Gino Severini
- Gennaio 3, 2017 -
È stata impressionante, e del tutto fuori norma per un artista italiano della sua generazione, la fortuna che ha accompagnato Gino Severini lungo l’intera esistenza (1883-1966), densa di riconoscimenti che gli sono venuti ininterrotti, davvero da ogni angolo di mondo, e riferiti a tutte le molte declinazioni della sua pittura. D’avanguardia che fosse, quella sua pittura, e poi di “ritorno” (al Classico, al Museo). Data nel formato tradizionale della tela da cavalletto, e poi anticipatrice del sogno della grande decorazione murale. Nata fra le danze sfrenate dei caffè e dei ritrovi parigini più alla moda, o in mezzo ai silenzi di una chiesa spersa nelle valli e nei monti più appartati d’Europa. Bagnata da un colore acceso e fiammante, e poi governata dal più pensoso e casto modo del disegno e della geometria. Capace di sfiorare l’astrazione più radicale, di giustificarla teoreticamente, e di testimoniare poco dopo la necessità sua di rimanere avvinto a una figura naturale.
Donde è disceso dunque, a una pittura che negli anni ha rischiato l’ossimoro e la contraddizione, l’universale apprezzamento che da più d’un secolo, da quando si è manifestata, la circonda? Certo, in prima istanza, dalla sua qualità, a tratti stupefacente. Poi dall’essersi Severini, nato nella piccola Cortona, dato una seconda patria a Parigi, ovvero in quello che è stato fino alla metà del secolo scorso il cuore della ricerca e del mercato mondiale: d’aver lì esposto, sottoscritto manifesti, pubblicato saggi e volumi, e d’esservisi fatto amico e sodale del milieu che, nei tempi diversi che vi si sono succeduti, più vi ha contato: da Picasso e Braque a Matisse, da Rosenberg a Ozenfant e Le Corbusier, fino al filosofo cattolico Jacques Maritain e al critico Waldemar George.
Divisionista – come avvenne a tanti giovani italiani, e in particolare a tutti coloro che seguirono l’esempio di Balla – poi, già a Parigi, futurista a modo suo; cubista, e poi classicista (teorizzando questo passaggio in un libro-trattato subito famoso e molto discusso, Du Cubisme au classicisme, edito in Francia nel 1921 ma presto circolante, e “scandaloso”, in Italia). S’apre nel terzo decennio la stagione del muralismo: con la “pittura decorativa” che esilia progressivamente quella “da cavalletto”: nascono i cicli di Montegufoni, e – con la complicità ideologica di Maritain – della chiesa di Sensales in Svizzera. Negli stessi anni Venti, Severini fa poi parte del composito “Novecento” di Margherita Sarfatti e, più significativamente, degli Italiens de Paris, con i quali espone più volte a Parigi e in Europa. Tra l’altro a Venezia, dove nel 1930 è presente sia nella sala del gruppo (Appels d’Italie), ordinata da Tozzi e introdotta da George, sia con i “vecchi” futuristi: una fruttuosa ambiguità, che sarà confermata nel tempo da molte altre edizioni della Biennale veneziana, che lo vedranno presente sia in raggruppamenti storici sia con opere recenti, diversamente orientate.
A Severini, al suo talento proteiforme, sono state dedicate innumerevoli rivisitazioni, fino a quella recente e importante del Jeu de Paume nel 2011, curata da Gabriella Belli e Daniela Fonti. Tutte hanno privilegiato la prima età del pittore, a partire dal suo arrivo a Parigi nel 1906, e dalla sua adesione alle avanguardie prebelliche. La mostra che s’inaugura adesso alla Fondazione Magnani Rocca (curata dalla stessa Daniela Fonti con Stefano Roffi; aperta fino al 3 luglio; catalogo Silvana) spazia invece, attraverso cento opere di ogni periodo severiniano (tra le quali, notissime, la Danse de l’ours e la Danseuse dans la lumière del ’13; il Ritratto di Jeanne del ’16 e, del ‘27, l’Hommage à Fouquet; oltre ad una splendida Natura morta del ’20, che fa ripensare alla coeva Natura morta col tavolo tondo di Morandi), fino al tempo tardo e ultimo del pittore, dimostrandone tra l’altro l’influenza vastissima da lui esercitata nel secondo dopoguerra sulle generazioni più giovani, sia romane che milanesi.
È un tempo, questo, in cui Severini tornò a fissare la sua dimora in Francia – ospite di Maritain – ma in cui nonostante ciò la sua presenza in Italia, confermata d’altronde da molti suoi viaggi in patria, ebbe peso sullo sviluppo e l’affermarsi dei nuovi linguaggi, in bilico fra neo-cubismo e prime proposizioni astratte. Balla viveva allora in una periferia di Roma, dimenticato da tutti almeno fino al ’48 e alla quinta Quadriennale. E toccò allora a Severini, unitamente a pochi altri “grandi vecchi” – Prampolini e, da un certo punto in avanti, un altro toscano di Parigi, Alberto Magnelli – testimoniare la fecondità del retaggio delle avanguardie storiche (e vennero così, già in tempo di guerra, debitrici di Braque e Derain, la Natura morta con gabbia verde e la Nature morte à la mandoline; e poco dopo le magnelliane Rythme et architecture des Trois Graces o Rythme d’une danseuse au tutu violet; o il Melon sur papier rose e infine Zeus partorito dal sole – tutte opere qui presenti – che tanto avrebbero insegnato alla generazione di Sanfilippo e di Dorazio).