La monotonia di Morandi
- Giugno 5, 2015 -
Intervento alla giornata di studi morandiana, Roma, Accademia di San Luca, 5 giugno 2015
La monotonia di Morandi
S’è spesso tacciata la pittura di Giorgio Morandi – in particolare nel secondo dopoguerra, quando sembrò lecito richiedere all’arte figurativa di testimoniare il dolore e la lotta per un mondo diverso e migliore – di monotonia nella scelta dei suoi temi. Delle sue sempre eguali, e rade, occasioni visive; dei suoi pretesti figurativi invariati nei cinquant’anni e più che durò la sua pittura.
La finestra della casa bolognese di via Fondazza e le colline di Grizzana come unico suo spalto sul mondo. E poi i vasi e le bottiglie, le ciotole e le piccole scatole, i bicchieri e la fruttiera, le brocche e la custodia dell’orologio: i pochi oggetti che trovava andando per il mondo, che sceglieva qualche volta per caso e qualche volta con amore; che custodiva gelosamente, lasciando che la polvere vi si depositasse lenta, nella camera adibita a studio. E che poi di volta in volta componeva sul tavolo per trarne le sue nature morte.
Che poi, dal 1911, l’anno d’esordio, al 1964, l’anno della morte, non si sia mai dato un solo lustro che non innovasse profondamente sul precedente, passò quasi sotto silenzio. Che, in gioventù come poi sempre, ogni nuova poggiatura di forma ripetesse le movenze diverse che andava indagando la più alta vicenda pittorica italiana ed europea (così che un’eco del primo cubismo ancora cézanniano, e persino di certo futurismo; poi la suggestione della Metafisica, e infine di un ritorno al classico passarono in lui, prima ancora che giungesse la maturità): che tutto questo diverso divenire, poi, si sia di frequente dimenticato e comunque spesso subordinato di fronte alla presunta “monotonia” del tema, è diffusa quanto incredibile realtà.
In verità, esattamente all’opposto, Morandi usa, e certo consapevolmente, la forte omogeneità della propria “costituzione d’oggetto” per concentrare la sua energia creativa nell’attimo cruciale di quella che Cesare Brandi avrebbe nominato la “formulazione d’immagine”. Allora è appunto il suo lastricare la propria strada di intenzioni di forma sempre rinnovate che giustifica una verifica: per la quale ho scelto oggi di dire brevemente dei suoi anni Cinquanta, quelli che immediatamente anticipano gli ultimi, tremanti e altissimi anni della sua operosità: nei quali si manifesta un nuovo turbamento dello sguardo, che avrà in Morandi, forse, l’unico precedente nei paesaggi sommossi degli anni di guerra.
Disomogeneo, dunque, profondamente segnato al suo interno da pulsioni e attitudini difformi, si dimostra subito anche questo suo tempo tardo – il sesto decennio del secolo – che parrebbe ad un primo sguardo il suo più monolitico. E che invece si svela mobile e molteplice fin dall’avvio: a cominciare da quella Natura morta del ’51, per fare un solo esempio, nella quale i tre oggetti che la compongono, bagnati di una luce calda e ambrata, stanno senza peso sul bordo d’un tavolo che s’allunga in tralice, come fosse una prora; con un suo angolo sospinto verso un inusuale affondo prospettico, sottolineato dall’ombra lieve che proietta sul piano d’appoggio la bottiglia dal collo lungo. Il trepido tepore che invade la piccola tela, lasciandola tutta vivere nell’incanto dell’assidua luce dorata che ovunque l’avvolge ricorda ancora qualcosa del tempo immediatamente precedente, quando Morandi riassapora, dopo la guerra e i suoi oscuri fantasmi, “con squisitezza profonda, la pittura e il piacere della pittura”; ma sono infine, questa natura morta e il suo spazio cigolante, nuovissimi.
Ma Arcangeli giustamente avverte che a questa data è già in atto uno “scatto mentale” di Morandi, che lo condurrà a breve termine, e prima di tutto nelle nature morte “a pianta quadrata”, ad un nuovo controllo dell’emozione, e a dipinti che, se “non è facile chiamar classici tout court”, certo ripensano in qualche misura il tempo ormai remoto dei “Valori Plastici”, quando il sogno di volumi castamente e perfettamente arginati da un segno che margina e definisce gli oggetti aveva condotto Morandi a condividere il clima diffuso di un recupero di ipotesi classiche.
Ed ecco, cronologicamente prossime alla Natura morta di cui si diceva, allinearsene altre tutte diverse, distese fra il ’52 e il ’54: dove gli oggetti, cresciuti per numero, si stringono a fare quella “sorta di fortilizio rettangolo delle cose” (sono ancora parole di Arcangeli) nel quale prima preoccupazione della pittura è appunto quella d’iscrivere la totalità delle presenze quotidiane in un partito spaziale di geometrico nitore, sottraendole al tumulto, al disordine e alla casualità della vita. Un disegno semplificato le delinea, mentre la luce, su di esse, quasi sempre frontale, esclude le ombre, così che le forme vanno come smarrendo la loro esistenza individua, per esistere soltanto come sobrie e misurate quantità di spazio.
E’ un modo, questo, che occupa in misura preponderante i propositi del pittore per tutta la prima metà del decennio: tempo che però ha al suo interno altre eccezioni. Come, sempre solo ad esempio, si fa manifesto in una Natura morta del ’53: in cui si verifica già quell’incardinare gli oggetti in profondità lungo un asse centrale, così che la loro gremita successione nasconda alla vista una porzione crescente dei più lontani. Isolati in tal modo al centro della composizione, essi resisteranno negli anni sempre più labilmente al dissolvimento della loro integrità plastica: sino ad apparire sulla tela, tra la fine d’anni Cinquanta ed avvio del successivo decennio, soltanto come remoti fantasmi dell’esistente.
È di questi anni, anche, il frequente comporre di Morandi per serie di dipinti di analogo imposto, fra i quali corre soltanto qualche minima, quasi impercettibile divaricazione. Morandi non si preoccupò mai di esporli o comunque di mostrarli nella loro interezza, appunto, di “serie”. Ed è dunque improbabile che gli fosse presente il concetto di “serie” così come esso s’era dato, nella vicenda del moderno, da Monet in avanti: tanto meno con la valenza di fusione, in esso, dell’unità di tempo in una più distesa “durata”. Ma certo la caparbia, testarda e fin ossessiva scelta di non concedere alla sua pittura di natura morta neppure quella composizione appena variata dei suoi oggetti esitò un’ultima sottrazione al peso specifico, esistenzialmente coinvolto, del singolo oggetto: che proprio dalla sua costante iterazione veniva sottratto a ogni imprevedibilità, ad ogni variazione di umore. Così che può verificarsi, proprio nelle “serie” degli anni Cinquanta, la verità profonda di uno degli assunti cruciali della poetica morandiana: “nulla è più astratto del mondo visibile”.
Viene infine, allo scadere del decennio, un altro magico gruppo di opere coese. Proprio al ’59 si colloca, ad esempio, la Natura morta con due brocche gialle, quasi uguali, mal poste sul piano di posa; e, quella di sinistra, come lievitante oltre l’orizzonte in curva, che la sagoma della brocca sforza e sospinge implausibilmente verso l’alto. E già qui, non c’è più un disegno che argini la forma, né più ombre che attestino un volume, e che ne certifichino una collocazione congrua nello spazio.
Poi, nei suoi anni estremi, Morandi sembra, ancora e ancora, ripetere a sé stesso l’assunto più sopra ricordato, che nulla sia più astratto del reale. Quando, ad esempio, i suoi oggetti smarriscono per sempre peso e volume, e divengono non più che larvali apparizioni, fiati e cenere, sul breve rettangolo della pittura. V’è stato chi, come Franz Morat, ha già da tempo sospettato che proprio questi anni segnino un’acme assoluta della qualità di Morandi: proprio come Roberto Longhi ipotizzò che quell’acme fosse da ravvisarsi nei paesaggi di Grizzana dei primi anni Quaranta (ma, appunto, Longhi lo diceva nel ’45, presentando a Firenze quella che fu la prima personale di Morandi nell’Italia liberata; e pensava dunque, proprio come avrebbe fatto più tardi Morat, a un “ultimo Morandi”).
Poi, subito appresso, dopo un ultimo sforzo di radunare oggetti a baluardo contro il silenzio che incombe (nella Natura morta Maramotti del ’62), si dànno la pallida, spettrale apparizione degli oggetti allineati su una profondità ormai inesistente nella Natura morta Ghiringhelli, e le due tele ultime: bianco su bianco, grigio sopra grigio, raro colore su una materia tenuta bassissima, tanto che il vorticare cieco che vi fa il pennello sembra erodere e scavare, piuttosto che, come dovrebbe, depositare pittura. L’oggetto è adesso definitivamente lontano: scambiato da Morandi non con un’algida astrazione, ma una colma misura di sensi, saggi e insieme dolorosi.