‘Roberto Almagno. Vènti’, Roma, gall. Il Segno, 2008
Frontiera, 2011, legno, 110 x 65 x 25 cm
Segnare con poco un vasto spazio: in un bilico slittante “tra stare qui e andare altrove”. Segnare, quasi soltanto con quella luce che s’interna nel nero, e di lì fa un fioco barlume donde riemerge, in punti, il colore sottostante del legno toccato dalla fiamma: una ruggine, striata dalla raspa. Segnare lo spazio attorno con un gesto breve, “errante e senza meta”: fino al silenzio, fino a che “quei segni, che mi son sembrati tanto forti, svaniscono”: fintanto che rimanga della loro apparenza non più che un’eco – l’immagine del loro trascorrere veloce. Mentre, accanto a quei segni, le ombre corteggiano le forme slanciate: s’adagiano ai piedi dei loro percorsi, imprimono la loro traccia sulla parete, al suolo, nell’ambiente; e ridonano alla figura un suo fragile corpo, una certezza che sembrava smarrita.
Roberto Almagno raccoglie oggi al Segno il lavoro pressoché intero dell’ultimo anno: e dimostra che nulla è mutato in quelle che sono le sue fondamentali scelte di forma: quelle, appunto, che si sono appena nominate. E che furono palesi sin dal lavoro che egli mostrò – sono trascorsi giusto tre lustri da allora – soltanto a pochi passi di distanza dalla galleria di Angelica e Francesca Savinio che oggi lo ospita, all’Isola di Corrado Rava. Avevamo certezza allora (Rava, io stesso che lo presentai in quell’occasione, e molti altri; ma prima di tutti lui stesso: che ha sempre considerato quella sua personale come una tappa cruciale del suo tragitto) che un vero scultore fosse nato, che una maturità fosse stata definitivamente raggiunta. E che quella maturità a lungo incubata, e che allora per la prima volta sbocciava, quasi sorprendentemente già colma, ne avrebbe fatto uno scultore raro, eccedente da ogni strada battuta: inatteso e, in qualche modo, di lì in avanti, destinato ad un percorso solitario.
Tutto lo faceva presumere. A cominciare dalla materia che sceglieva: che era povera e casuale nel primo prelevamento operato nel flusso dell’esistenza – rami, soltanto, caduti e dispersi in un bosco –; ma poi tanto lungamente e ostinatamente lavorata, così esplicitamente trasfigurata da una sapienza antica che viene quasi da dire artigiana, così da risultare infine in tutto inattuale, e senza commercio alcuno, nel panorama della ricerca dei suoi anni. Per finire con il nitore con cui si svelava, sin da allora certissima e ineludibile, la vocazione spaziale di quella scultura: tesa, oltre ogni tautologia, a designare una spazialità altra e ulteriore rispetto a quella materialmente occupata; e nella quale il segno che la attraversa sappia farsi risonanza, eco, proiezione, slancio oltre i propri confini. Tanto che, fra i “comandamenti […] suggeriti in solitudine” alla scultura da Arturo Martini, Almagno ha scelto una volta per sé quello che più degli altri rinnega il corpo e lo stare e sceglie il cammino, lo slancio, lo spazio: “fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione”.
“Venti”, chiama oggi questa sua mostra. Che al vento sembra dedicata; di cui Almagno sembra quasi voler ridire le cento storie diverse che quel vento è capace di scrivere in un bosco. Attorno a Selva n.2, che ripercorre l’idea di una scultura costituita da più voci fra loro dialoganti – idea nata con Ceneri, 1995, sviluppata da Memoria e approdata di recente alla vastissima dimensione di Sciamare –, Almagno riunisce oggi due gruppi coesi di sue immagini. Nel primo, un segno isolato percorre lo spazio, sgusciante, come ascoltandone e ripetendone il silenzio (Legame, ad esempio; ovvero Spoglia, Segno …). Sono immagini d’assoluta castità, quasi in cerca di un nulla che costeggiano senza che niente le turbi. È l’approdo perfetto di quel sogno di una scultura mossa alla vita solo da un soffio che egli, memore allievo di Fazzini, da sempre ricerca. Nel secondo, torna oggi, con più insistenza forse che non nel recente passato, la designazione di un luogo (Spalto, Rifugio, Nido, Grembo…) che è per Almagno – fin dai titoli – luogo di nascondimento, riparo, o di segreta nascenza. Tetragoni al frastuono dell’esistenza, quei luoghi si ripiegano su se stessi a difesa, e mettono in figura, con il lieve flettersi di una piccola concavità, il bisogno loro di appartatezza, di solitudine, di lento ascolto del venire al mondo dell’immagine.