‘Il pendolo di Chagall’, in ‘Chagall’, Torino, Gam (Firenze, Artificio Skira), 2004

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“La Promenade”, 1917-18. Olio su tela, San Pietroburgo

 

È stato definito “il pittore probabilmente più singolare del XX secolo” (Sylvie Forestier); ed anche a chi ne abbia indagato l’opera con acribia critica intesa a riconoscere in essa i molteplici legami che la strinsero, nei lunghissimi anni della sua parabola, al suo tempo, è parso infine necessario dichiararne il “sostanziale, sublime isolamento” (Quintavalle). Perché per Chagall, in ultimo, fu davvero un bisogno di separatezza a far aggio sull’opposta pulsione a scambiare pensieri, a stringere solidarietà con i suoi più prossimi amici e colleghi. Non è semplice intuirne ed enumerarne le ragioni: tanto che se resta vero che Chagall è, fra i maggiori del nostro secolo, il pittore forse più facile da amare, non altrettanto può dirsi ch’egli sia – appena sotto quella prima pelle di apparente, universale accostabilità – facile a comprendersi.

Il suo essere ebreo; il suo nascere in una provincia dell’impero russo in anni nei quali Alessandro III elaborava un programma di governo che prevedeva, per gli ebrei, la deportazione o lo sterminio; il suo crescere assistendo, o avendo notizia, che i più crudeli pogrom della storia russa colpivano la sua gente. Certo tutto questo contò, all’inizio: lo spinse a chiudersi in un bozzolo; a rintanarsi, quasi. E a godere, senza neppur comprenderli sino in fondo o amarli senza riserve, dei riti lenti e sempre eguali di una comunità raccolta in sé, tetragona al nuovo. Sapeva d’avere un viso troppo mite (ne dirà nelle pagine della straordinaria autobiografia, Ma vie), frutto – pensava – d’uno strano mescolarsi di vino pasquale, di farina d’avorio e di petali rosati; e detestava quella sua imbarazzante titubanza che si riaffacciava ad ogni incontro importante. Il rabbino, poi, non se lo sarebbe scelto così: svagato e disattento fino a sfiorare l’imbecillità (“Mio Dio! Che rabbino sei, rabbino Schméersohn”). Eppure i segni della sua origine, del suo popolo, gli rimasero nel cuore, fin quando – a Parigi, e al culmine del trasporto per quella sua nuova patria – seppe soltanto dirle, come intera, paradossale testimonianza d’amore: “Parigi, tu sei la mia seconda Vitebsk”.

Da quel suo mondo lontano scenderanno, e resteranno a lungo nella pittura, alcune delle immagini sempre, poi, ritornanti. Ed è pur vero che il modo di concepire lo spazio della tela come luogo indiviso e indifferenziato, capace di accogliere senza alcuna gerarchia prospettica l’affollarsi in esso di cose, di eventi e di avventure della fantasia che si giustappongono su di una verticale vertiginosa, neomedievale o neomanierista – è vero che quel modo può esser memore della pittura d’icone che si dipanava identica, da secoli, in una gran parte d’Oriente. Ma forse, più ancora che per le suggestioni linguistiche e iconografiche che l’universo della sua infanzia poté trasmettergli, contò per Chagall il suo essersi allontanato da quel mondo; il suo essere costretto a quello strappo (cosa di cui fu presto dolorosamente consapevole: da quando il padre, nauseato della sua scelta di divenir pittore, gli gettò sotto il tavolo i ventisette rubli con i quali lo licenziava – “gli perdono, era la sua maniera di dare”). Contò, da allora in avanti, la memoria da cui quelle immagini furono come teneramente avviluppate; al cui filtro lento, slontanante, avrebbero dovuto passare per riaffacciarsi all’oggi. Contò la malinconia dalla quale sarebbero state per sempre avvolte.

Parigi fu, sulle prime, occasione soprattutto di repulse, dichiarate nei confronti del cubismo, che negli anni del primo soggiorno di Chagall (1910-1914) si radicava come unica frontiera della modernità. Robert e Sonia Delaunay sono il tramite, allora, per una comprensione di quella lingua; nei confronti della quale però, dopo un lungo momento di incertezza, egli elabora un bisogno di separatezza (“che mangino pure a sazietà le loro pere quadrate sulle loro tavole triangolari”). Per adesso, comunque, Chagall non ha ancora scelto definitivamente; gli amici cui si lega (oltre ai Delaunay, Léger e Archipenko, Apollinaire e Cendrars), le gallerie e i Salon che frequenta, il patrimonio d’immagini, moderno e occidentale, che gli squaderna sotto gli occhi la grande capitale, i suoi primi invaghimenti (Delacroix e Manet, Gauguin e Matisse), tutto – assieme alla giovane età, che lo spinge certo a guardare avanti piuttosto che a volgersi pensoso verso le sue radici – sembra congiurare a far sì che Chagall divenga un pittore ‘francese’. E sono sovente sottaciute le componenti formali, desunte soprattutto da Delaunay (ma non solo: da Matisse, ancora, o fors’anche – come ha già avvertito Calvesi – dal Severini del Souvenirs de voyage, del 1911), che attestano un colloquio almeno tentato con il vasto panorama del più recente cubismo (Parigi alla finestra, 1913, ad esempio). E subito dopo, ancora, il rientro in patria – che solo per caso si volse in nuovo radicamento, cui lo costrinsero la guerra e poi la Rivoluzione – non fu esente da memorie ‘occidentali’, quasi saggi offerti alla sua provincia della perizia e delle nozioni acquisite (L’acrobata, 1914, o Mar’jasenka, 1914-’15, o ancora il quasi vuillardiano, sorprendente Le fragole, del 1916), che fanno la loro comparsa fianco a fianco ai tributi resi alle avanguardie neoprimitiviste russe.

Fu solo negli anni del soggiorno in Russia (all’inizio trascorso, nonostante le numerose occasioni offertegli di lavorare a Mosca, prevalentemente nell’enclave protetta di Vitebsk) che Chagall delineò definitivamente la sua vocazione ad una lingua lontana dalle acquisizioni dell’avanguardia: che d’altronde proprio a Vitebsk assunse a un certo punto per lui la facies del demone suprematista (incarnato da El Lissitskij e da Malevich), assai più intransigente di quello impersonato dagli amici parigini, e che fu infine causa dell’abbandono di quell’Accademia d’arte libera da lui stesso fondata nella città natale. Al limite estremo del lungo periodo trascorso in Russia, Chagall pose mano a Ma vie, opera certamente cruciale nel dare volto compiuto alla sua poetica, che da allora in avanti egli avrebbe nutrito di memoria, di lontananza, di sogno, di malinconia (e quale rilievo egli annettesse alla sua autobiografia, capace di restituire al mondo l’immagine compiuta di quel che allora egli voleva essere, è testimoniato dal fatto che, pur potendosi giovare per l’edizione francese della traduzione prestigiosa di André Salmon, Chagall volle che essa fosse interamente revisionata dalla moglie Bella).

Ma vie, che principiò a scrivere nel ’21, nacque dunque nell’amarezza di una sconfitta, ma anche nella riscoperta – consentitagli a Mosca, dov’era andato nel ’20, fuggendo Malevich, e ove aveva lavorato intensamente ai grandi dipinti parietali per il Teatro Ebraico da camera di Granovskij – delle sue recuperate radici. È solo allora che Chagall prende definitivamente coscienza del luogo, diverso, ove potrà sbocciare la sua pittura: lontana dai sentieri battuti dall’avanguardia. “La disillusione diviene ferita profonda”, scrive la Forestier di questo tempo: ma è vero anche che quella ferita ha presto il conforto della malinconia, nata da quel sentimento dell’assenza che sarà il seme fecondo di tutta l’opera a venire; e che la malinconia saprà essere fin dolcemente sorridente, sbocciata lontano dall’arroganza del suprematismo, in una Parigi che diviene adesso – al suo ritorno, nel ’23 – davvero la sua seconda patria. È questo il tempo, anche, in cui si configura quella verità che intuì Venturi: “padroneggiando entrambe le tradizioni [l’orientale e l’occidentale], da entrambe restò indipendente”; il tempo in cui la corsa del pendolo di Chagall prende a farsi ampia e sapiente fra l’una e l’altra cultura d’immagine: attingendo con naturalezza, e quasi con ‘facilità’, all’una e all’altra, in una dialettica continuamente riattivata fra esilio e possesso, fra sogno e realtà, fra memoria e flagranza.

Sono pienamente riconosciute le tracce che legano la pittura di Chagall, anche in questo suo secondo tempo parigino, al suo mondo d’origine: che rimane fecondo pur nella lontananza, e da questa anzi trae linfa poetica. Meno sottolineate sono le parole che il pittore, questi anni, prende a scambiare con la cultura d’immagine che lo circonda; e seppur non sia questo il luogo per ripercorrerle partitamente, sarà forse non inutile indicare, in taluna delle opere oggi esposte, un tale rapporto. In Bella con il garofano, ad esempio, che è del 1925, e segue dunque di pochi anni il ritorno a Parigi, già Franz Meyer indicò l’attiva influenza esercitata su Chagall dalla ritrattistica manierista, individuando anzi una possibile fonte stilistica in un dipinto di Pontormo conservato al Louvre. Ma egualmente, se non forse con maggiore capacità di suggestione, possono iscriversi nell’asse paradigmatico di quest’opera la ritrattistica di Derain (dal ’13-’14 in avanti, sino a Madame Derain au châle blanc, terminato circa nel 1920), ed anche la stagione più prossima di Picasso, pienamente espressa nei ritratti ‘neoclassici’ di Olga Khokhlova – ad esempio il Portrait de la femme de l’artiste del ’23. Più misteriose (soprattutto ove si confronti la tela con altri paesaggi coevi: come qui, ad esempio, quello che accoglie la storia familiare de Il carretto) le fonti possibili d’un dipinto come il Paesaggio de l’Isle-Adam: che pare risalire sino al doganiere Rousseau, o ricordare i paesaggi di Montroig di un giovanissimo Mirò, le cui stesse parole d’allora sembrano essere un viatico plausibile alla comprensione, anche, degli intenti di Chagall: “Quel che più di tutto m’interessa, scriveva Mirò, è la calligrafia di un albero o delle tegole d’un tetto, foglia dopo foglia, ramo dopo ramo, un filo d’erba dopo un altro”.

Di questi e d’altri tributi (che vanno da Redon al sempre amatissimo Matisse, sino all’area “Blaue Reiter, tra Marc e Macke” sottolineata con forza da Quintavalle) sarà punteggiata la vicenda ulteriore del pittore, trasportato dalla corsa del proprio pendolo a rivisitare alternativamente la memoria di due mondi, ricevendone ricariche d’energia analogamente importanti. Lo stesso Quintavalle poi, affrontando il nodo cruciale del rapporto con il surrealismo, scriveva com’esso debba costituire “un filone importante di ricerca […] da leggere in trasparenza a partire almeno dagli anni venti e senza dare troppo peso al rifiuto dello stesso Chagall di aderire formalmente al movimento, come Breton gli aveva proposto”. E se infine sul surrealismo – pur visivamente certo frequentato da Chagall, giorno dopo giorno – poté pesare negativamente ai suoi occhi quella sorta di militanza di gruppo che Breton pretendeva dai suoi adepti (e che poté apparirgli sinistramente simile ad altre militanze verso le quali era stato sospinto dai circoli dell’avanguardia suprematista), determinandolo ad una repulsa che fu definitiva, occorre peraltro – e forse, per una volta, ancor prima di ricorrere alla consultazione dei testi pittorici concreti – riconoscere come “la simbiosi fra pittura e poesia, fra sogno e realtà” che Jean Leymarie ha indicato in sintesi estrema costituire il primo cemento del surrealismo, sia mira costante – egualmente – in Chagall. Ponendosi in tal modo in più giusta, seppur certo non irrilevante, prospettiva le fonti diverse alle quali Chagall da una parte, i surrealisti dall’altra vollero attingere per superare la mimesi d’una realtà puramente ottica, e per giungere a dar figura a quel “qualcosa di più astratto e liberato” cui diceva d’ambire. Fonti cercate dagli uni nell’azzardo, nella cecità del fare, nell’immersione nell’inconscio (tutti strumenti d’approccio all’immagine che Chagall sempre rifiutò); scoperte da Chagall stesso in un remoto ‘altrove’ che era stato vita, era adesso memoria, e sperava di divenire sogno.

Porta in America, ove si rifugia con Bella nel ’41, il suo sentimento dell’erranza. Si dichiara francese (ha finalmente ottenuto la nuova nazionalità, nel ’37) in un quadro – Al crepuscolo – che termina nel ’43; riscopre le sue origini in un paesaggio come L’occhio verde; si riconosce ebreo nelle persecuzioni alluse in La guerra. Gli anni americani, così, valgono certo soprattutto per il lavoro straordinariamente intenso che Chagall intraprende per il Ballet Theater (un lavoro che costituirà il filo continuo di quel tempo d’esilio, e nella cui continuità il pittore troverà la forza di superare il dolore per la morte di Bella); e per la sua definitiva consacrazione come grande maestro, consentitagli dai rapporti con il mercato, la critica e presto i musei di New York (determinante in quest’ottica sarà la grande antologica allestitagli dal Museum of Modern Art nel ’46).

Ma giunge anche, quel tempo, a confermarlo in quella sua lingua ormai definitivamente configurata dal bilico sempre riattivato fra memoria e flagranza: grazie al quale i segni di un passato, remoto nel tempo e nello spazio, appaiono alla soglia dell’oggi e prendono a narrare storie, insieme, ironiche e commosse, semplici e fiabesche. A quest’epoca risale anche, peraltro, un nuovo accento posto da Chagall sulla contaminazione, nel campo della tela, di piani diversi del racconto – nel quale cadono, senza gerarchia concettuale, elementi simbolici, religiosi, narrativi, visionari o fantastici – che costituirà, unitamente ad una stesura vieppiù densa di materia cromatica, la via privilegiata della pittura dei decenni ulteriori (e sono numerose le soste importanti della mostra odierna quelle relative a questo tempo e a questo modo: esemplati, ad esempio, da Il matrimonio del ’44, da Le luci del matrimonio dell’anno seguente, sino all’imponente trittico Resistenza, Resurrezione, Liberazione, vero luogo riassuntivo dell’animo di Chagall).