‘Giovanna Bolognini’, Ferrara, Civiche Gallerie d’Arte,Pac, 2001
“Neri fili di ferro cotti, torti, intrecciati e saldati”: così Giuseppe Appella nominava di recente la materia, quasi esclusiva, che costituisce la scultura di Giovanna Bolognini; e si deve muovere di qui, da questa sua scelta così forte, radicale, apparentemente ostica, per dire della sua opera. Perché quel materiale che le macchia e le ferisce le mani, che la costringe a un lavoro arduo ed aspro, quel ferro che ovunque l’assedia nello studio, fino a farne sembrare angusti, quasi senz’aria e senza più un orizzonte, gli ampi spazi – quella scelta non facile è per lei due volte, e per opposta ragione, cruciale.
È cruciale per il modo in cui Giovanna, avendo scelto il filo di ferro, si piega a quella sua materia, assecondandone gli istinti, le vocazioni (sarà forse per questo che questa donna lombarda mi ha fatto pensare, fin dal nostro primo incontro, a Nanni Valentini, e alla sua comprensione profonda, al suo intero affidamento al pensiero di Bachelard). È un ritmo nel fare, quello che la Bolognini desume dal filo di ferro, forse un abbandono: che allontana subito dalla sua opera l’egida di un progetto configurato in anticipo sul nascere dell’immagine. Immagine che rimane invece indissolubilmente legata al senso di precarietà, di sorpresa, di stupore che il flettersi, l’intrecciarsi, l’ammatassarsi di quel filo, il suo farsi di volta in volta percorso o ansa, trasparenza o schermo, luce od ombra – e tutto ciò in una mai prevedibile, mai scontata successione – le assicura.
Ma del pari cruciale è, accanto a quell’abbandono, la fatica, la somma dei gesti da dir quasi artigianali che il ferro e il suo filo pretendono da lei: fatica che le si pone come confine da valicare, come argine o muro da eludere e dimenticare: perché dal suo lavoro non vuole che discenda spavento, ma sogno; non angoscia, ma incanto.
Guardiamo a queste sue cose: e le troveremo avvolte, circondate, accarezzate da una ‘figura’ che non è memoria d’esistenza ma avventura della mente: ipotesi, chimera, fantasma. E sempre sembra tornare, quel sogno, a una dimensione primigenia, lontana nel tempo o nello spazio: verso un’alba innocente del mondo, forse; verso una nostra infanzia. Tanti titoli suoi (La colonna dell’oracolo, Punto d’inizio, Scudo per gli uomini che vanno alla guerra, L’origine del sentiero …) dicono di questo viaggio favoloso che Giovanna ogni mattina, nel suo studio affollato di ferro, intraprende, à rebours: ripetendo – come cantasse una nenia – i gesti necessari a trasformare quel grigio, quel nero in un volante Tappeto dei sogni.
Il volo, il viaggio, allora: a riscoprire altri luoghi, altre epoche dell’uomo; ov’egli sia stato, chissà, meno colpevole. Ma almeno un’altra ‘figura’, assieme a quelle, è familiare a Giovanna, e le dà occasione ricorrente di forma: ed è quella della dimora. Le capita allora di immaginare luoghi protetti, segregati: salvi dal mondo, come una casa che sorgesse su una palafitta; ma in ascolto degli altri, trapunte come sono di vuoto, d’aria e di vento, quelle sue dimore: Il primo antro, Tornare a casa, Cannocchiale di Galileo.
Ecco, nascono così, a baluardo, quei luoghi buoni costruiti pazientemente dal filo nero e tagliente: “come trappole che catturano lo spazio facendosene corpo”, dice Olivieri; tese verso un’”ambiguità silenziosa che permea lo spazio in cui sono contenute”, risponde Giovanna, nel colloquio denso e bellissimo che segue a questa pagina. Ambiguità fra “esserci e sfuggirsi (…), fra l’essere oggetto e l’essere immateriale”; fra trasparenza e sordità della materia, fra fiato e grido, luce e notte, tra fuga e possesso della realtà. Così, non battezzata da un solo progetto, cresce questa scultura.