‘Scialoja e Leoncillo, ottobre 1957′, in ‘Scritti in onore di Giuliano Briganti’, Milano, Longanesi, 1990, pp. 331-334

 

Toti Scialoja conserva due piccole opere non note di Leoncillo: un Ritratto di Donata che risale circa al 1944 e una terracotta smaltata che per dimensioni e determinazioni stilistiche si avvicina molto ai due Appunti datati, nell’avvio al catalogo generale dell’opera dello scultore curato da Spadoni per le edizioni dell’ Attico di Bruno Sargentini, al 1958. Anche questo, dunque, un Appunto, e anche questo risalente a quell’anno cruciale per il nuovo cammino di Leoncillo, indirizzato ormai verso la sua stagione più alta. Questa terracotta, anzi, ha qualche probabilità di essere la prima di quel piccolo gruppo, se fu portata in dono a Scialoja al suo studio di piazza Monte Savello uno dei primissimi mesi del ’58, in ricordo di alcuni incontri avvenuti a Roma nell’ottobre ’57 fra il pittore e lo scultore. Che si ritrovano, allora, a scambiarsi idee dopo molti anni di separatezza: Toti da un certo tempo avviato all’astrazione (con tutto ciò che questo comportava sul piano delle frequentazioni quotidiane, delle solidarietà interrotte con i più vecchi compagni di strada – analogamente a quanto accadeva, ad esempio, quegli stessi anni a Mafai); Leoncillo in una crisi che sarebbe stata feconda di risultati, ma ancora vicino al gruppo di amici di sempre.

Scialoja era stato, alla fine del ’56, per tre mesi a New York. Lì aveva trovato, nella pittura della Decima Strada, alcune fondamentali conferme a quanto – prima sul terreno dell’elaborazione teorica, immediatamente dopo su quello concreto della pratica pittorica – andava da almeno tre anni sentendo come per lui irrinunciabile: quell’ansia di “entrare nella pittura per intero, con tutto l’ingombro della vita”, quel bisogno di “premere direttamente con la mia vita su tutta la superficie della tela”, quell’urgenza di tramutare l’orgogliosa “intenzione” del prometeico creatore in “accoglienza” che l’opera-grembo fa dell’intera “coscienza” dell’artista – secondo quanto egli appunta, fra ’54 e ’57, sul Diario della pittura, ancora oggi per la sua maggior parte inedito.

Leoncillo, quegli anni e quei mesi, viveva il disagio di una scultura (qual era stata, pur con molti rivolgimenti interni, sempre la sua) vincolata a una mimesi delle forme di natura; e cominciava a far propria quell’ansia che gli farà dire e promettere, di fronte a cose sue che presentava al pubblico: “dopo ne farò altre meno naturali, quelle che mi premono di più: perché noi non siamo naturali” . Nelle pagine del suo Piccolo diario datate al ’57, i fantasmi che attraversano la ricerca di Leoncillo si scoprono, in parte, i medesimi che avevano abitato poco innanzi la mente di Scialoja. Così – pur con un tratto più interrogante che conclusivo, più problematico che assertivo – Leoncillo parla di lacerazione e di gesto, di automatismo e di forma. A volte, le tangenze con il pensiero di Scialoja sono allora stringenti: “E la creta diviene materia nostra per gli atti che compiamo su essa e con essa, atti che nascono da una reazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dolcezza, dalla disperazione motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e vediamo” (‘da quello che sentiamo e viviamo’, avrebbe forse solo corretto Scialoja). Ancora: “La grandezza di una scultura” – altrove: “lo spessore di una scultura” – “è rapportata alla ampiezza dei gesti che occorrono per farla, alla natura del loro intersecarsi e sommarsi […] tagliare la creta col filo è realizzare un atto decisivo crudele e liberatore […] una successione di atti crea una forma… una forma che si organizza su quegli stessi atti, sulla loro successione”. E infine: “Prima una cosa è, poi può essere concettualizzata… Così è un colore. Un colore rosso è un’idea, ma lo zolfo è giallo”, mentre Scialoja aveva scritto: “Allora il colore è sbiancato perché è argilla, ed è giallo perché è zolfo, ed è rosso perché è ruggine”.

Esistono, è naturale, anche divergenze: prima delle impronte (che risalgono al settembre del ’57, e che segnano il ritorno prepotente di un concetto europeo di forma nel meccanismo creativo legato al gesto immediato e cieco, in parte mediato dalla pittura americana), Scialoja ha intera fede nell’automatismo del gesto. Leoncillo scrive invece: “Perché parlare di automatismo, di arte senza forma? In fondo la forma può essere anche prevista, l’importante è che nasca da un fare, che non sia autonoma da esso”. E ancora Leoncillo parla del suo procedimento tecnico come di un continuo “aggiungere, togliere, quindi lacerazioni nella creta ed escrescenze”, che si discosta dall’ esclusività e dall’attimalità del gesto di Scialoja. Ma, nonostante queste individuali determinazioni, si scopre facilmente la contiguità che il pensiero sull’arte di Leoncillo andava realizzando rispetto alla nuova pittura dell’antico compagno.

Nell’ottobre del ’57 Scialoja annota sul Diario: “Una intera domenica passata con lo scultore L. che è in crisi. Si informa della mia tecnica. Gli spiego che dipingo stampando, schiacciando, ecc. Mi chiede per quale motivo profondo, costitutivo, io abbia bisogno di un interposto modo, di un diaframma, di un meccanismo tra me e la pennellata diretta: e perché questa esigenza, riscontrabile oggi in tutti gli artisti vivi, stia nascendo anche in lui. Il pittore [dice ancora Toti all’amico] non è più il demiurgo che impartisce i suoi dettati, le sue lezioni, le sue scelte, le sue grazie, i suoi giudizi sull’intera natura, cioè sul suo Regno. La pennellata non è più il suo sigillo […] Il mezzo sarà il nostro gesto, cioè la materia stessa messa in moto: abbiamo bisogno di una corrispondenza di una giustezza e di una infallibilità che non si riferiscano ad un pensiero precedente e sovrastante ma che appartengano proprio alla presenza fisica ed oggettiva dell’opera d’arte-cosa esistente”. Quel giorno stesso, o in occasione di un altro di quegli incontri, anche Leoncillo ne scrive sul suo diario, con forte accento polemico, quasi con rabbia: “Quanti discorsi inutili questa sera con T. Sì. Protagonista è il gesto, il fare, la creta, i colori. La materia insomma. La loro successione, il loro articolarsi in un discorso, la forma che ne nasce, ma dietro questo deve esserci il motivo, il sentimento profondo che si vuol dire, i mille richiami a ciò che si è visto, sentito, pensato. Senza questa ragione espressiva tutto è vano, non c’è nulla. l gesti possono essere mille, stupidi e inutili. […] Mi parla di orma. E io vedo un’orma qualunque fatta con un pezzo di giornale imbevuto di colore in modo che a tutti verrebbe uguale. A me l’idea di orma va benissimo, ma voglio la tua orma, quella dei tuoi anni, dei tuoi patimenti, della tua storia, di quello che ti è accaduto e che senti oggi, non un’orma anonima, che più personale sarebbe quella che faresti con il sedere sulla rena”.

Ma, pochissimi mesi dopo, l’Appunto portato a Toti suggella in modo diverso quel momento di comunicazione intellettuale intercorso fra i due. Tagli brevi e veloci condotti sulla terra, dove restano evidenti solo qua e là, radi, gli interventi della mano; nessun esibito dolore, come è così spesso in Leoncillo, nessuna pateticità dell’immagine, nessun recondito significato simbolico. Soltanto nudi gesti che determinano l’unico piano della superficie, sulla quale tutti si allineano, senza ricercare un’illusiva, drammatica profondità. L’opera vive di null’altro che dell’aggrumarsi e distendersi di quei gesti, del loro organizzarsi asintattico, per pause e accelerazioni, nel campo compresso dell’immagine. Non solamente gestes blancs parmi les solitudes, ma chiara intenzione formale, sono quelle specchiature nere imposte sul chiarore dell’informe: al modo stesso delle impronte di Scialoja.

Concettualmente, tutto ciò fu sempre rifiutato da Leoncillo. Una vocazione interamente astratta, che inducesse l’intero portato esistenziale a manifestarsi all’interno di una griglia mentale strutturante gli atti elementari della scultura, non fu mai sua. Ancora in una pagina del Piccolo diario, probabilmente del ’60, scriveva: “sento di dover continuare fino in fondo questa mia inclinazione antiastratta. Le immagini di molti artisti di gesto, di molti artisti del fare, nascono da una posizione, un atteggiamento astratto. […] E invece l’immagine deve nascere da una evocazione complessa di realtà vista”. E proprio quell’evocazione ed elaborazione complessa del reale, quel calarsi nell’organico, immedesimandovi le ragioni della propria e dell’altrui esistenza, sta a vettore maggiore e più continuo dell’ultimo grande decennio di operosità dello scultore, sostenendo tutte le sue prove più note e amate: da Ore d’insonnia e Vento rosso del ’58, alle dolenti Sculture con gocce rosse, al San Sebastiano bianco del ’60, alla Luce perduta e alla Pietà, a Tempo ferito, a tante altre.

Qui la materia cresce e inorgoglisce, costruisce il proprio destino fra splendori e miserie, turgida o scavata, gemmata o erosa, in una identificazione totale, e interamente detta – fino al grido, allo spasimo – fra la vita autonoma di cui vive e l’intenzione allegorizzante del formatore. Ci fu però spazio, dentro gli anni maggiori di Leoncillo, anche per cose diverse: per momenti più quieti e pausati, per anse di pensiero nel fluire potente dei ritmi esistenziali e biologici della sua materia. Il taglio, in particolare, non fu sempre per lui gesto dilaniato, scavo, affondo cruento nel magma indifferenziato di vita e materia. Arrivò talvolta a qualificarsi come atto di conoscenza, interessato a indagare il modo del suo apparire piuttosto che la sua capacità di significare qualcosa di ulteriore. Una simile intenzione mi paiono soprattutto rivelare i Tagli bianchi del ’58 e del ’59, e ancor più i due Racconti di notte del ’61 e del ’63: ove il succedersi delle figure lisce e lucide alternate ai fondi opachi e corruschi determina un ritmo, un andamento, una scansione temporale che divengono egemoni nell’economia dell’immagine. Nella quale, in particolare, è difficile non riconoscere un’attiva influenza della pittura delle impronte di Scialoja, ove l’irruenza automatica del gesto, dato violento e cieco sulla tela, cedeva alla proposizione di una superficie scandita da un succedersi ritmato di eventi. Una suggestione, quella della pittura d Scialoja, che rimane dunque al margine delle più stringenti e durevoli ragioni dell’arte di Leoncillo; ma che pure fu talora in lui presente, a partire da quell’ottobre 1957  in cui egli andava cercando, fra tanti dubbiosi pensieri, nuove motivazioni alla sua scultura.