la Repubblica: Romagnoni a Milano
- Gennaio 4, 2015 -
Milano. “Un’inclinazione inquieta e drammatica della coscienza, un sentimento infelice della storia”: con questo aspro retaggio che, secondo quanto scrisse Mario De Micheli, gli avevano confermato tante letture giovanili – di Kierkegaard, di Camus, di Sartre – Bepi Romagnoni accede alla pittura, cui decide di dedicarsi all’inizio degli anni Cinquanta, e che potrà praticare solo per un decennio: da quando esce dall’Accademia di Brera ed ha a Milano la sua prima personale (1955) alla morte prematura nel ’64. In quel breve tragitto d’anni, Romagnoni ha messo in immagine il malessere profondo suo e di una intera generazione di artisti e intellettuali che si vide stretta fra i due fronti opposti, e l’un contro l’altro vanamente armati, del realismo e del formalismo: senza che da questo dissidio sia infine sgorgata una via praticabile d’azione. Nel novembre del ’56, infine, l’invasione sovietica dell’Ungheria spaccò definitivamente, in Occidente, il fronte del realismo, e con esso il sogno di costruire un’arte vicina alla lotta delle masse; “quanto alla pittura, è diventato un mestiere difficile e scabroso”, scrisse amaramente, poco dopo, Romagnoni.
E fu allora quasi naturale per lui stringersi ad alcuni dei vecchi compagni d’Accademia (fra i quali Mino Ceretti, Giuseppe Guerreschi e Tino Vaglieri) e dar vita a quel diverso realismo, non più propositivo e ottimista, ma venato di malinconia e di rimpianto, che Marco Valsecchi chiamò “esistenziale”: regalando a quel gruppo senza bandiera e senza programma almeno un fortunato battesimo. Fu un modo, il loro, sofferto e ulcerato, di parlare all’altro, di comunicargli non messaggi ma quasi soltanto il proprio male di vivere. Un modo cui Romagnoni giunse attraverso una memoria di quella parte del Novecento, soprattutto milanese, che sentiva ancora vitale (e tanti dei suoi dipinti iniziali ripartono infatti, ad esempio, dalle prime Periferie di Sironi); e uno sguardo attento e lucido su tanta pittura più recente, resagli disponibile nella Milano colta dei suoi giorni: da Gorky a De Kooning, da Bacon a Sutherland.
Cinquant’anni sono trascorsi dalla sua morte: ora una giusta e ampia retrospettiva ne ricorda l’intensa parabola (“Il racconto interrotto: Bepi Romagnoni, 1930-1964”, Credito Valtellinese, fino all’8 febbraio; a cura di Ruggero Montrasio e Raffaele Bedarida, catalogo Allemandi). Ripercorre tutti i suoi pochi anni: a muovere dal realismo iniziale, che deve ancora qualcosa al clima di “Corrente”, poi a Vespignani e a Bernard Buffet, quindi alla breve tangenza con l’informale (le figure nere di Uomo e di Prelato del ‘58), e oltre. Ma fulcro della mostra sono poi i Racconti dei primi anni Sessanta, nei quali una pittura densa e strusciata, dal grave timbro cromatico registrato quasi soltanto dalle ocra e dai grigi, qua e là rialzati dai rari rossi, azzurri, aranci, immagina un mondo di cose divelte, erose, strappate, che s’incontrano, si scontrano e s’incastrano dolorosamente l’una nell’altra, portate fin sul limite della riconoscibilità. Una sedia, un tavolo, una mano, un martello… O solo aspri segni tracciati dal nero. Brandelli di una quotidianità spoglia, disamena; “universi di oggetti ridotti all’osso”; ma, “forti come rocce”, ha scritto anni fa Ermanno Krumm, essi resistono, cigolano, gridano il proprio dolore e la propria intransigente volontà di vivere in uno spazio compresso senz’aria e senza vie di fuga: uno spazio angustiato e ripiegato su sé stesso che è il vero tesoro di questa pittura.