‘Il paesaggio di Cézanne’, in ‘L’oro e l’azzurro’, Treviso, Casa dei Carraresi (Linea d’ombra Libri, Conegliano), 2004
Nella mostra che nel 1988 fu dedicata congiuntamente da Londra, Parigi e Washington agli anni giovanili di Cézanne – in particolare all’arco cronologico teso fra ’59 e ’72 – il tema del paesaggio occupava un piccolo posto: appena un quinto dei dipinti esposti, e non certo i più importanti di quel suo tempo aurorale, erano paesaggi1. L’anno successivo lo studio fondamentale sugli anni d’avvio del pittore di Mary Tompkins Lewis poteva confermare come l’immaginario di Cézanne giovane fosse nutrito, e quasi prigioniero, di suggestioni – letterarie, allegoriche, simboliche; e profondamente implicate con la secolare vicenda della pittura – tutte diversamente orientate; e come solo il tempo di Pontoise (a partire dall’estate del ’72) segni un nuovo avvio, determinato assieme da fattori diversi come “l’influenza di Pissarro, le felici scoperte legate al lavoro en plein air, e la vita domestica e colma di pace che egli adesso apertamente condivideva con Hortense Fiquet”, dopo la nascita del figlio e dopo che della sua unione e di quella nascita egli aveva messo al corrente la madre2.
Per la verità, almeno un sospetto che una pittura condotta all’aperto potesse giovare alla sua maturazione sfiorò Cézanne già prima del biennio felice di Pontoise e Auvers, proprio al cuore degli anni Sessanta. In una lettera senza data, ma riconducibile all’ottobre del ’66, inviata a Zola da Aix, scrive: “Ma, vedi, nessun quadro fatto in un interno, a studio, varrà mai le cose fatte en plein air. Raffigurando scene all’aperto, le opposizioni delle figure sul terreno sono stupefacenti, e il paesaggio è magnifico. Vedo cose superbe, e bisogna che mi decida a non lavorare che en plein air”3. Ma quel proposito, così fermamente asserito, non ebbe, a breve, un seguito significativo; al punto che non è facile riconoscerne oltre ogni dubbio un esito puntuale, se non forse nella Route tournante en Provence assegnata dal catalogo generale di Rewald appunto a quel 1866 (ma problematicamente: e il quadro è in effetti da spostare forse più avanti, come già riteneva Venturi), o, dello stesso anno, ne Le bac à Bonnières4. In quest’ultimo paesaggio è per la prima volta evidente la suggestione di Pissarro, che Cézanne aveva già scelto per guida, che visitava sovente, e di cui avrà certamente visto e ammirato, al Salon del ’65, il dipinto Bords de la Marne à Chennevières, sul quale è stata correttamente rilevata l’influenza determinante di Daubigny, e in misura ancora maggiore il più aspro e annottato Bords de la Marne en hiver, esposto al Salon l’anno seguente, dove fu tacciato di volgarità5.
Rispetto ad esso, Le bac à Bonnières di Cézanne rinuncia ulteriormente ad ogni grazia, e a quell’ampiezza di sguardo sul paesaggio, disteso lungamente fra primo piano e fondo, che costituiva sovente in Pissarro la chiave d’un suo allora modesto ma sicuro riscontro critico. La piccola tela di Cézanne precipita invece bruscamente l’occhio al cuore del suo soggetto, giovandosi più scopertamente del breve colpo di spatola insegnato da Courbet, e insistendo su una gamma cromatica fonda e, quasi, amara. Tanto che Zola, che sapeva peraltro l’amico prevalentemente impegnato su diversissimi temi e su assai maggiori dimensioni, poteva scrivere quegli stessi giorni a Numa Coste: “Cézanne lavora: si conferma ogni giorno di più nella via originale sulla quale la sua natura l’ha instradato. Spero molto in lui. D’altronde, è ben certo ch’egli sarà respinto [dal Salon] per i prossimi dieci anni”6. Previsione, quest’ultima, che poteva sembrare allora paradossale e che invece risulterà di gran lunga inferiore alla realtà (è noto come Cézanne dovrà attendere il 1882, e un ridicolo escamotage, per vedersi accettato la prima e unica volta al Salon)7.
Ed ecco le Usines près du mont de Cengle, di data oscillante nella bibliografia più recente fra il ’67 e il ’70, che è il dipinto più antico di Cézanne presente alla rassegna odierna: e se da un canto la piccola tela è inimmaginabile senza la premessa de Le bac à Bonnières, essa costituisce anche il primo autentico colpo d’ala di Cézanne paesaggista, col quale il pittore si stacca d’improvviso da una dipendenza da ogni modello – ivi compreso quello di Pissarro – e sembra promettere già qui, già ora, tanto del suo futuro. Sul quadro, opinioni diverse sono state espresse sull’argomento cruciale del grado dell’adesione ad un motivo realmente esistente. In particolare, Rewald propende per un paese dipinto direttamente “sur le motif”, Gary Tinterow per un paesaggio d’invenzione8. Al di là di ciò, un filo rosso sembra stringere assieme questo e l’appena successivo La tranchée avec la montagne Sainte-Victoire (1870 circa): la stessa asciuttezza di sguardo, in entrambi, su di un brano inameno di paese, spoglio di seduzioni e di racconto, di sogni avventurosi e fantastici (battuti da quel vento d’irragionevolezza che sfiora altri paesaggi del tempo: dal Paysage provençal, di collezione privata, a La neige fondue à l’Estaque, della Bührle di Zurigo; rispettivamente nn. 133 e 157 del catalogo ragionato), in una visione che procede lentamente dal primo piano all’orizzonte per piani paralleli, per masse giustapposte e l’una come incastrata nell’altra. È da questo Cézanne (sia detto in inciso: ma senza nascondere quanto è capace di svelare, circa la natura stessa del pittore provenzale, questa tanto più tarda desunzione), la cui ricerca d’una verità luminosa promette già di non darsi a scapito del peso dell’oggetto che raffigura, che prenderà le mosse Giorgio Morandi, nel Paesaggio aurorale del 1911; ed è a questo Cézanne, egualmente, che Morandi tornerà nei paesaggi di Grizzana essugati dalla guerra.
Gli anni che corrono fra 1871 e 1873, e che rimarranno forse fra i suoi più sereni, videro infine una frequentazione assidua, quanto non era mai stata in precedenza, con il paesaggio. Non per caso, fra i tre dipinti che Cézanne presentò nel ’74 alla mostra impressionista da Nadar, due sono paesaggi: un Étude: Paysage à Auvers9 e La maison du pendu, à Auvers-sur-Oise. L’accumulo grave di materia, la persistenza ricercata del senso della massa e del volume che governano questo celebre dipinto (ove il peso delle cose – i tetti, i muri sbrecciati delle povere abitazioni – ingaggia una lotta, che sarà alla fine vittoriosa, con il valore opposto, permeante, della luce) lo distaccano dalle ricerche coeve dei compagni di strada (di Monet, Renoir e Sisley, segnatamente, allora intenti a seguire una via comune) tese a registrare sulla superficie, intuita come unico luogo della pittura, le mutevoli impressioni dell’occhio di fronte alla natura. “La duplice direzione trasversa delle strade e il loro dislivello permettono di creare spazio. La rozzezza delle costruzioni facilita la rappresentazione dei volumi anzi che dei contorni […]. Accettato il nuovo programma Cézanne va subito alle estreme conseguenze, cioè scarta tutto ciò che è accidentale, vede soltanto le masse e la dialettica essenziale delle luci e delle ombre, imprime quindi in ogni cosa una fermezza di eternità, e giunge immediatamente al monumentale”, ha scritto – già nel 1935 – Venturi10, precorrendo un’ipotesi critica poi largamente frequentata. In questo senso, La maison du pendu s’eccettua in qualche misura dai propri anni, scavalcandoli in avanti. Altrove (e ad esempio nel Paysage à Auvers), e più di frequente adesso, la devozione di Cézanne a Pissarro rimane intera; e più in generale, sino almeno al ’76, il registro cromatico, e la percezione acuita che Cézanne ha ora sovente del valore dissolvente della luce ad un suo zenit ne stringono l’opera a quella dei suoi sodali.
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Vue prise du Jas de Bouffan, che la mostra di oggi può presentare, è uno degli esempi più pregnanti della breve adesione di Cézanne ai modi dell’impressionismo, che proprio allora (il dipinto è situabile fra ’75 e ’76) attraversava la sua stagione culminante. Governato dalla gamma ampia dei verdi, assai simile a quella dispiegata nel coevo ritratto di Madame Cézanne accoudé, esso è votato a raggiungere quella “sottigliezza di toni”11, quell’accordo quasi tonale del timbro cromatico al quale, presto, Cézanne si mostrerà disinteressato. Qui il paesaggio, scevro dei dettagli narrativi così cari all’amato Pissarro, s’organizza su una castissima iterazione di linee parallele all’orizzonte, con la sola, modesta eccezione del sipario di fronde ombrose sulla destra: che sembra, più che introdurre un ‘lontano’, aver funzione di riattirare sulla superficie più prossima la spazialità ulteriore, sgombra di determinazioni e ‘curiosità’ diverse, del paesaggio.
Trascorre poco tempo, e una serie di paesaggi nati a l’Estaque cercheranno tutt’altro: il clamore della luce mediterranea che, ritrovata dopo lungi anni trascorsi prevalentemente a Parigi o nell’Île-de-France, scoppiante sopra la distesa del mare sovrastata ma non contraddetta dal profilo lontano della montagna, riduce ancora l’interesse del pittore a sondare partitamente i dettagli narrativi del primo piano. Così avviene ad esempio ne Le golfe de Marseille vu de l’Estaque, qui esposto, databile al ’79 circa, nel quale si realizza compiutamente il pensiero solo confusamente intuito da Cézanne già tre anni avanti, quando scriveva a Pissarro, dall’Estaque appunto, di alcune tele proprio allora iniziate su sollecitazione di Victor Chocquet: soggiogato allora da quel luogo ove “il sole è così spaventoso che mi pare che gli oggetti si staglino come in silhoutte non solo in bianco e nero, ma in azzurro, in rosso, in bruno, in viola. Posso sbagliarmi, ma credo che ciò sia agli antipodi del modellato”12 (corr. p. 152).
George Rivière, commentando questi mari d’un azzurro unito alla loro prima apparizione, in occasione della terza mostra impressionista, parlò acutamente di una dimensione di “memoria” che sembrava far aggio su quella della vita13. E davvero può dirsi che inizi di qui la lunga vicenda della “sensazione” che Cézanne vorrà d’ora in avanti opporre alla semplice “impressione” ottica; e di quella mai stanca, oscillante tensione fra realtà e sua trasfigurazione che guiderà i suoi sguardi sulla natura: tensione che s’appoggia, ora, anche sul nuovo modo di disporre il colore sulla tela, per tocchi separati, brevi o più lunghi, e disposti sia perpendicolarmente sia diagonalmente sulla pagina pittorica. Una tecnica, questa, che, ulteriormente sviluppata, assicurerà all’immagine una immediata distanza da ogni intento soltanto mimetico nei confronti della realtà.
È ormai colma la stagione della maturità di Cézanne, a questo scadere dell’ottavo decennio del secolo: così che la nascita di quello che è stato chiamato il “tratto costruttivo” di Cézanne, attraverso il quale il pittore assicurerà alla sua immagine quella persistenza di “forme solide, pesanti, attraverso il solo colore, senza ricorrere al chiaroscuro tradizionale”, che s’annunzia in vari dipinti di fine decennio14, è infine perfettamente esplicata in un dipinto cruciale come Le Pont de Mancy, vero spartiacque fra due tempi dell’operosità cézanniana. Dopo aver sopportato datazioni anche molto più avanzate (fino al 1898), esso è ora unanimemente collocato tra ’79 e ’80: ma non è un caso se a questo dipinto, dove alla mobilità della trasparenza luminosa che lo stringe ancora alla radice impressionista s’unisce quel senso di stabile e d’eterno che permea tutto il tempo tardo ed estremo del pittore, siano toccate tali stupefacenti oscillazioni cronologiche. Esse stanno a dire che la conquista decisiva di Cézanne s’annida in un tempo assai alto della sua esistenza, non appena seppe che avrebbe voluto “fare dell’Impressionismo qualcosa di solido e durevole come l’arte dei musei”; e che da allora in avanti tutto s’è dipanato congruamente a quel fine, con infiniti dubbi ma senza cedimenti, tra riprese e nuovi slanci, e senza soluzione di continuità.
“Con il suo sguardo, avido di cogliere la forma e, per così dire, la pesantezza delle cose, egli buca l’atmosfera e non si ferma a contemplarne le molteplici variazioni, come hanno fatto gli impressionisti”; “I corpi visti nello spazio sono tutti convessi”; “Guardi, da quest’albero a noi c’è uno spazio, un’atmosfera, d’accordo; ma poi c’è questo tronco palpabile, resistente: un corpo…”15: sono stralci di alcune delle testimonianze rese da Cézanne, e raccolte da coloro – prevalentemente giovani colleghi – che gli facevano visita allo studio nei suoi ultimi anni, quando le continue, assillanti sollecitazioni dei suoi occasionali interlocutori lo spinsero ad una faticosa elaborazione teorica del suo metodo e, spesso quasi controvoglia, a motivare criticamente le ragioni del lavoro. I brani citati, e molti altri con essi, concernono un argomento presto intuito dallo stesso Cézanne come cruciale, e atto a spiegare, prima di tutto a se stesso, il modo del suo sguardo sul mondo; argomento che costituisce la ragione prima dell’urgenza che egli avvertì – appunto a principiare dalla fine dell’ottavo decennio, e poi sino alla fine – di staccarsi dalla visione puramente ottica elaborata dall’impressionismo. Argomento che può riassumersi in poche parole: la necessità di assicurare (mantenendo quella riduzione del visibile ad una nozione di superficie che ignorasse gli accorgimenti prospettici, chiaroscurali e plastici tradizionali: riduzione che l’impressionismo aveva conquistato, consegnandola come definitiva acquisizione ad ogni pittura che si volesse moderna) la persistenza dell’oggetto, del suo peso, della sua ansia, del suo spessore d’esistenza, entro quella pittura di superficie che sembrava doverlo negare.
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“La sua pittura parrebbe un paradosso: ricercare la realtà senza dimenticare la sensazione […] senza chiudere i contorni, senza circoscrivere il colore col disegno, senza comporre la prospettiva né il quadro. Ecco quel che Bernard chiama il suicidio di Cézanne: che insegue la realtà e si nega gli strumenti per possederla”, ha scritto Merleau-Ponty in un saggio memorabile16. Ed è proprio da questo paradosso che nasce la grandezza della pittura di Cézanne: sulla quale sta scritta, ad ogni passo, la titanica immensità dello sforzo di conciliare due istanze opposte, egualmente irrinunciabili. Povero strumento per sanare quell’ansia sarà la “petite sensation” che egli riconoscerà e ammetterà, come via personale, di fronte alla natura, cui abbarbicare il lavoro: Una “piccola sensazione” lontana da ogni agguerrita e vana teoresi. E la “perseveranza”, l’“ostinazione” in quel lavoro: sino agli ultimi giorni: “mi sono ripromesso di morire dipingendo”, scriverà a Bernard a poche settimane dalla fine17.
Nelle nature morte e subito dopo nei ritratti, il “paradosso” di Cézanne è evidente a partire dalla fine degli anni Ottanta: opere capitali come La table de cuisine, o come la versione maggiore di Madame Cézanne au fauteil jaune, frastornano le leggi prospettiche e ignorano quelle disegnative e chiaroscurali, assicurando nel contempo a ciascuno degli oggetti raffigurati una pregnanza, un peso, una certezza d’esistenza assoluti: come fosse “sordamente illuminato da una sua internità”18 l’oggetto resiste ai molteplici punti di vista da cui è guardato, proprio mentre quella frantumazione dell’unità di tempo e luogo che Cézanne attua sembra insidiare la sua ‘normale’ esistenza.
Nel paesaggio questa radicale rivoluzione operata sulle convenzioni dello sguardo, che nella natura morta e nel ritratto ha la sua acme attorno alla metà degli anni Novanta, s’annuncia anch’essa attorno allo stesso giro di tempo (già, in parte, in Maison et ferme du Jas de Bouffan, datato nel catalogo del Rewald al 1887 circa), ma ha poi uno sviluppo più lento e meno esclusivo, seppur forse ancor più duraturo. Forse perché, se l’autorità del ‘museo’ e degli antichi maestri – che sono fra le fonti più frequentate dall’immaginazione creativa di Cézanne giovane – esplicata soprattutto nella pittura di figura è nel tempo più tardo drasticamente allontanata (“Il Louvre è un buon libro da consultare, ma non deve essere altro che un intermediario”; “Il Louvre è il libro attraverso il quale impariamo a leggere. Ma non dobbiamo accontentarci d’apprendere le belle formule dei nostri predecessori”, scrive in due occasioni a Bernard19), lo spettacolo della natura, com’esso si manifesta principalmente in un paesaggio, assume progressivamente per Cézanne il ruolo di una guida quasi sacrale, con la quale è necessario ogni volta rinnovare il dialogo, alla ricerca d’un “accordo tra l’oggetto e il soggetto”20: “dunque – dirà ancora a Bernard – la tesi da sviluppare è […] di restituire l’immagine di quel che vediamo, dimenticando tutto ciò che è apparso davanti a noi. Il che, credo, deve bastare all’artista per far trasparire tutta la sua personalità, grande o piccola che sia”21.
Fra i dipinti oggi esposti, La maison de Bellevue (datato dal Rewald al 1890 circa: ma già da Venturi – forse a ragione – un poco oltre) è, col franare d’ogni sintassi prospettica, con gli incastri della geometria come impazzita che lo sommuovono, con le enormi masse che sembrano cigolare sotto il loro peso mal fondato, un episodio abbastanza isolato – oltre che altissimo – nei paesaggi assegnabili allo stesso giro di anni. Altrove, come ad esempio ne Le grand pin (da retrocedere dentro gli anni Ottanta) più che la massa, il peso, la resistenza del corpo del grande albero al valore dissolvente dell’atmosfera (per usare i termini stessi, sopra ricordati, che nel 1902 Cézanne usò incontrando Jules Borély), la preoccupazione del pittore sembra essere quella di catturare quelle che chiamerà le “sensazioni coloranti che determinano la luce”22. Sensazioni che peraltro Cézanne sembra percepire non aliene da un rischio d’“astrazione”, implicita nella pratica del disegno, che non deve precedere il colore, ma non può del tutto eclissarsi in sua presenza: “Il disegno puro è un’astrazione. Disegno e colore non sono affatto distinti, perché tutto in natura ha un colore”. E ancora: “Via via che dipingi, disegni. La giusta tonalità dà al tempo stesso la luce e il modellato dell’oggetto. Più il colore diventa armonioso, più il disegno si viene precisando”23.
È questo uno dei passaggi più impervi del pensiero di Cézanne tardo ed estremo, ricco sempre di aporie, e d’altronde consegnatoci da una serie di testimonianze spesso anche conflittuali nei loro intenti, e che sembrano voler come tirare quelle sofferte riflessioni dalla loro parte. Ma non v’è dubbio che la formula di Maurice Denis dell’“impegno negativo”24, con la quale Denis sintetizza la stratificazione di senso e la conseguente complessità della prassi dell’ultimo tempo cézanniano corrisponda nel profondo all’animo del pittore, in cerca allora di ardue mediazioni fra tensioni eteronome. Talvolta, queste tensioni precipitano all’interno di una stessa opera, e sembrano come spezzarla: così avviene, ad esempio – fra i molti straordinari squarci di natura avvistati sulla “carrière de Bibémus”, presso Chateau Noir – ne Le rocher rouge, dove ad un trattamento del motivo centrale della verzura costruito a brevi tocchi separati di colore leggero e infinitamente variato (dunque un quasi paradigmatico esempio di quelle “sensazioni coloranti”, armoniose, cui era affidato il compito di restituire la mobilità del reale) s’affianca e confligge il taglio brusco, vicinissimo, incombente della parete rosseggiante: che sta forse lì, con tutto il suo carico d’asprezza, a dire la crudele pesantezza del reale, e certo vale a rigettare addosso a chi guarda, volgendolo in dramma, quel po’ di serenità che percorreva il paese lontano.
La “materia in via di darsi forma”, un “ordine nascente”, l’“impressione della natura còlta alla sua origine”: ancora una volta è Merleau-Ponty25 ad aver fino in fondo penetrato la verità primordiale della natura di Cézanne. Così essa si manifesta in una delle opere ultime, e certo fra le più indimenticabili, che del pittore propone la mostra di oggi: quel Rochers et branches à Bibèmus che, seppure spartisca alcune delle scelte formali che lo costituiscono con quelle esplicate in molti dipinti di metà anni Novanta, viene plausibilmente spostato dal catalogo generale al tempo estremo di Cézanne26. Quantunque Rewald ritenga il dipinto “non facile da ‘leggere’”, e quantunque egli stesso riferisca dell’incertezza dello stesso Ambroise Vollard, che lo possedeva, nel trovargli il verso corretto, Rochers et branches à Bibèmus è un affondo straordinario al cuore d’una natura in subbuglio, da cui chi guarda è infine stordito, e vinto. Pittura, solo, perché ogni racconto vi è eluso, ogni fuga fantastica interdetta. Pittura in cui lo sguardo annega, privato d’ogni appiglio. Solo sente, chi guarda, l’ineluttabilità di questa apparizione, in bilico fra ascesa e vertigine, fra colore e massa: forse, fra vita e morte. L’orizzonte vi è escluso: il piccolo brano di cielo, relegato in alto e all’estremità destra del dipinto, non basta a consentire una fuga plausibile allo sguardo. Mentre appena sotto quel breve ritaglio di cielo, una serie di spalti successivi si scavano nella roccia: e sembra di ascoltare dalla loro voce sorda, grave, ottusa, le parole celebri, misteriose, tante volte confessate come monito da Cézanne: “trattate la natura attraverso il cilindro, la sfera, il cono, il tutto posto in prospettiva”27. Con esse, e più con i dipinti di Bibèmus, Cézanne si consegna al tempo che verrà.
note
1. Cézanne. Les annèes de jeunesse 1859-1872, cat. della mostra, a cura di L. Gowing (ed. francese a cura di S. Patin, I. Cahn), Éditions de la Réunion des musèes nationaux, Paris, 1988.
2. M. Tompkins Lewis, Cézanne’s Early Imagery, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1989, p. 203.
3. Paul Cézanne. Correspondance, a cura di J. Rewald, Éditions Grasset et Fasquelle, Paris, 1978 [ed. cons. 1995], pp. 122-123.
4. J. Rewald, in collaboration with W. Feinchenfeldt and J. Warman, The Paintings of Paul Cézanne, vol. 1, Thames and Hudson, London, 1996, nn. 85 e 96.
5. G. Tinterow, Le paysage rèaliste, in Impressionisme. Les origines 1859-1869, cat. della mostra, a cura di H. Loyrette et G. Tinterow, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris, 1994, pp. 86-89.
Vedi inoltre, C. Lloyd, A. Distel, Paintings, in Pissarro, cat. della mostra, Arts Council of Great Britain and the Museum of Fine Arts, Boston, 1981, p. 72.
6. Cfr. Impressionisme […], 1994, cit., p. 344.
7. Cézanne si dichiarò in quell’occasione “allievo di Guillemet”, che era quell’anno membro della giuria, e come tale, per via del regolamento allora in vigore, fu ammesso di diritto al Salon del 1882.
8. G. Tinterow, 1994, cit., pp. 348-349; J. Rewald, 1996, cit., pp. 113-114.
9. The New Painting. Impressionism 1874-1886, cat. della mostra, a cura di Ch. S. Moffett with R. Berson and B. Lee Williams, F. E. Wissman, Richard Burton SA, Genève, 1986, p. 126.
Rewald (1996, cit.) non menziona la mostra del 1874 nell’elenco delle esposizioni del dipinto (n. 198), che peraltro intitola Le quartier du four à Auvers-sur-Oise.
10. L. Venturi, Cézanne, “L’Arte”, XXXVIII, 1935, fasc. IV, p. 320.
11. H. Loyrette, in Cézanne, cat. della mostra, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 1995, p. 164.
12. Paul Cézanne. Correspondance, cit., p. 152.
13. G. Rivière, L’Exposition des Impressionnistes, “L’Impressionniste”, 2, 14 aprile 1877.
14. T. Reff, Cézanne’s Constructive Stroke, “Art Quarterly”, 3, Autumn 1962.
15. Le citazioni sono tratte, rispettivamente, da R. P. Rivière, J. F. Schnerb, L’atelier de Cézanne, “La Grande Revue”, 25 dicembre 1907; da L. Larguier, Le dimanche avec Paul Cézanne: souvenirs, L’Édition, Paris, 1925; e da J. Borely, Cézanne à Aix, “L’Art Vivant”, 1926, 2. Le testimonianze, attribuite dagli autori a Cézanne, cui resero visita ad Aix nei suoi ultimi anni, sono ora raccolte e commentate in M. Doran, Conversations avec Cézanne, Éditions Macula, Paris, 1978 (ed. it. Cézanne. Documenti e interpretazioni, Donzelli Editore, Roma, 1995).
16. M. Merleau-Ponty, Le doute de Cézanne, in Sens et non-sens, Éditions Nagel, Paris, 1948 (cons. in Cézanne, cat. della mostra, a cura di H. Adhémar, M. Sérrullaz, Éditions des Musées Nationaux, Paris, 1974, p. 8)
17. Cézanne a Bernard, Aix, 21 settembre 1906; in Paul Cézanne. Correspondance, cit., p. 327.
18. M. Merleau-Ponty, ibidem. I due dipinti sono i numeri 636 e 655 di J. Rewald, 1996, cit.
19. Cézanne a Bernard, Aix, rispettivamente 12 maggio 1904 e senza data [ma Aix, 1905], in Paul Cézanne, Correspondance, cit., pp. 302 e 313.
20. M. Denis, Cézanne, “L’Occident”, settembre 1907, cons. in M. Doran, 1995, cit., p. 178.
21. Cézanne a Bernard, Aix, 23 ottobre 1905, in Paul Cézanne. Correspondance, cit., pp. 314-315.
22. Cézanne a Bernard, ibidem.
23. L. Larguier, cit., in M. Doran, cit., p.16.
24. M. Denis, cit., in M. Doran, cit., p. 182.
25. M. Merleau-Ponty, cit., pp. 10, 12.
26. J. Rewald, 1996, cit., n. 881; già la prima indicazione di Venturi situava d’altronde il dipinto al 1900-1904.
27. In questa formulazione il concetto è esposto da Cézanne a Bernard, Aix, 15 aprile 1904, in Paul Cézanne. Correspondance, cit., p. 300; ma altrove Cézanne torna ad esprimersi con termini analoghi (vedi ad esempio Rivière e Schnerb, e Denis; cfr. M. Doran, cit., pp. 94 e 101).