutissime, si astringono a pochi segni riassuntivi o soltanto a rapide, piccole macchie d’inchiostro (Di Milia, n. 54, 1958). Infine, con maggior concentrazione a muovere dalla metà degli anni Settanta e con un apice nel decennio seguente, le matite e l’acquarello portano sul foglio un colore variato, gioioso, imprudente che designa forme in continua metamorfosi, guidate da una fantasia che non ha ormai freno. Lasciano cadere allora, quelle forme, la kleeiana perfezione che spetta a fogli come il collage del 1980 (Di Milia, n. 247), che racchiudono ancora nei propri ben definiti confini il fremere eccitato dei segni; e si rincorrono sul foglio, gremite, vaganti, eccitate e come felici della loro inconcludenza. E per contro, davvero tutti i colori dell’iride vengono ora in soccorso a Consagra e al suo bisogno di scrittura eccitata, alterna fra punti e macchie, dilavamenti e brevi concrezioni.
“Dipingere è andare a caccia di rogne e tornare scontento”20
Scende dunque dal disegno, quello spazio senza orizzonte e senza illusive profondità, irrelato al mondo, tutto steso su un unico piano – come quello di un tappeto che si srotoli su una parete, aderendo senza conflitti alla sua verticalità – che, da un certo punto in avanti, costituisce lo spazio privilegiato della pittura di Consagra; secondo un’intuizione primissima che data probabilmente ai primi del Settanta (si dimostra già attivo, ad esempio, in Fondo rosa (cinque immagini), databile al 1971), e si esplica pienamente negli anni Ottanta.
Distogliamo prima un equivoco, nel quale si può incorrere sulla scorta di una fede prestata ad una piccola bugia detta una volta da Consagra. “Il colore”, rispose nel 1981 ad Appella (che per parte sua aveva appena finito di ricordargli tutti i frangenti del suo lavoro in cui era stato determinante il colore: “i mosaici degli anni cinquanta, i ferri colorati degli anni sessanta, i gioielli, gli avori, i marmi, le terrecotte, le ceramiche, le pietre dure e gli alabastri degli anni settanta, le porcellane”, sino ai recentissimi vetri), “proviene dalla pittura che ogni tanto riesco a fare”21. Non di lì, invece, ma come anche qui s’è detto dal disegno, o dai Ferri trasparenti; o ancora, se si vuole risalire più indietro, dal sogno dell’infanzia a Mazara, da quell’amico più fortunato di lui, che aveva i tubetti di colore, i pennelli, la tela e il cavalletto.
Così omogeneo e senz’ombre, così poco disposto ad accogliere nel suo spessore minimo la figura, così vibrato – ovunque – d’una luce eguale, intatta, colma: così come è stato, il colore dei fondi di Consagra, lungo il nono decennio del secolo, che vede nascere gli esempi forse maggiori della sua pittura, non è stato prima e non sarà – se non del tutto episodicamente – dopo. Così che questo gruppo di pitture costituisce un nucleo profondamente unitario, al quale occorre pensare come ad una sorta di ‘grande decorazione’ non facilmente scindibile in episodi separati. In essa è quel fondo che, prima d’ogni altra determinazione stilistica, costituisce il tratto formale dominante di ogni dipinto: tanto che nessuno d’essi rinuncia a dichiarare fin nel titolo la specificazione del timbro cromatico (verde, giallo, grigio, rosa …) su cui poggiano le immagini. Varia invece, da dipinto a dipinto, ma senza che sia possibile registrare in queste mutazioni un più preciso indirizzo, oltre alla tonalità dei fondi, la dimensione delle immagini che vi si ritagliano, il loro numero, e per conseguenza il loro affollarsi o diradarsi sulla superficie. Altra omogenea dominante formale di questa ‘serie’ di dipinti è la rigorosa sequenza paratattica che governa la scansione delle immagini nelle singole composizioni: allineate in ordinatissime file rigorosamente orizzontali e fra loro equidistanti, esse saturano la pagina pittorica come farebbero i caratteri tipografici in una pagina a stampa, o i reperti disposti in una teca d’un museo di storia naturale.
Ma allora si leggono con stupore queste e altre analoghe parole di Consagra sulla propria pittura: “Quando dipingo, comincio e non so dove vado, quanto più casuale è la prima pennellata, tanto più mi carico d’avventura”. E con eguale stupore si ascolta Menna confermare che “l’artista non ha mai smesso di considerare la pittura una pratica più disponibile all’avventura della lingua, all’azzardo esplorativo, allo scandaglio nel terrain vague dell’ignoto”22. In realtà l’avventura, l’azzardo che Consagra sembra aver messo fra parentesi nella spazialità assestata, nel calcolatissimo ordito antiprospettico di questi suoi dipinti, tornano d’improvviso a farsi egemoni in quelle ‘figure’ che, alla prima, sembrano assecondare la cauta razionalità della trama spaziale che le contiene, e solo a uno sguardo più lento posato su ciascuna di esse riacquistano individualità e autonomo peso d’immagine.
In esse – in ciascuna di esse, davvero: piccoli microcosmi d’interminabile seduzione – erompe allora quella libertà che Consagra attendeva dalla sua pittura: e si svela appieno quella volontà di contare il mondo nella sua infinita cangianza che è riscatto, infine, dal severo esercizio della scultura, e tanto più della sua scultura pensata come momento di giustizia, come architettura fatta per vivere, non per sopraffare. Forme e colori vengono alle ‘figure’, in pari misura, da altra pittura e da suggestioni naturali: rocce e cactus della sua terra ormai lontana, allora, si stringono a memorie di Braque, di Matisse, di Magnelli, di Arp; o dei suoi più prossimi compagni di strada di un tempo: da Turcato a Sanfillippo. Così che infine, aleggia su questa pittura, che nobilmente occupa i suoi anni senza rimpianti ed anzi con gioiosa pienezza, un sapore, anche, di più antiche, perfette sintassi di forma: quelle avvistate e magicamente trovate da un manipolo d’artisti indimenticabili nella Roma, e nell’Europa, d’anni Cinquanta.
1. C. Lonzi, colloquio con Consagra, in Consagra, cat., Milano, Galleria dell’Ariete, 1967; ora in Pietro Consagra, cat. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, maggio-ottobre 1989; Mondadori-De Luca, Milano-Roma 1989, p. 140.
2. ibidem.
3. P. Consagra, La città frontale, De Donato, Bari 1969; ora in Pietro Consagra, 1989, cit., p. 141.
4. G. Appella, Colloquio con Consagra, Edizioni della Cometa, Roma 1981, p. 13.
5. Per la più completa registrazione della consistenza delle esposizioni, vedi Pietro Consagra. Biografia cronologica, a cura di Giuseppe Appella, in Pietro Consagra, Milano-Roma 1989, cit., pp. 188-217.
6. G. Appella, 1981, ibidem.
7. E. di Stefano, Consagra colore, in Consagra colore, cat., Palermo, aprile-maggio 1991; Sellerio, Palermo 1991, pp. 19-20.
8. P. Consagra, Vita mia, Feltrinelli, Milano 1980, p. 16.
9. F.Menna, Pietro Consagra, in Pianeti, cat., Roma, Galleria dei Banchi Nuovi, 1987, p. 5.
10. P. Consagra, Disegnare è come pensare, in Pietro Consagra. Disegni 1945-1977, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1977, p. 7.
11. G. Di Milia, Consagra. The Drawings for the Sculptures, L’Agrifoglio Editions, Milano [1994].
12. P. Consagra, Disegnare …, cit., ibidem.
13. P. Consagra, Vita mia, cit., p. 143.
14. Consagra che scrive. Scritti teorici e polemici 1947/1989, All’Insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989; citato in E. di Stefano, cit., p. 22.
15. Il diverso “tempo dell’esecuzione” e il “riappropriarsi della manualità” impliciti nel lavoro pittorico sono sottolineati da E. di Stefano, cit., p.22.
16. R. Arnheim, Ricordo di un grato visitatore, in Pietro Consagra, Milano-Roma 1989, cit., p. 15.
17. M. Calvesi, in Consagra: ferri trasparenti, cat., Roma, Galleria Marlborough, dicembre 1966, ora in Pietro Consagra, Milano-Roma 1989, cit., p. 173.
18. L. Piccolo, La luna porta il mese in Gioco a nascondere. Canti barocchi. E altre liriche, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1960, pp. 93-94.
19. E. Prampolini, Offensiva romana dell’arte astratta, “Art Club”, III, n. 16, gennaio 1948.
20. P. Consagra, Milano 1989, cit., ibidem.
21. G. Appella, Roma 1981, cit., ibidem.
22. F. Menna, 1987, cit., p. 8.