‘Achille Perilli: il tempo cruciale’, in ‘L’espressività del segno’, Institut Matildenhohe, Darmstadt (Hausser Media, Darmstadt), 2005

Perilli-1Le rocce dell’antica saggezza, 1957, tecnica mista su tela, 80.7×99.7 cm.

 

“Risalire dall’informel alla forma, dalla forma all’immagine, dall’immagine al segno, dal segno alla traccia, dalla traccia alla memoria, dalla memoria all’inconscio, dall’inconscio alla poesia vera, assurda, immediata di un qualcosa che non è più soltanto noi o noi oggi o noi domani o noi ieri, ma tutti, sempre, ovunque”: è una circolarità non teleologica e come senza fine, indefinitamente avvolta su se stessa, in bilico sempre fra emersioni e nuovi crolli, tesa per un attimo verso una luce ordinante, forse verso un progetto, e poi ancora intrisa d’ombre, annottata e ansiosa, quella che si configura allo sguardo di Perilli nel 1957 (“L’esperienza moderna”, 2, agosto-settembre 1957, p. 30) come sentiero – problematico, ma ormai necessario, dopo aver declinato ogni possibilità dell’astrattismo storico – di verità. Dopo aver tanto conosciuto, pensato, trasmesso alla cultura nostra schiudendo per essa orizzonti sconosciuti o dimenticati – dada e surrealismo, avanguardie russe e slave, scrittura orientale, fra l’altro – adesso egli sa appena quel che non vuole, quel che si lascerà alle spalle: “abbandoniamo il razionale, il naturale, il concettuale, il simbolico”; sa che cercherà all’opposto (memore, forse, di Klee, che affondava lo sguardo nel luogo “dei morti e dei mai nati”), cieco come un rabdomante, in territori vasti e dai confini nebulosi: quelli “dell’alchimia, del ritorno e del perdersi in sé, dell’automatismo, della calligrafia, dell’assurdo”. Ancora, “di una calligrafia ritmata dalla memoria, con il gesto automatico che segna, cancella, perde e ritrova l’immagine”.

Ora, se si guardano le immagini delle due opere che corredano, sul numero 3-4 de “L’esperienza moderna” (dicembre 1957), il testo di Ponente su Perilli e l’Epistola al signor Perilli di Ripellino, La minaccia e Poesia per Carla, entrambe datate al medesimo ‘57, si ha da una parte una nozione precisa della complessità (e non univocità: come già lasciavano intendere i molti riferimenti ed orientamenti dei testi teorici di Perilli risalenti a quegli anni) dello sviluppo ultimo della sua pittura, d’altra parte si riconosce nitidamente il percorso compiuto dal pittore per traghettare le esperienze dell’ultimo biennio a quella soglia d’assoluta maturità e felicità espressiva che tocca quel torno di tempo, e che si protrarrà in lunghi anni a venire. Poesia per Carla ha già scelto quel manto di materia cromatica emozionato, corroso quasi dalla lenta vibrazione del tono trattenuta su un unico registro timbrico, che sarà di tutta la sua pittura sino all’aprirsi del nuovo decennio; ma in quel manto – qui un sussurro complice di ocra, dalle più pallide e acquoree alle più fonde e vischiose – si scrive un segno condotto ancora con fermezza dalla mano e dal polso, trattenuto giusto a mezzo della pagina pittorica, ove esso scorre con la quieta certezza di un orizzonte. L’incipit, nel dipinto, è a sinistra; ad esso segue lo scivolare lento e cadenzato, sull’asse mediano e verso destra, dei brevi vortici e gangli ed estensioni di un segno che si vuole ancora struttivo, ordinante. Smagrisce per contro, il segno, ne La minaccia: ove esso s’è fatto quasi sismografia d’un minimo evento di cui pare voler registrare l’eco, come in lontano. Lievi, risuonano sommessi, danzano, s’impigliano i filamenti neri sulla superficie bianca crepitante delle nuove materie: colle, sabbie, smalti, polveri di gesso e di marmo.

Non è difficile allora fare fra i due dipinti non una gerarchia di valore, ma sì di tempi: il secondo ponendosi ad evidenza, nella ricerca di Perilli, ad un grado più avanzato. In un testo fondamentale apparso sul primo numero de “L’esperienza moderna” (Nuova figurazione per la pittura, aprile 1957), aveva scritto: “Quel che deve essere fatto è il ritrovare la capacità d’investire tutta la realtà dell’esistente nella traccia più elementare, nell’impronta più semplice d’un segno. E perché questo sia possibile occorre accettare altri modi d’essere dello spazio, un nuovo comporre per asimmetria e fuori campo, una funzione predominante dell’automatico, un ritorno continuo ed ossessivo della memoria. L’immagine nasce allora non in conseguenza di un’elaborazione sistematica; ma per improvvisi sbalzi, per repentine riprese, per illogici ritorni”. A quanto qui elaborato teoricamente, risponde immediatamente la pittura (probabilmente negli stessi mesi: giacché in Perilli, al contrario di quanto sovente avviene in  altri suoi compagni di strada, ad esempio in Toti Scialoja, elaborazione teorica e prassi pittorica si danno quasi contestualmente): e ne La minaccia, che è certo fra i primi dipinti a farsi pienamente interprete del nuovo linguaggio, i propositi così lucidamente espressi in quel testo sono quasi per intero già attuati. Solo, direi che si eccettua dal pieno rispecchiamento fra teoresi e prassi l’idea del “fuori campo”, anche più tardi ribadita da Perilli come tensione implicita del suo fare, ma in realtà non mai del tutto pertinente alla sua pittura: che – ed è quanto, soprattutto, la tiene distante da quella per altro verso non difforme di Twombly, nei modi ch’essa assunse contestualmente, dunque fra ’57 e ’59-’60 – non ha mai rinunziato all’idea di campo, di spazio dunque in sé concluso, ove le tensioni nascano, convivano, confliggano e infine si risolvano senza necessariamente presumere un indefinito ‘altrove’, oltre lo spazio della tela.

Considerazione, questa, che conduce a riandare alle radici della prima compiuta maturità di Perilli, annidate nell’evolversi di un’idea di astratto che, presto liberatasi delle eredità neocubiste desunte a guerra appena conclusa dalla pittura dei jeunes peintres de tradition française (verso i quali lo indirizzava, se non il comune andare di una generazione, il magistero di Venturi, ascoltato a Roma a partire dal ‘45), e poi d’una assunzione testuale del concretismo di Magnelli (conosciuto a Parigi nella primavera del ’48, e subito percepito come maestro il cui “nome è necessario inserire tra quelli di Kandinskij e Mondrian”, secondo quanto scriverà su “La Fiera Letteraria” del 20 febbraio 1949), trovava formulazione piena nel biennio ’50-’51 con una serie di opere fra loro coese, nelle quali tutte torna nel titolo (sempre importante, in Perilli, per stabilire la chiave interpretativa o la temperatura emotiva del dipinto) la parola “spazio”. È in queste opere che non solo Perilli raggiunge una qualità di pittura assoluta e fortemente individuale, svincolandosi ormai definitivamente da quella strada comune intrapresa dal ’47 con i coetanei di “Forma”, ma matura altresì quell’idea di conflitto, o duplicità, o ambiguità della percezione del reale che resterà luogo sempre da lui ritrovato nel corso degli anni: sino alla stagione ‘falsamente’ geometrica, fino all’ossimoro geometrico-organico delle sculture ultime. E, assieme a quell’idea di doppiezza necessaria a dar conto del reale, quasi anzi ad essa consustanziale, nasce in lui l’idea di una spazialità che quel conflitto contenga, organicamente. L’idea d’uno spazio, dunque, rattratto, in sé raccolto, che se può ascoltare talora e in qualche misura la seduzione dello spazio potenzialmente indefinito che agisce e preme oltre i confini della tela (nozione verso la quale propendono, peraltro, alcune delle più felici letture di questo tempo di Perilli, come quelle formulate da Pia Vivarelli e da Elisabetta Cristallini nel catalogo dell’antologica del 1988 alla Galleria Nazionale di Roma), non mai lo farà nei termini di indifferenziazione che presuppone l’all over della pittura statunitense legata all’action painting, per la quale la spazialità concretamente esperita nell’opera è davvero porzione d’infinito.

Non ancora, allora, la Composizione analitica, del 1950, governata dal gioco del gioioso incastro cromatico dei tasselli imperfettamente geometrici (davvero una sorta di grande “decorazione”, per usare un termine che coraggiosamente era occorso anche nel manifesto di “Forma”), ma certamente già in Due forze in contrasto nello spazio, egualmente datato 1950, o ne Il primo piccolo sincreto (entrambi esposti alla mostra “Arte astratta e concreta in Italia”, promossa dall’Age d’Or e dall’Art Club alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel febbraio ’51), si fonda quella spazialità che è soprattutto luogo di incontro, e scontro, di ipotesi opposte: per ora da Perilli distinte in quella di Kandinsky e quella di Mondrian (anche se riconosce che “Magnelli e Vantorgerloo hanno condotto molto avanti quei valori assoluti”; così in Sono due spazi, testo pubblicato nel catalogo della citata mostra alla Galleria Nazionale di Roma, 1951: ove peraltro i due spazi cui si allude non sono quello per così dire ‘astratto lirico’, kandinskiano, e quello neoplastico, mondrianeo, ma piuttosto lo spazio dell’esistenza e quello dell’arte). Ipotesi che visivamente, e quasi didascalicamente, egli contrappone, costruendo sulla sinistra di Due forze in contrasto nello spazio una rigida gabbia di tasselli cromatici di colore puro e inemotivo, arginati da un segno spesso che li isola l’uno dall’altro, e sulla destra una sorta di nuvola di segni fittamente incrociati che par avanzare minacciosa verso la ‘figura’ geometrica arroccata di fronte ad essa. Al centro lo spazio, vuoto, che è il terreno su cui e per cui si disputa lo scontro.

Quanto di rigidamente programmatico era ancora in questo dipinto, in cui certo il progetto vincolava in parte l’abbandono della mano a impreviste seduzioni, svanisce d’improvviso l’anno seguente, in particolare nella serie importante intitolata al “grande spazio”, di cui la mostra di oggi accoglie un esempio. Annunciata da alcune carte datate al 1950, è qui ad evidenza la suggestione di Hartung a guidare Perilli verso, da un lato, il libero svincolarsi del segno sulla pagina pittorica, dall’altro verso il suo intridersi del colore del fondo, liquido, amniotico. Tache, davvero, ormai quel colore che s’allarga impreventivo, che non trova ad arginarlo confini disegnativi, che si dispone ad accogliere sul suo fragile corpo la griglia sovrapposta dei segni neri, talora sormontanti la stesura più lieve del colore di fondo, talora inabissati nel suo manto cromatico. “Hartung è tra i pochi autentici innovatori apparsi di recente – scriverà di qui a poco Perilli su “Arti Visive” – e il suo frantumare la forma nello spazio e quella sorta di automatismo calcolato che domina nella sua pittura sono esperienze grevi come una pietra”. È il segno di Hartung che s’ammatassa in gorghi, in vortici carichi d’emozione; poi quello che, proprio a partire dal ’50, si fa più carico e spesso, massivo e coprente, con la ‘figura’ che nasce sovente dall’incrocio di ascisse e ordinate, al di là delle quali, dal fondo, sgorga una luce nascosta – è questo segno, già in parte presente nelle opere, da tutti disattese, di fine anni Trenta, e ora mostrate dalle gallerie di Lydia Conti e di Louis Carré (ma anche da Colette Allendy, ove Hartung partecipa alla mostra “HWPSMTB”, e da Nina Dausset, presso la quale espone in “Véhémences confrontées” nel ’51: a testimonianza del suo largo credito, acquisito ormai stabilmente anche presso la cerchia di Tapié), a sedurre Perilli. Ma soprattutto è, credo, la percezione d’una pittura capace d’attingere ad un “automatismo calcolato” – che sfugga dunque al gioco, gridato sempre sopra le righe, dei surrealisti – e di coniugarlo con le premesse, non dimenticate, di Kandinsky e di Klee, a fargli percepire Hartung come la sponda più prossima al suo lavoro (e quasi l’unica possibile ormai, fra quante potevano avvistarsi a Parigi: assieme forse a Wols, che conterà però solo più tardi per Perilli, e forse a Maria Helena Vieira da Silva), dopo il superamento delle ipotesi concretiste di Magnelli.

Mentre la pittura, negli anni a venire, segna come un tempo d’attesa (non senza che ne discendano peraltro episodi già alti e interamente compiuti, come Monumento al Marabù ignoto e Trino, qui esposto, entrambi del ’54; o, sempre ad esempio, La festa triste, del ’55: dipinti però che sembrano come tirare le fila di sue esperienze in via di concludersi piuttosto che sbilanciati verso il futuro), è sulla carta – luogo da sempre privilegiato della sua ricerca – che Perilli compie una sorta di ultimo sondaggio sulle vie che gli schiudono le sue esperienze, sempre più diramate, di cultura visiva internazionale. Esperienze che continua ad accostare, inoltre, con una volontà di rischio davvero non comune in un artista d’ormai lungo e riconosciuto percorso. Vengono così opere, e cicli d’opere, anche inattesi: come le carte, datate al ’53, in cui il surrealismo sembra avvicinato in una chiave quasi figurale (i Senza titolo, ad esempio, incuriositi certo da Ernst, schedati ai numeri 46 e 47 dall’esauriente censimento della Cristallini nel catalogo dell’antologica del disegno promossa dall’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma nel 1992); o come il gruppo in singolare consonanza con certi episodi di spazialismo e nuclearismo milanese (1954).

Poi, allo scadere del ’56 e ai primissimi mesi del ’57, si datano numerose le carte ove il segno nero prende a scriversi, urgente e quasi gestuale, sul bianco del foglio: secondo un modo che, se ha certo preso atto dell’analogo iscriversi dell’aspra dialettica del bianco e del nero nell’opera di Kline (conosciuta allora a Roma attraverso la galleria Spazio e la rivista “Arti Visive”, poi attraverso la “Rome-New York Art Foundation” dell’Isola Tiberina), pensa però lo spazio che contiene e rinserra quel gesto in modo affatto diverso, come campo in cui ogni tensione abbia ad essere risolta, a dal quale possa nascere, in luogo del grido e dell’indeterminata estensione statunitense, un’immagine. La stessa “immagine” di cui Perilli dice nei suoi scritti teorici del ’57 più sopra ricordati.

Di tanto, allora, è lastricata la strada compiuta da Perilli fra il tempo dell’Age d’Or e quello de “L’esperienza moderna”: straordinaria rivista, quest’ultima, uscita fra ’57 e ’59 in soli quattro fascicoli, ma che ha lasciato un segno indelebile nella cultura, non solo artistica e non solo romana, dei propri anni. Gli fu compagno d’avventura Gastone Novelli: nel profondo congenere. Sulle pagine della rivista (assieme alle firme di Nello Ponente e di Cesare Vivaldi, ma anche di Angelo Maria Ripellino e di Fosco Maraini) si videro immagini – oltre che di Perilli, Novelli, Twombly – di Klee, Picabia, Ernst, Schwitters, Wols, Arp; e assieme quelle di Corpora, Scialoja, Capogrossi; di Fontana e di Dova; di Accardi e Sanfilippo; di Boille, Sterpini, Sordini, Bertini; di Corneille e Alechinsky; di Kline e di Soulages; di Tàpies, Canogar, Millares, Cuixart, Saura; di Götz e di Platschek; di altri ancora. Età, mondi diversi – che, tutti, Perilli aveva avvicinato, compreso, amato – si davano la mano, scambiavano parole, pensavano una comunanza. E questo è soprattutto straordinario, sfogliando oggi le pagine de “L’esperienza moderna”: il vedervi raccolte esperienze di radice diversa, lontane nello spazio e talora nel tempo, che per un attimo si stringono l’una all’altra, disposte persino a riscrivere o scancellare per un attimo la loro storia individua, pur di pensare e vivere un comune progetto. E in ciò sta il segno, che è difficile sottovalutare, scritto allora da Perilli.

Intanto, mentre componeva le pagine della rivista, la pittura trovava, assieme a ritmi d’intensità sino ad allora sconosciuta, e ancora una volta in perfetta coincidenza con il pensiero teorico su di essa, una sua acme. Da Il mondo consunto, 1957, a Il sigillo, 1960, è un’ininterrotta serie di tele felicissime, nella varietà d’un rapsodico andare di un segno sempre più impreventivo: che scopre talora racconti gorkiani, e talora si fa memore di un sogno di Licini; talvolta designa muti orizzonti sui quali scorre una danza ironica e quasi divertita, talaltra inventa spazi sui quali passa veloce un diapason d’energia. Nodo d’emozione o fiato della memoria; azzardo e calcolato abbandono; sorpresa e ricordo; stupefazione o appagata bellezza, quel segno. Un segno breve e contratto, celere, urgente, sempre: scritto su una materia che Perilli vuole “a presa rapida”, perché non ci deve essere tempo per esercitare, su di essa, accademie, per esibire sapienze, per pronunciare verità certificate in anticipo dalla ragione. Una materia, ha da essere, che non s’incanti del proprio splendore, che trattenga il suo spessore al di qua dell’orgoglio della haute pâte informale; che sia, appena, alveo sufficiente ad accogliere il segno, e il poco colore, che su di essa si scrive, s’impunta, trova ‘figure’ ogni volta inattese.

Il sigillo, esposto per la prima volta nella storica mostra “Crack 1960” presentata da Vivaldi alla galleria Il Cancello di Venezia, è il quadro che s’incarica, per primo, di registrare il cambiamento. Dopo di esso, un’altra felice stagione prende passo, nella pittura di Perilli: sono i “fumetti”, che segneranno, forse, il tempo più riconosciuto del pittore. Il tasso di novità di questi quadri, e la loro tempestività nel rispondere con voce del tutto autonoma al nuovo bisogno di figura che la pittura registra ovunque nel mondo occidentale all’avvio del settimo decennio, sono  certamente notevoli. La mostra di oggi può proporre, dei “fumetti”, una serie qualitativamente molto alta, che va da Una parabola sociologica, del 1961, all’Allegoria per Bresci, del ’65: una sorta di sconosciuta città lunare sopra la quale a grandi falcate incede un angelo ribelle liciniano. Presto, nel corso di questo primo lustro degli anni Sessanta, il formato dei dipinti, sempre maggiore, conterrà storie più  articolate e complesse, seppur non meno imperfette e interroganti. Ma basta porre attenzione all’incipit di questo modo, Il sigillo appunto, per scoprire come l’origine di quei racconti interrotti sia nel segno che, rabdomantico, scava il grembo della materia su cui s’iscrive in cerca di verità. Segno fra altri segni, ancora, è la gabbia chiusa che margina, sul nero, il rettangolo che racchiude la ‘storia’, appena in via di formarsi. Così, i “fumetti” saranno non altro che l’evolversi del modo del segno che, scaturito insieme dagli abissi della coscienza e dalla memoria, è andato, nella notte della ragione, in cerca di verità; e che ora più dichiaratamente cerca uno spazio che, sfuggendo l’infinitudine della cultura d’oltreoceano, si rinserri in se stesso, e ricordi ancora le proprie radici. Europee.