la Repubblica. Piero Guccione: una monografia di Marco Goldin
- Maggio 3, 2015 -
Sono opere di grande formato quelle che fanno oggi la mostra di Piero Guccione aperta nella sede della Pinacoteca Civica vicentina di Palazzo Chiericati (a cura di Marco Goldin, che dedica contestualmente al pittore un’ampia monografia, edita da Linea d’ombra Libri; fino al 2 giugno). Opere datate agli ultimi venticinque anni, e dunque appartenenti alla sua piena maturità (Guccione, nato a Scicli nel 1935, compirà a giorni ottant’anni); opere, quasi tutte, che hanno per unico soggetto il mare: quel Mediterraneo che circonda la sua Sicilia.
Erano gli albori degli anni Settanta quando questa ‘figura’ semplice e disadorna – il mare, appunto – fece il suo ingresso in una pittura che già molto aveva cercato, nell’ambito della pittura di realtà del dopoguerra italiano, e romano in particolare; e molto dunque conosceva. Di certo iperrealismo americano, soprattutto, ma poi di tanto altro a lui più prossimo: da Vespignani a Bacon, senza che gli fosse necessario fare fra quei suoi primi ‘maestri’ una serrata gerarchia; e con l’occhio attento e vigile sui risultati, anche, di taluno dei suoi giovani compagni di strada, come Titina Maselli, scelti fra i più renitenti a chiudersi nel dogma del realismo. Appoggiato allora dalla critica marxista, Guccione – che s’era presto trasferito a Roma, dove rimarrà fino alla fine dell’ottavo decennio del secolo – sembrava avviato a sviluppare in quell’alveo la sua pittura. Nonostante un’ambiguità del vedere, una sorta di allarme che pervadeva la sua vicinanza al dato di natura, che indagava come sdoppiandolo e facendolo incerto del suo approdo. Così che, percossa l’ovvietà dello sguardo, vennero sin da quei suoi inizi, a complicare il suo spazio, i primi sbarramenti (di una grata attraverso la quale s’intravedeva un giardino fiorito, di una verticale che s’alzava improvvisa nella composizione), e i primi riflessi che moltiplicavano la visione (le nuvole specchiate dalla lucida carrozzeria della Volkswagen). A quel suo modo, che lo collocava già in un ambito distante dalla vulgata realista, Guccione dovette i suoi primi riscontri in patria, presto seguiti da un diffuso credito internazionale (soprattutto saldo in Francia e negli Stati Uniti).
Finché la sua terra non se lo riprese: è il 1979 quando rientra definitivamente in Sicilia; e da allora egli ha vissuto con l’immensa distesa del Mediterraneo davanti agli occhi. Finché, come sapeva, dallo sguardo quella vastità smisurata gli è scesa nell’animo, occupandolo intera. Sono state rare, da allora, le incursioni di Guccione su temi diversi: un campo di grano, talora; o – in una serie notevolissima che ha avuto forse la sua acme nei pastelli d’anni Ottanta – l’ombra vasta e leggera che il sole velato deposita sui monti Iblei. Silenzio, incanto, malinconia lesse in quelle immagini Roberto Tassi; e un’invincibile “tristezza di fronte alle cose”. Ma era soprattutto l’azzurro colmo del mare a sedurlo, adesso. Un mare entro cui si scorgevano ancora striature, lunghe diagonali, forse, di sole sull’acqua; o passaggi – fors’anche – di una imbarcazione: come a turbare ancora una volta lo sguardo sulle cose della natura. Poi la linea dell’orizzonte, che era stata tenuta altissima, fino a sfiorare il margine superiore del dipinto, si abbassa bruscamente: e giunge a delimitare, scrive oggi Goldin, “quel bordo che confina ugualmente la visione e la cecità”; fino a lasciare che la tela sia invasa soltanto dall’azzurro più tenue del chiarore del cielo.