La Repubblica. Cuniberti
- Marzo 5, 2016 -
Bologna. Pirro Cuniberti è morto ieri a Bologna, che era la sua città dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Era nato a Padulle di Sala Bolognese nel 1923. Dopo i primi studi, venne la guerra. E, in Germania, avviene il primo incontro con la grande pittura: con la Camera di Arles di van Gogh, la cui riproduzione Pirro usa, ripiegata sotto il cappotto, per apprendere e insieme per proteggersi dal freddo. Poi va, nel ’48, alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra, e lì incontra l’opera di Paul Klee, che da allora gli sarà maestro di una forma capace sempre di “oscillare fra figurazione e astrazione, e di cogliere la costante disponibilità dei due momenti a scambiarsi le parti”, come ha scritto Nino Castagnoli. Nel ’57 ha la prima personale, introdotta da Francesco Arcangeli, che proprio allora ha consegnato alla rivista di Longhi, “Paragone”, la sua difesa dell’”ultimo naturalismo”, modo padano di un informale europeo allora egemone ovunque nel Continente. A quell’ampia coinè di pensiero anche Pirro s’accosta (è vicino, quegli anni, a Vasco Bendini, Sergio Romiti, Sergio Vacchi), ma elabora nel contempo un punto di distanza dal coinvolgimento emotivo che postula la poetica arcangeliana, dando luogo a un’immagine di volta in volta ambigua, interrogante, improbabile, quasi metafisica, sempre toccata da una sorta di affettuosa, memore ironia. Nascono allora le sue prime immagini sognanti, poetiche e tragicomiche, che sfiorano talora l’iperbole gargantuesca: paesaggi periclitanti, nature morte sbilanciate e frananti, figure – soprattutto – al limite della riconoscibilità, costruite con incroci di segni, di avvertenze, di ammonimenti. Sono fogli straordinari, quelli che vengono allora, ove tracce, serpentine, macule, sincopati incastri di segni si sfilacciano sulla pagina pittorica in cerca di spazio, di ritmo e di luce, più che di salde, congrue esistenze. E Pirro è in quelle carte trascinato già piuttosto verso la rarefazione e l’assenza che non verso il ‘pieno’ del racconto.
Poi alla tela si sostituisce la masonite: una tavola, preferibilmente di ridotte dimensioni, ove Cuniberti fa precipitare i suoi viaggi impossibili, i suoi sogni più avventurati. Questa stagione perfetta s’apre alla fine degli anni Settanta, quando Pirro vergò, per sé solo, alcuni “comandamenti” alla pittura nei quali egli elencava tra l’altro quella “decina di possibili argomenti di rappresentazione” che da allora in avanti avrebbero abitato e sommosso d’illogicità le sue superfici: “dialoghi fra bruchi su di una mensola ben progettata – rumori e fatiche di quattro germogli nell’intento di raggiungere la superficie di una terra ostile e male abitata – giochi del vento su di un crinale …”. Nel mondo dolcissimo di Cuniberti, annidate nei suoi cieli spaziosi o appena dietro la curva serpentinante dei suoi strambi orizzonti; celate nelle sue mappe fasulle; mimetizzate dietro i sentieri dove salgono leggeri i portatori di numeri, di lettere, di ideogrammi; o nascoste dietro i traguardi e i trampolini dove planano o prendono slancio gli alianti – ovunque, abitano perenni la frizione logica, l’impossibilità, l’allarme. Così, trascritta sulla carta o sulla tavoletta di masonite per mezzo di una tessitura pittorica non naturalistica, la topografica realtà di Pirro si porta costantemente dietro il suo punto interrogativo. Ne esce una realtà tangibile ma che nessuno è mai giunto a toccare; visibile, ma senza che alcuno, finora, l’abbia potuta incontrare.