La Repubblica. Chagall e Dario Fo
- Gennaio 3, 2016 -
“Marc Chagall e Dario Fo non si sono mai incontrati, ma hanno condiviso molto. A partire dall’amore per la libertà contro l’arroganza del potere, dall’attenzione per gli ultimi, dalle storie senza storia, dal rispetto per il popolo e il popolare”: è Luigi Di Corato a scrivere così, introducendo le due mostre gemelle aperte oggi al Museo di Santa Giulia di Brescia (fino al 15 febbraio 2016; cataloghi Giunti), rispettivamente dedicate agli anni giovanili di Chagall (quelli da lui trascorsi in Russia sino al ‘22; con una parentesi importante, all’inizio del secondo decennio del secolo, d’un primo soggiorno a Parigi), e da un “omaggio a Chagall” di Fo: una ventina fra tele e tavole recenti, freschissime, da lui dedicate a quello che fu il suo primo mentore nel suo laboratorio di pittura, proseguito poi all’Accademia di Brera di Milano, prima d’essere divelto da quella prima vocazione dalla passione per il teatro. Una strana accoppiata, al museo bresciano; ma non senza una radice che affonda nella verità di anni lontani: quando Fo, che dopo la seconda guerra era andato a Parigi ad abbeverarsi di libertà proprio come vi s’era recato Chagall alla vigilia del primo conflitto mondiale, vide nella capitale francese una grande antologica del russo, e se ne invaghì al punto di divenirne una sorta di clone, e d’essere sollecitato dai compagni d’accademia a spacciare i propri dipinti per quelli del maestro: così che egli scrive oggi, con affetto invariato: “non solo Chagall mi ha fatto conoscere il surreale e il fantastico, ma mi fatto anche da maestro sul modo apparentemente arruffone di stendere i colori”. Quel modo che prende ancora oggi il Fo pittore: che s’ispira per i temi della sua allegra scorribanda chagalliana agli anni più maturi del maestro russo, al turbinare gioioso dei colori che impazzano sulla superficie, ignorando prospettiva e razionale sintassi degli spazi, e riscoprendo di pari passo i tesori sconfinati di un’altra eredità già fatta propria da Chagall, quella di Matisse.
Gli anni giovanili di Chagall furono invece avvolti dalla malinconia. Malinconia d’aver cercato oltre il suo paese natale, Vitebsk; oltre i suoi tetti dove il nonno suonava il violino e mangiava carote; e dove tutto era rosa come il suo volto imberbe, sempre troppo stupito e commosso perché gli altri lo prendessero sul serio. “Alla fine sarei potuto restare in qualche buco di Vitebsk”. Se solo gli avessero consentito d’essere un pittore! Invece no, e allora lui vagheggiò d’andare altrove, “cercando di trovare quel cantuccio che potesse guarirmi, che mi aiutasse a dipingere quadri non di questo mondo, non accademici, non formali, bensì che mi dessero la pace e fossero come lacrime sospese nell’aria”. A Parigi, dove risiederà dal 1911 al ’14, Chagall conosce e frequenta, tramite il poeta Blaise Cendras, fra gli altri, Apollinaire e Jacob, Archipenko e Léger. Guarda allora con sospettoso interesse il cubismo che impera, ma non si lascia sedurre fino in fondo né da quella né da altre ‘avanguardie’. Qualcosa ne trattiene più a lungo lo sguardo (oltre a Matisse, Derain, che è nel frattempo tornato al disegno). Ma quando ritorna in Russia, dove pensa di trattenersi per pochi mesi e dove in realtà rimarrà fino al 1922, immagina ancora profeti, rabbini, e Bella – la fidanzata – che vuole scappare nel cielo bianco di Vitebsk (qui, tra l’altro, L’ebreo in rosa, Rabbino con cedro e la celebre Passeggiata del Museo Russo di Stato di San Pietroburgo). Chagall, sordo al suprematismo e al costruttivismo, torna alle sue radici, e preannuncia già interamente quel che sarà.