la Repubblica: Mario Sironi

- Ottobre 2, 2014 -

Roma. Un breve transito nel futurismo, invogliato soprattutto da Boccioni, che – a Roma – gli fa conoscere Balla, e che presto gli fa compiere il passo decisivo oltre il vago simbolismo degli esordi, verso la contemporaneità. Poi, dopo l’adesione comunque tarda al movimento di Marinetti, dopo la morte precoce di Boccioni (1916) e dopo la fine della guerra, un soggiorno nuovamente romano gli schiude le porte alla metafisica di De Chirico e al clima classicista di “Valori Plastici”: così, dopo aver dato sostanza plastica al futurismo, interpreta, come trasmettendo loro un nuovo pathos, le astratte sospensioni della metafisica. Nel ’19 infine termina questo suo lungo laboratorio; e, a Milano dove si trasferisce definitivamente, è pronto per i suoi primi capolavori: sono periferie della città d’Italia più moderna, più industriale ma anche più carica di conflitti sociali; periferie disabitate, popolate solo da caseggiati ciechi, allungate in raggelate prospettive senza punti di fuga.

Mario Sironi (nato a Sassari da padre lombardo e madre toscana nel 1885; morto a Milano nel 1961) ha toccato con quei suoi Paesaggi urbani, fra ’19 e ’21, la maturità. L’ha allora posseduta creando un’immagine che del suo tempo sa stringere tutto l’essenziale: il dolore, la fatica, la solitudine. Un’immagine che è memore, assieme, dell’asprezza del futurismo boccioniano, del silenzio attonito di De Chirico, e della secolare nobiltà della città, Roma, dove ha trascorso la prima giovinezza.

Non spreca niente, Sironi, di quel che ha vissuto; non dimentica nulla. E con i Paesaggi urbani, con quei quadri non grandi ma che ogni volta ingigantiscono nella percezione che se ne ha, Sironi di fatto inaugura il nostro “Novecento” – un modo in cui presto si mischieranno grano e loglio, ma che nasce da queste purissime radici, prima che le sue ragioni si compromettano con quelle di uno stanco ritorno all’ordine museale, o peggio, nella seconda metà degli anni Trenta, con la stentorea retorica di un’arte di regime.

Contro tutti i ritorni in pittura si intitola il manifesto, ancora di sapore di futurista, che Sironi firma con Russolo, Dudreville e Funi nel gennaio 1921, e che infatti figurerà in catalogo, quell’anno stesso, d’una mostra parigina “des peintres futuristes italiens”. A conferma del fatto che “tra il futurismo e il nascente ‘Novecento’ non c’è a questa data una contrapposizione, ma un passaggio senza – o quasi – soluzione di continuità”: nell’analisi che compie Elena Pontiggia nel denso saggio che apre oggi il catalogo Skira della ampia mostra su tutto il tempo di Sironi che la stessa Pontiggia ha curato, con la collaborazione di Romana Sironi, promossa da Comunicare Organizzando al Complesso del Vittoriano di Roma. Son trascorsi vent’anni dall’altra completissima rassegna sironiana della Galleria Nazionale d’arte moderna, ed è oggi giusto tornare sul pittore, ora che maggiori nozioni si hanno sul suo ruolo – che fu egemone, in stretta contiguità di intenti con Margherita Sarfatti – nel dare avvio al “Novecento”. Ora che si ha, soprattutto, più piena consapevolezza dello iato profondo che divide il primo volgersi dell’arte italiana ad un trepido sentimento dell’antico dalla caduta di tanti nostri artisti più o meno legati al “Novecento” nelle spire mortifere del successivo “ritorno all’ordine”. In ciò Roma affiancò tempestivamente la Milano della Sarfatti e di Sironi, cementando attorno a “Valori Plastici”, la rivista di Mario Broglio pubblicata dal ’18 al ’22, un’analoga tensione – interpretata soprattutto da Alberto Savinio – verso un “classico” che sperava di non eludere la modernità, rigettando solo gli ‘eccessi’ delle avanguardie.

Poi s’alzò, davanti all’Italia tutta, il fascismo, presto corrotto nel suo iniziale slancio che è stato detto “rivoluzionario”, dato comunque nell’alveo d’un vago socialismo. Sironi, al fondo dell’animo “anarchico” (seppure non “bolscevico”, come lo disse Arturo Martini), è però legato a Mussolini e alla Sarfatti; ed a lei è dunque a fianco nelle molte iniziative del “Novecento”, in Italia – a partire dalla Biennale di Venezia del ’24, dove Sironi espose tra l’altro i suoi capolavori ‘classicisti’, fra i quali la Venere e l’Architetto, oggi qui in mostra – e soprattutto in Europa. Man mano egli s’allontanerà poi da quella sorta di purismo disegnativo, da quell’idealismo della forma perfetta che prende presto a governare tanta arte nostra (trionfando, tra l’altro, nelle stanche Biennali veneziane dirette da Maraini), e caricherà la sua pittura di un modo più franto e materico: riscoprendo il malessere, il pessimismo, la melanconia che ne saranno sempre un sigla emotiva. Così, accanto alla trasfigurazione mitica dei temi del lavoro e della fatica dell’uomo, vengono quegli episodi di pittura da dir quasi pre-informali che molto tempo dopo susciteranno, fra lo stupore di tutti in un dopoguerra che compattamente condannava Sironi per le sue complicità con l’arte del ventennio fascista, l’ammirazione di un ‘uomo nuovo’ come Michel Tapiè, che lo inserì fra i primi interpreti dell’informale nel suo celebre Un art autre (1952).

Era stato a partire dalla metà degli anni Trenta che Mussolini, dopo aver a più riprese negato (certo su intelligente indicazione della Sarfatti) la possibilità stessa di dar vita ad un’arte di Stato, s’era lasciato invece trasportare da un’opposta deriva. Trovando Sironi, che nel frattempo andava elaborando autonomamente un’insofferenza per la pittura da cavalletto e per i meccanismi del mercato, disposto ad affiancarlo e a interpretarne la volontà di scrivere ad affresco, sui muri pubblici di chiese e palazzi, e non ad olio su quadri destinati a pochi, la vicenda contemporanea della pittura. È del ’33, in margine alla V Triennale di Milano, che Sironi pubblica il suo Manifesto della pittura murale; ed è di poco successiva l’adesione sua al programma iconografico del regime: tanto che, nelle parole della Pontiggia, “con il 1935 il tema quasi unico della Grande Decorazione sironiana diventa l’Italia fascista”; ed anche di questo aspetto, certo oggi meno seducente, dell’operosità del pittore la mostra odierna dà ampio conto.